Il mattatoio del dottor Gregor N.

Fummo presentati da un comune amico in occasione di un pranzo di beneficenza: io venni introdotto come il famoso “medico dei sogni”, ma anche di lui sapevo già molto. Nonostante la giovane età, il dottor Gregor N. godeva di una notevole fama come chirurgo, e il suo nome era uno di quelli che volentieri corrono di bocca in bocca fra i calici tintinnanti di Vienna, quasi pronunciarne le sillabe fosse un passaporto distintivo per conversare in società. Temo che in questo fossimo legati da una comune sorte: io guaritore di psicosi e lui di ulcere, eravamo nostro malgrado assurti al rango di taumaturghi, e come tali splendevamo di un eccessivo, immeritato scintillio. «Esimio amico!» capitava spesso di sentirti dire da visi sconosciuti, mentre signore in là con gli anni vantavano d’averti pressoché cresciuto in leggendarie vacanze di un’età dell’oro. Al dottor Gregor N. bastò un’occhiata per stringere con me un patto di solidarietà fra dèi dell’Olimpo, e fu chiaro che avremmo potuto divertirci scambiando racconti esilaranti di altrettanto esilaranti cene. Più ancora, ahimè, sarebbe stato buffo spiare quelle in nostra assenza, quando con l’eroe del giorno si millantano lontane parentele e aneddoti spassosi, pur di intrattenere i commensali in attesa di un dessert che latita. Detto questo, l’indole del giovane chirurgo ne motivava il successo forse più che i prodigi del suo bisturi: egli appariva in tutto come uno di quei medici rassicuranti e devoti, più figli della filantropia che della scienza. Ti saresti perfino aspettato da lui un passato da novizio, tanta era la premura con cui sembrava attratto da qualsiasi creatura umana, indipendentemente dal suo esser patologica. Si sa che il paziente spera sempre di far vibrare la corda umana dell’istituzione medica. Ebbene, questo sforzo trovava in lui un interlocutore prelibato, cortese senza alcuna cerimonia, tanto affabile che perfino io fui tentato per un attimo di abdicare al mio orgoglio di sano rimettendomi al suo improvvisato consulto. Per fortuna opposi resistenza, più in nome della dignità che della salute organica.

Viceversa, con mia sorpresa, fu il chirurgo a convertirsi in paziente, presentandosi il giorno dopo nel mio studio, senza appuntamento, come un qualsiasi anonimo psicotico. Eppure non avevamo parlato molto. Durante il pranzo si era limitato a chiedermi se davvero i sogni potevano essere messi sul tavolo operatorio così come una cancrena. Gli risposi che il chirurgo in genere asporta sempre qualcosa, mentre il mio obiettivo era far convivere l’apparentemente sano con l’apparentemente infetto, richiudendoli entrambi insieme, il più possibile coesi. «Allora non è vero che lei fa smettere gli incubi» mi aveva sorriso Gregor, non senza una punta di delusione. E non seppi se la mia risposta lo soddisfò del tutto: «Gli incubi non si fanno smettere, gli incubi si trasformano in discorsi». Credo che avesse comunque pronta un’altra domanda, se non fosse che fummo interrotti dal petulante di turno.

Il giorno dopo, tuttavia, lo vidi entrare, pronto a dischiudermi un folgorante esempio di come i sogni racchiudano sempre un desiderio inespresso. Credo che nel cercarmi egli fu mosso più da curiosità che da un’autentica preoccupazione. O forse mi sbaglio; forse l’abitudine di asportare ascessi aveva ormai radicato in lui un senso profondo di insofferenza per tutto ciò che dentro il guscio del suo corpo sembrasse banalmente corrotto. E davvero si aspettava d’esser sottoposto a un’inedita forma di oniroctomia, magari addormentato a suon di spruzzi di cloroformio (l’assenza di anestetici in effetti è un problema non da poco per certi dolorosi interventi sulla psiche). Il dottor Gregor N. conviveva da tempo con un sogno a suo dire macabro, che mi fu così descritto:

«C’è il retrobottega di un fornaio:

sto attento a non sporcarmi,

non vorrei farmi chiazze bianche.

So che nella stanza dietro

stanno portando giù delle bestie,

me lo dice una donna,

è tutta sporca di latte, dice cose strane:

insiste che tutti mi aspettano

e che per me hanno tolto via la ruggine.

Un uomo è seduto dietro un banco,

ha una redingote rossa, pulita,

non so come faccia.

Qualcuno mi afferra e mi porta indietro:

c’è una stalla con tanti vitelli,

io sono lì per ucciderli tutti,

e infatti ce ne sono molti appesi

con su scritto “cadavera”:

tutti li contano e li guardano contenti.

