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Il sogno di una claustrofobica

Il giorno dopo la mia prima visita a Wilhelm T., faccio conoscenza con un altro caso e con un altro sogno. A portarlo dentro il mio catalogo è la paziente Greta S., 32 anni, magrissima e scavata in viso, appesa al filo di una fobia che giorno dopo giorno le sta morsicando l’esistenza. Minuscola e indifesa, fasciata in un abito color confetto che non si addice a quel fiocco rosso vivo sotto il collo, Greta S. mi appare esattamente agli antipodi di Wilhelm T.: questa donna fugge da ogni chiusura, detesta le pareti, ogni spazio circoscritto le chiede una via di fuga. La vedo entrare timidamente nel mio studio, e pone subito una condizione: «Soltanto se quella porta è aperta io posso restare».

Talvolta la comprensione delle fobie non è la miglior via per iniziare un’analisi. A seconda di chi mi trovo davanti – a partire dall’alfabeto misterioso che leggo nei suoi occhi – decido se prendere la via della fermezza, chiamando le cose con il loro nome, trattamento che è l’esatto opposto di ogni paura. Con la paziente Greta S. faccio appunto così: mi alzo, raggiungo la porta, metto la mano sulla maniglia. «E se io le dicessi che non solo non la lascerò socchiusa, ma che addirittura la chiuderò a chiave?»

Greta S. mi fissa interdetta: «In quel caso non resisterei un solo attimo».

«Non resisterebbe a cosa? Esattamente cosa accadrebbe, qui, nella mia stanza, se io dessi una mandata e mettessi la chiave in un cassetto?»

La paziente non toglie gli occhi dalla mia mano: «Accadrebbe che potrei morire».

«Potrebbe. E tuttavia non ne è affatto certa, semplicemente lei teme che questo accada.»

«Ne ho la certezza.»

«Ha la certezza che una porta chiusa scatenerebbe in lei un processo fisiologico letale? Il suo corpo è fatto di organi, gli organi di tessuti, i tessuti a loro volta di cellule. Le cellule si ammalano per svariate ragioni, e questo può condurle a un processo degenerativo, da cui il decesso. Ma niente e nessuno ha mai dimostrato che una porta chiusa possa condurre le cellule a un ammutinamento. La cosa è del tutto immaginaria, non provata.»

«Oh, se lo è! Per me lo è nel modo più assoluto, l’ho provato.»

«Dunque ho davanti l’unico essere vivente che possa raccontare come è morto?»

«Sono svenuta, più volte.»

«E lo svenimento non è una morte. Significa che ogni volta lei si è ripresa, tanto che adesso è qui. In altri termini, ogni volta il suo corpo – organi, tessuti, cellule – ha vinto, e la macchina organica che ho davanti è, per così dire, sopravvissuta. Mi risponda: è così? Mi sbaglio? Sì o no? Lei ha avuto la meglio ogni volta: non ha vinto la porta chiusa, ha sempre vinto lei.»

«Fino ad ora, sì.»

«Tuttavia lei teme sempre che una prossima volta questo non accada.»

«Io temo la catastrofe, temo il crollo, temo il disastro.»

«Perfetto: come vede abbiamo già archiviato l’eventualità di morire. Passiamo al nuovo scenario. Lei adesso teme il crollo. Esattamente il crollo di che cosa?»

«Di ogni cosa.»

«Ovverosia il crollo delle pareti – seppur vecchie – di questo mio studio? Le pareti sono fatte di mattoni, di malta, di travi. Si chiama architettura: può essere travolta da terremoti, frane, bombardamenti. Ma niente e nessuno ha mai dimostrato che una porta chiusa possa comportare non dico un crollo, ma neppure una crepa.»

«Ad ogni modo, so che è così.»

«Lei sa che è così. Sa che un giro di questa chiave nella serratura basterebbe a scatenare una rovina. Viceversa, la porta socchiusa le garantisce quiete. Eppure mi dica: quante porte ci sono fra la poltrona dove è seduta e la strada da cui può scappare in carrozza? Almeno cinque, se conto bene: la porta dello studio, quella dell’anticamera, e ancora: la porta d’ingresso dell’appartamento, la porta a vetri dell’androne e infine quella del palazzo. Lei si accanisce su questa sola porta, ma le altre? Lei non sa se nel frattempo, al piano inferiore, il nostro portiere improvvisamente impazzito ha sprangato la porta sulla strada, proibendole di uscire. A lei interessa solo che questa porta – quella che vede – non sia chiusa.»

