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Il sogno

Non può essere così buio con questo caldo, o forse non può esserci così caldo con questo buio. Delle due, l'una.

Mi rannicchio nell'oscurità dietro l'esile schermo di un cespuglio nano di creosoto, e sudo tutti i liquidi che mi restano in corpo. L'auto ha lasciato il garage quindici minuti fa. Nessuna luce si è accesa. La porta finestra è aperta di pochi centimetri, per far funzionare il deumidificatore. Immagino la sensazione dell'aria densa e fresca che soffia dalla vetrata. Vorrei che sfiorasse anche me.

Il mio stomaco borbotta, contraggo gli addominali per attutirne il rumore. C'è un tale silenzio che lo si sente rimbombare.

Ho tanta fame.

C'è un altro e più forte desiderio... un altro stomaco affamato lontano da qui, nascosto al sicuro e al buio, in attesa solitaria dentro la grotta primitiva che è la nostra casa provvisoria. Una casa angusta, di roccia vulcanica. Come farà se non torno? Provo tutta l'angoscia della maternità, senza averne nessuna esperienza. Mi sento orribilmente inerme. Jamie ha fame.

La casa è isolata. La tengo d'occhio da quando il sole era ancora alto e accecante, e penso che non ci sia neanche un cane.

Mi distendo dalla posizione rannicchiata, e le mie caviglie protestano urlando, ma rimango china per non sporgermi dal cespuglio. Il torrente in secca è sabbia liscia, un sentiero pallido sotto la luce delle stelle. Non sento rumori di automobili sulla strada.

So di cosa si accorgeranno una volta rientrati, i mostri che sembrano una coppia di brave persone poco più che cinquantenni. Capiranno esattamente cosa sono, e la ricerca inizierà subito. Devo scappare. Spero che siano andati a trascorrere la serata in città. Se non sbaglio è venerdì. Mantengono perfettamente le nostre abitudini, è difficile notare le differenze. Ecco perché hanno vinto.

La recinzione che circonda il cortile mi arriva ai fianchi. La scavalco con facilità, senza far rumore. Però il cortile è di ghiaia, devo stare attenta a camminare senza lasciare tracce. Arrivo fino al patio di cemento.

Le persiane sono aperte. La luce delle stelle è sufficiente a farmi capire che nelle stanze tutto è immobile. Sono contenta che la coppia abbia scelto un arredo spartano. Così è più difficile nascondersi. Certo, lo è anche per me, ma in ogni caso se devo nascondermi io vuol dire che è troppo tardi.

Faccio scorrere prima la porta esterna, poi la porta a vetri. Entrambe scivolano in silenzio. Misuro i passi sulle piastrelle, ma è solo un riflesso automatico. Nessuno mi aspetta, qui.

L'aria fresca è quasi il paradiso.

La cucina è alla mia sinistra. Vedo il riflesso del bancone di granito.

Sfilo la borsa di tela dalla spalla e inizio dal frigorifero. Un momento d'ansia quando lo apro e si accende la luce, ma trovo subito il pulsante e lo tengo premuto. Mi ha accecato. Non ho tempo di lasciare che gli occhi si abituino. Vado d'istinto.

Latte, formaggio a fette, avanzi dentro una ciotola di plastica. Spero che sia quella cosa con pollo e riso che li ho visti cucinare a cena. La mangeremo stanotte.

Succo di frutta, una borsa di mele. Carotine. Queste dureranno fino alla mattina.

Vado alla ricerca della dispensa. Ho bisogno di qualcosa che resista più a lungo.

Mentre afferro tutto ciò che posso, la vista migliora. Mmm, biscotti al cioccolato. Muoio dalla voglia di aprire la borsa, ma stringo i denti e ignoro la tensione nel mio stomaco vuoto.

La borsa si appesantisce in fretta. Ci basterà per una settimana, anche se staremo attenti. E non ho voglia di stare attenta; ho voglia di ingozzarmi. Mi infilo in tasca le barrette di cereali.