Qui il sogno sembra vero:

uccido il primo, il secondo, il terzo,

li uccido con una foga che mi impressiona,

ne uccido non so quanti, forse cento,

ne uccido troppi, davvero, troppi.»

«Sono colpito dal suo sogno. Intanto c’è questo forno. O meglio: il retrobottega. Vuole descrivermelo, Gregor?»

«Un luogo pieno di farina, direi. Bianco, con orribili piastrelle lucide. Ci sono bilance, tavoli di marmo.»

«Ricorda esperienze particolari in un posto così?»

«Niente di preciso. Se non che nel nostro ospedale c’è un locale adibito a forno, sta nelle vecchie cucine. È esattamente come l’ho descritto. Mi ci trovai per caso, una volta. Ero agli inizi della carriera. Sbagliai porta, mi ci trovai dentro. Il buffo è che i fornai vestono come gli infermieri, tutti di bianco: pensai di avere davanti una medicheria. Mi ridono dietro ancora.»

«Anche i locali dei forni assomigliano agli ospedali, se è per questo: lei li descrive bianchi, con piastrelle lucide, tavoli di marmo, bilance. L’episodio che mi ha detto porta a credere che il forno sia un simbolo del luogo dove lei lavora. Analizziamolo ancora.»

«Nel sogno avevo soprattutto paura di sporcarmi.»

«Nel suo racconto mi parla di chiazze bianche.»

«La farina di un fornaio può sporcare molto.»

«Sì, ma cosa sono per lei queste chiazze, Gregor? È un’immagine molto precisa.»

«Una macchia bianca su un abito bianco non si vede: scompare.»

«Dice che l’ospedale è un luogo dove si può essere sporchi senza che si veda?»

«La pulizia dei chirurghi è asettica: deve cancellare lo sporco che non si vede.»

«Questa è una giusta immagine. Cos’altro può dirmi in proposito?»

«Non saprei. Forse che le chiazze bianche sono le infezioni: quando troviamo una sacca purulenta, è di colore bianco.»

«E quindi in questo suo forno-ospedale, lei sta attento a non infettarsi: è un’ottima partenza.»

«Il forno del sogno però non è un forno a tutti gli effetti. È un retrobottega.»

«Stavo giusto per chiederglielo. Non solo: il suo sogno è pieno di queste indicazioni: il locale è un retrobottega, in più lei parla di un’altra “stanza dietro”. Poi c’è un uomo seduto dietro un banco. E ancora: lei viene fatto camminare all’indietro.»

«Non le so dire niente su questo.»

«Non occorre. Andiamo avanti: mi parla di bestie che vengono portate giù. In seguito si capirà che sono vitelli. Dal momento che il forno è un ospedale, questo cosa le evoca?»

«Abbiamo un barelliere più anziano degli altri. Ha un modo di fare molto diretto. Bussa alla mia porta ogni mattina prima di cominciare gli interventi, dice sempre la stessa frase: “Le porto giù il primo?”.»

«E questo ci suggerisce qualcosa su chi siano i vitelli. Quanto a questa donna misteriosa? È sporca di latte.»

«Il latte è anch’esso bianco.»

«Giusto, Gregor: e anche il latte sul bianco non si vede, come le chiazze che diceva prima.»

«Il mio sogno sta dicendo che quella donna è infetta?»

«Può semplicemente volerle dire che non è immune da un contagio, non è perfetta: deve essere pulita.»

«Sì, dottor Freud, ma è possibile che su questa donna ci sia anche altro?»

«Naturalmente: il sogno somma volentieri più significati.»

«Mia moglie Petra. Mi accusò di non sfruttare abbastanza la mia posizione. Usò un’espressione forte, mi colpì molto. Disse: “Finché la vacca è grassa, dobbiamo mungerla”.»

«Da cui le macchie di latte. È come se ai suoi occhi quella frase sul latte avesse sporcato la purezza di sua moglie.»

«In parte fu così, credo.»

«Il suo sogno procede con qualcuno che per lei ha tolto la ruggine. Direi che si spiega facilmente: la ruggine è la sporcizia del ferro. E i chirurghi operano appunto con i cosiddetti ferri. Prima di passare ai vitelli nella stalla, c’è il particolare di quest’uomo che ha una redingote rossa...»

«... e non mi spiego perché sia pulita.»

«Che cosa significa avere una redingote rossa in un luogo bianco? E per giunta averla pulita?»

«Significa che non è un uomo del forno.»

«Quest’uomo è come un estraneo, Gregor.»

«Eppure sta dietro il banco. Non so spiegarmelo.»

«Saltiamo avanti: lei definisce stalla quello che in realtà è un mattatoio. Non è un dettaglio da poco, è come se lei non volesse dirsi che entra in un luogo di morte.»