«Sì, perché la vedo.»

«Ottimo. Non le preme quindi poter uscire. Le preme semmai di vedere che lei può uscire. In altri termini, converrà con me: questa sua fobia è del tutto inadatta a difenderla dai rischi, questa fobia si fida solo di quello che vede a un passo, si disinteressa di tutto quello che non è a un palmo dal suo naso. In altre parole: questa fobia non le serve a niente, non la protegge, la sta solo ingannando. È così? Mi risponda.»

Greta S. non controlla le sue labbra. Mi guarda come un devoto guarderebbe un miscredente, perché di fatto ogni fobia è una religione coi suoi riti, e chi ne è adepto non ammette che si offenda il culto. Io insisto: «Eppure è evidente che lei vive bloccata da una fobia inutile. E sa perché? Perché l’unica porta che può permetterle davvero di uscire non è una porta reale, ma sta dentro di noi, dentro di lei. Il terrore delle porte chiuse? Non è il terrore di non poter uscire, ma di non voler uscire. Conviene con me che la sua paura non è reale?».

«Oh, no. Mai e poi mai potrei risponderle di sì. Non potrei, neanche per sogno.»

«Neanche per...? Come ha detto?»

«Neanche per sogno.»

«Buffo... Le spiace se annoto queste parole? La sua paura è irreale, ma lei ci crede perché le sembra vera. Anche i sogni – e lei ha ragione – anche i sogni sono irreali, ma ci crediamo perché sembrano veri. Paure e sogni sono identici, stessa pasta, stessa materia. Sono deformazioni della realtà, che noi creiamo. La sua paura me l’ha presentata, l’ho vista in faccia, vedo che sta perfino sudando perché tengo la mano su questa maniglia. Quanto ai sogni... Se io le chiedessi che cosa sogna?»

Alla mia domanda Greta S. – due occhi come pozze d’acqua piovana su un viso di cera – mi racconta il suo sogno chiudendo gli occhi. E già non è cosa da poco. Mi colpisce, annoto il dettaglio: nessuno dice “ho visto un sogno”, tutti diciamo “ho fatto un sogno”, e con tutto che il sogno è composto di immagini spesso chiudiamo gli occhi per rivederlo. Come dire: per guardare un sogno non servono gli occhi. Oppure servono altri occhi.

Greta S., 32 anni, mi descrive:

«Una stanza piena di casse di vetro.

Sono casse fradice d’acqua.

Da dentro le casse provengono dei suoni.

Come pianti.

Come guaiti.

Una donna rompe le casse

ed escono gomitoli

gomitoli

gomitoli

gomitoli che rotolano via.

Nel mezzo della stanza

c’è una cassa di vetro già spaccata,

frantumata,

e se ci guardi dentro

c’è un animale morto.»

La narrazione di un sogno è sempre un po’ come un’assenza: chi racconta abdica per un attimo al suo stesso esistere, si congeda da sé. Nel caso di Greta S., mi colpisce che al termine del sogno, mentre riapre gli occhi, la donna pronunci subito una frase, allarmata: «Non ho idea di cosa possa voler dire, ma mio padre non lo sappia per nessuna ragione al mondo».

Annoto il caso di Greta S. come IL SOGNO DELLE CASSE, ed è chiaro che anche queste immagini non sono un pensiero, anche queste immagini non sono un discorso, anche queste immagini rispondono a un istinto. Ovvero, io so che in qualche parte inesplorata del suo essere Greta ha avuto bisogno di una stanza piena di casse di vetro, ha avuto bisogno di sentirci dentro dei suoni, ha avuto bisogno di quei gomitoli che scivolano via e ha avuto bisogno di quella cassa rotta con un animale morto. Come si vedrà, infatti, il sogno di Greta si svelerà poi con un suo drammatico significato.

Per adesso valga il concetto che, se sull’orlo di un abisso l’istinto ti proibisce di cadere, così sull’orlo del tuo abisso il sogno ti proibisce di crollare. I sogni sono appigli. I sogni sono alleati.

Ma di chi? Contro chi? E in quale guerra?

L'interpretatore dei sogni
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