Una cosa ancora. Corro verso il lavandino e riempio la borraccia. Poi infilo la testa sotto l'acqua corrente e bevo direttamente dal rubinetto. L'acqua fa strani rumori quando raggiunge lo stomaco vuoto.

Ora che il lavoro è fatto, inizio a sentire il panico. Voglio uscire di qui. La civiltà è un'arma mortale.

Cammino verso l'uscita con gli occhi sul pavimento, attenta a non inciampare nella borsa pesante, e mi accorgo della sagoma nera nel patio soltanto quando sto per aprire la porta.

Sento la sua imprecazione soffocata nel preciso istante in cui uno stupido squittio di paura mi esce dalla bocca. Mi volto e scatto verso la porta principale, sperando che la serratura non sia chiusa o difficile da aprire.

Dopo nemmeno due passi, mani ruvide e pesanti mi afferrano le spalle e mi stringono a un corpo troppo grosso e forte per essere una donna. E la voce cupa mi dà ragione.

«Fai un rumore e sei morta» minaccia, goffo. Resto sorpresa dalla lama sottile e affilata che sento premere sulla pelle, sotto il mento.

Non capisco. È strano che mi conceda una scelta. Chi è questo mostro? Per quanto ne so, nessuno di loro ha mai infranto le regole. Rispondo nell'unico modo possibile.

«Fallo» esclamo a denti serrati. «Fallo e basta. Non voglio essere un parassita schifoso.»

Aspetto il coltello, con il cuore a pezzi. Ogni battito ha un nome. Jamie, Jamie, Jamie. Cosa sarà di te adesso?

«Furba» mormora l'uomo, e sembra quasi che non parli con me. «Devi essere una Cercatrice.» Il che significa che sono in trappola. Come facevano a saperlo? L'acciaio si allontana dalla mia gola, sostituito da una stretta dura come il ferro.

Respiro a malapena.

«Dove sono gli altri?» domanda, e stringe.

«Sono sola!» rispondo, stridula. Devo evitare che scopra Jamie. Cosa farà quando non mi vedrà tornare? Jamie ha fame!

Gli tiro una gomitata nello stomaco, e mi faccio male. I suoi addominali sono potenti come le mani. Molto strano. Muscoli come questi sono il risultato di una vita dura o dell'ossessione, cose da cui i parassiti stanno lontani.

Il mio colpo è andato a vuoto. Disperata, affondo il tallone sul collo del suo piede. Colto di sorpresa, vacilla. Mi sciolgo dalla presa, ma lui afferra la mia borsa e mi riavvicina a sé. Con la mano torna a stringermi la gola.

«La nostra pacifica ladra di cadaveri è aggressiva, eh?»

Le sue parole non hanno senso. Pensavo che gli alieni fossero tutti uguali. Forse anche tra loro c'è qualche pazzo.

Mi dibatto cercando di spezzare la morsa. Affondo le unghie nel suo braccio, ma questo non fa che rafforzarne la presa.

«Certo che ti ucciderò, spregevole ladra di corpi. Non sto scherzando.»

«E allora fallo!»

All'improvviso sbuffa, forse qualcuno dei miei gesti scomposti ha raggiunto l'obiettivo. Poi molla il mio braccio e mi prende per i capelli. Ci siamo. Sta per tagliarmi la gola. Mi preparo al contatto con la lama.

Invece, la mano che mi stringeva la gola si rilassa, poi con le dita ruvide e calde inizia a tastarmi la nuca.

«Impossibile» sussurra.

Sento il tonfo di un oggetto sul pavimento. Ha lasciato cadere il coltello? Penso a come afferrarlo. Magari buttandomi a terra. La mano che mi stringe i capelli non è salda abbastanza da impedirmi il movimento. Forse ho sentito dov'è caduta la lama.

All'improvviso mi volta. Sento uno scatto, e una luce mi acceca l'occhio sinistro. Mi si mozza il fiato, cerco immediatamente di allontanarmi. La morsa si stringe. La luce si accende sul mio occhio destro.