«C’erano appesi dei vitelli morti, con gente che li contava e rideva.»

«Nel suo racconto parla anche di una scritta: “cadavera”.»

«Sì, è latino.»

«Una scritta in latino sopra carni appese. Lei è un chirurgo: ha facilità nel maneggiare carne, non se ne cura. Eppure questi vitelli appesi la impressionano. La parola latina cadaver è un’abbreviazione di “caro data vermibus”: carne data ai vermi.»

«No, non è questo a impressionarmi, ne sono certo. Sento che c’è altro.»

«Ha ricordi di scritte in latino appese sopra qualcosa?»

«Nel salotto dei medici, in ospedale, vengono appese ogni anno le liste degli interventi svolti, divise per chirurgo. C’è scritto l’esito dell’operazione, per cui qualcuno per beffa ci scrisse sopra: INDEX VICTORIARUM

«La lista dei successi.»

«Esatto: la lista dei successi.»

«Che il suo sogno però trasforma in una lista di decessi: lei, Gregor, sostituisce i vivi con i morti. Successi con insuccessi. Quasi si vergognasse. Eppure, giovane chirurgo in ascesa, di successi ne ha molti da contare.»

«O da nascondere, dottor Freud. Credo sappia bene di cosa parlo: l’ambiente medico è un’arena da gladiatori. Non c’è regola se non che devi uscirne vivo, e fra colleghi regna la legge di chi azzanna prima. Tutti contro tutti: angherie, calunnie. Il peggio del peggio, sempre nascosto dietro una melassa di buone maniere. Il sostegno è in realtà un tradimento. Il sorriso è una promessa d’odio.»

«Già. Ed è possibile che questa sia la chiave per leggere ogni cosa: abbiamo visto che il suo sogno ripete di continuo riferimenti a un andare dietro. Ora scopriamo che nel suo mondo tutto è come una trama occulta, e non c’è cosa che non si svolga falsamente: tutti calunniano tutti, e ogni complimento è da leggersi come un insulto, gli amici sono in realtà avversari e non c’è appoggio che non sia un inganno.»

«Glielo confermo.»

«Ottimo. Allora mi chiedo perché non applicare questa regola al sogno stesso: se tutto quanto è falso, forse lo è anche il messaggio. Ha fatto caso che a un tratto lei ha sentito il bisogno di sottolineare che il sogno sembrava vero? Fino a quel punto, però, continuava a ripetere “dietro”. Proviamo allora a ribaltare il finale, a guardargli dietro, davvero. Le rileggo la sua descrizione:

“... uccido il primo, il secondo, il terzo,

li uccido con una foga che mi impressiona,

ne uccido non so quanti, forse cento,

ne uccido troppi, davvero, troppi.”

Le chiedo, Gregor, di volgere all’opposto tutto questo racconto: forse avremo quello che il sogno vuole dirle. Avremo ciò che si nasconde dietro.»

Con un gesto lentissimo della mano, Gregor mi prende il foglio. Lo rilegge. Un sorriso gli affiora sulle labbra. Poi mi guarda, e inizia:

«... salvo il primo, il secondo, il terzo.

Li salvo con una foga che mi impressiona,

ne salvo non so quanti, forse cento,

ne salvo troppi, davvero, troppi.»

«Lei di professione fa il chirurgo: salva esseri umani dalla morte. Lo fa di continuo. Potremmo definirla un salvatore per mestiere. Ebbene, in questo sogno lei fa il contrario: invece che salvarli, li uccide. Mi chiedo se non sia davvero questo il suo più profondo desiderio: non salvare dalla morte l’intero genere umano. Coloro a cui assicura un domani lo meritano davvero? Coloro a cui lei consente ancora di vivere, sono degni sul serio di farlo? Lei è noto come uno che salva, lei è un vero e proprio nemico della morte: io credo che una voce inascoltata le dica: “C’è chi merita di morire”. Ma poiché è un pensiero moralmente orrendo, lei rifiuta di accettarlo.»

«E cosa dovrei fare, dunque?»

«Accetti di non essere Dio, intanto. O meglio, neanche Dio fu immune da quello che lei prova. Dopo aver sempre salvato e protetto l’uomo, si inferocì al punto che volle solo morte e distruzione per tutti: il diluvio universale. Si conceda – dentro di sé, liberamente – di augurare la morte a qualcuno, Gregor: è sano, è umano, è rigenerante. Aggiungo di più: se proprio vuole, dal momento che lei brilla nella lista dei successi, scriva la sua lista dei decessi. Auspicabili, augurati trapassi. Potrebbe essere liberatorio. Il suo sogno in fondo le chiede solo questo.»

L'interpretatore dei sogni
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