«Non ci credo» sussurra lui. «Sei ancora umana.»

Con le mani mi afferra le guance, e prima che riesca a liberarmi sento le sue labbra assalire le mie.

Per mezzo secondo resto impietrita. Nessuno mi ha mai dato un bacio in vita mia. Un bacio vero. A parte quelli dei miei genitori, leggeri, sulle guance o sulla fronte, tanti anni fa. Questa è una cosa che pensavo di non poter sentire mai. Eppure è una sensazione sfocata. Troppo panico, troppo terrore, troppa adrenalina.

Alzo il ginocchio e gli do una spinta decisa.

Lui tossisce, senza fiato, e sono libera. Anziché lanciarmi di nuovo verso l'ingresso principale recupero la borsa e prendo la direzione meno prevedibile, passo cioè sotto il suo braccio e schizzo fuori dalla porta finestra. Sono certa di poterlo seminare, malgrado il mio carico. Sono partita prima, e lui è ancora lì che tossisce. So dove andare, non lascerò tracce visibili nel buio. Non ho perso del cibo, per fortuna. Però temo che le barrette di cereali siano andate.

«Aspetta!» grida lui.

Sta' zitto, penso, ma non gli rispondo.

Mi sta inseguendo. Sento la sua voce sempre più vicina. «Non sono uno di loro!»

E come no. Con gli occhi fissi sulla sabbia, accelero. Mio padre diceva che corro come un ghepardo. Ero la più veloce della squadra di atletica, campionessa nazionale, una volta, prima che il mondo finisse.

«Ascoltami!» urla ancora a tutto volume. «Senti! Te lo dimostro. Fermati e guardami!»

Mi sa proprio di no. Attraverso il torrente in secca e fuggo tra i mesquites.

«Pensavo di essere rimasto solo! Per favore, devo parlare con te!»

La sua voce mi sorprende. È troppo vicina.

«Scusa se ti ho baciata! Sono stato uno stupido. È che sono solo da troppo tempo!»

«Stai zitto!» Non lo dico ad alta voce, ma so che mi sentirà. È ancora più vicino. Nessuno mi ha mai superato in velocità. Accelero.

Con un grugnito, anche lui accelera.

Qualcosa di grosso mi colpisce alla schiena e mi fa crollare. Sento la terra in bocca, la cosa che mi schiaccia è troppo pesante, non riesco a respirare.

«Aspetta. Un minuto» ansima.

Si sposta e mi gira a pancia in su. Mi si siede addosso e con le gambe mi intrappola le mani. Sta schiacciando il mio cibo. Con un ringhio cerco di sgusciare via.

«Guarda, guarda, guarda!» esclama. Estrae un piccolo cilindro dalla tasca posteriore e ne ruota la punta. Un fascio di luce si accende.

Con la torcia si illumina il viso.

La luce dà alla sua pelle un colorito giallastro. Mostra zigomi prominenti, un naso lungo e sottile, un mento deciso e squadrato. Le labbra sono tese in un ghigno, ma intuisco che sono piene, per un uomo. Ciglia e sopracciglia sono schiarite dal sole.

Ma ciò che vuole mostrarmi è altro.

Nei suoi occhi, che alla luce prendono un color terracotta chiaro, brilla soltanto il riflesso umano. Con la torcia alterna sinistro e destro.

«Visto? Sono come te.»

«Fammi vedere il collo.» La mia voce gronda sospetto. Voglio credere che questo sia l'ennesimo trucco. Non ne capisco il senso, ma sono sicura che un trucco ci sia. Non ho più speranze.

Increspa le labbra. «Be'... Non servirà a granché. Gli occhi non sono abbastanza? Hai visto, non sono uno di loro.»

«Perché non mi fai vedere il collo?»

«Perché ho una cicatrice.»

Faccio un altro tentativo di sgusciare via, ma con le mani lui mi blocca le spalle.

«Me la sono fatta da solo» spiega. «Un buon lavoro, tra l'altro, anche se ho sofferto un male cane. Io non ho tutti quei bei capelli con cui nascondere il collo. La cicatrice serve a mascherarmi.»

«Togliti di dosso.»

Ci pensa su, poi si alza con una mossa agile, senza usare le mani. Me ne offre una, a palmo aperto.

«Per favore, non scappare. E, ehm, per favore, non scalciare più.»

Non mi muovo. So che se provo a fuggire mi prenderà.

«Chi sei?» sussurro.

Sfodera un gran sorriso. «Mi chiamo Jared Howe. Non parlo con un altro essere umano da più di due anni, forse ti sembrerò un po'... matto. Perciò scusami, e dimmi come ti chiami.»

«Melanie» sussurro.

«Melanie» ripete lui. «Non sai che gioia sia conoscerti.»

Stringo forte la borsa, senza staccare gli occhi da lui. Avvicina la sua mano lentamente.

E io l'afferro.

Soltanto quando vedo la mia mano nella sua mi rendo conto che mi fido di lui.

Mi aiuta ad alzarmi, e non molla la presa nemmeno quando sono in piedi.

«E adesso?» domando, sulla difensiva.

«Be', non possiamo trattenerci qui. Torniamo nella casa? Ho lasciato là la borsa. Sei arrivata al frigo prima di me.»

Scuoto la testa.

Sembra capire quanto io sia fragile, vicina a crollare.

«Mi aspetti qui, allora?» domanda gentile. «Arrivo subito. Abbiamo bisogno di altro cibo.»

«Abbiamo?»

«Pensi che voglia lasciarti sparire così? Ti seguirò anche se non vorrai.»

Non voglio sparire così.

«Io...» Come faccio a non fidarmi di un altro essere umano? Siamo della stessa famiglia, membri della fratellanza in estinzione. «... Non ho tempo. Devo fare tanta strada e... Jamie mi aspetta.»

«Ah, non sei sola.» Per la prima volta la sua espressione è dubbiosa.

«È mio fratello. Ha soltanto nove anni, e quando non ci sono ha paura. Mi ci vorrà metà nottata per tornare da lui. Non può sapere se sono salva o no. Ha fame.» Come per darmi ragione, il mio stomaco brontola.

A Jared torna il sorriso, più luminoso di prima. «Può esserti utile avere un passaggio?»

«Un passaggio?»

«Senti la mia proposta. Tu aspetti qui mentre raccolgo altro cibo, poi ti porto dove vuoi con la mia jeep. È più veloce che correre... persino più veloce di te

«Hai un'auto?»

«Certo. Credi che sia venuto a piedi?»

Penso alle sei ore che ho impiegato per arrivare qui, e corrugo la fronte.

«Torneremo da tuo fratello in un batter d'occhio» promette Jared. «Non muoverti, okay?»

Annuisco.

«E per favore, mangia qualcosa. Non voglio che ci stanino per colpa del tuo stomaco.» Il suo sorriso disegna piccole rughe ai lati degli occhi. Il mio cuore sobbalza, e capisco che lo aspetterò qui, dovesse metterci tutta la notte.

Stringe ancora la mia mano. La lascia andare lentamente, mentre i suoi occhi non abbandonano i miei. Fa un passo indietro e si ferma.

«Per favore, non prendermi a calci» implora, chinandosi verso di me e afferrandomi il mento. Mi bacia ancora, e stavolta lo sento. Le sue labbra sono più delicate delle mani, e calde, persino nella notte rovente del deserto. Sono senza respiro. Con le mani, istintivamente, lo cerco. Tocco la pelle calda delle sue guance, la barba ruvida sul collo. Con le dita sfioro un tratto di pelle raggrinzita, un leggero rigonfiamento sotto la nuca.

Lancio un urlo.

Mi svegliai coperta di sudore. Prima ancora di ritrovare lucidità, percorsi con le dita, sulla nuca, la piccola cicatrice rimasta dopo l'inserzione. A stento individuai il lieve segno rosa con le dita. Le medicine del Guaritore avevano fatto il proprio dovere.

La cicatrice mal rimarginata di Jared non era mai stata granché, come travestimento.

Accesi la lampada accanto al letto in preda a un'agitazione incontrollabile per quel sogno così realistico, e attesi che il respiro rallentasse.

Un sogno nuovo, ma in sostanza identico ai tanti che mi perseguitavano da mesi.

No, non era un sogno. Era senz'altro un ricordo.

Sentivo ancora il calore delle labbra di Jared sulle mie. Senza volerlo, le mie mani si allungarono verso il lenzuolo stropicciato in cerca di qualcosa che non trovarono. Quando si arresero e caddero sul letto, inermi e vuote, fui presa dal dolore.

Sbattei le ciglia per liberare gli occhi dalle lacrime. Non sapevo quanto avrei resistito ancora. Com'era possibile sopravvivere in un mondo di corpi incapaci di confinare i ricordi nel passato? Di emozioni così forti che non capivo più quali appartenessero a me?

Sapevo che l'indomani sarei stata già stremata, ma mi sentivo troppo agitata, ci sarebbero volute ore per rilassarmi. A quel punto, meglio fare il mio dovere e lasciar perdere. Magari mi avrebbe aiutato a distrarmi da cose a cui era meglio non pensare.

Scesi dal letto e caracollai fino alla scrivania, occupata soltanto dal computer. Una manciata di secondi per accendere lo schermo, un'altra per aprire la posta elettronica. Non fu difficile trovare l'indirizzo della Cercatrice; in rubrica avevo solo quattro contatti: lei, il Guaritore, il mio nuovo principale e sua moglie, la mia Consolatrice.

Insieme alla mia ospite, Melanie Stryder, c'era un altro essere umano.

Non mi preoccupai nemmeno di scrivere un saluto.

Si chiama Jamie Stryder; è suo fratello.

Per un momento fui presa dal panico, al pensiero di quanto lei mi controllasse. In tutto quel tempo non avevo mai avuto indizi dell'esistenza del ragazzino: non perché non gli volesse bene, ma perché lo aveva protetto più scrupolosamente di altri segreti che le avevo carpito. Ne aveva altri così importanti? Così sacri da vietarmi persino di sognarli? Lei era così forte? Con dita tremanti, digitai il resto delle informazioni.

Penso che ormai sia un giovane adolescente. Vivevano in un accampamento temporaneo, credo a nord della città di Cave Creek, in Arizona. Però si tratta di parecchi anni fa. Tuttavia, potresti costruire con una mappa le linee che sono riuscita a ricordare. Come al solito, mi farò viva quando scoprirò qualcos'altro.

Non appena spedii il messaggio, fui assalita dal terrore.

"Jamie no!"

La voce nella mia testa era nitida e forte quanto la mia. Trasalii, spaventata.

In preda alla paura per ciò che stava accadendo, fui persino presa dal folle desiderio di scrivere un'altra e-mail alla Cercatrice, e di scusarmi con lei per averle descritto un sogno assurdo. Di dirle che ero mezza addormentata, e di non far caso allo stupido messaggio che le avevo appena spedito.

Il desiderio non era mio.

Spensi il computer.

"Ti odio" ringhiò la voce nella mia testa.

«Allora vattene» sbottai. Il suono della mia risposta ad alta voce mi fece trasalire di nuovo.

Non l'avevo più sentita parlare, dopo quei primi istanti. Non avevo dubbi, si stava rafforzando. Come i sogni.

Un'altra cosa era indispensabile: dovevo andare a trovare la mia Consolatrice. Al pensiero, lacrime di delusione e umiliazione mi riempirono gli occhi.

Tornai a letto. Mi coprii la faccia con il cuscino e cercai di non pensare a nulla.