Gli occhi chiusi
All’aprirsi delle inferriate, Tessa entra come un’eco di se stessa. Sfinita, lenta, priva di ogni vigore, mi appare oggi come l’ombra esile della sua isteria, evidentemente sedata dai trattamenti ospedalieri.
Attendo che le sbarre si chiudano: l’intimità del nostro colloquio non ammette brecce con l’esterno. Poi mi avvicino, mentre come materia inanimata si lascia cadere lungo il muro con la schiena, adagiandosi contro l’impiantito bianco. Le carezzo il viso: «Dov’è l’anello che le avevo dato?».
Le labbra si muovono in un accenno di tremolio. Il viso fissa un punto indefinito. Attendo una risposta per vari minuti, ricevendo solo silenzio. Sto per rinunciare alla seduta, quando percepisco un suono dalla sua bocca, come un mugolio. Tessa alza lentamente il braccio, si porta la mano alle labbra, e come fossero uno scrigno estrae fra denti e gengiva il suo anello: «Se non lo nascondo, loro lo prendono».
Il suo parlare oggi è dilatato, lunghissimo. Quasi lo imito, perché recepisca ogni parola: «Io però le ho portato il portagioie in cui stanno i suoi anelli, così d’ora innanzi potrà tenerli nascosti sotto il letto, senza farli vedere a nessuno». E dalla tasca tiro fuori un delizioso piccolo bauletto, trovato in vendita da un rigattiere.
Tessa lo scruta in ogni dettaglio: «Era mio, un tempo. Come l’ha avuto?».
«L’ho sottratto a chi gliel’ha rubato. Gli anelli sono tutti qui dentro, Tessa.»
«E posso vederli?»
«La scatola è chiusa a chiave. Ecco, guardi: non si apre.»
In uno slancio improvviso di forza, Tessa sbatte lo scrigno contro la parete. Le afferro il polso, quanto basta a farle capire con lo sguardo che sono dalla sua parte: «Non la aprirà così, farà solo rumore, qualcuno degli infermieri verrebbe a vedere. Se ci prendono questo tesoro, non riusciremo più a riaverlo indietro». La rabbia che contrae il polso di Tessa si scioglie lentamente. I suoi occhi adesso non mi perdono, e con un filo di voce, mettendomi la testa sulla spalla: «Come possiamo aprirla?».
«Ci occorre la chiave.»
«Lei può prenderla?»
«La otterrà, Tessa, deve solo meritarla. Ricorda il nostro patto dei sogni?»
«Un sogno per un anello.»
«E adesso in palio c’è una chiave. Ma deve dirmi qualcosa di importante. Stanotte l’hanno sentita gridare, mentre dormiva. Voglio sapere cosa si ricorda di quel sogno, e dovrà essere il più possibile precisa.»
«Io non ho fatto sogni.»
«L’hanno sentita senza nessun dubbio mentre urlava.»
Tessa si ritrae, come se cercasse rifugio nella corazza del suo cotone bianco. Eppure sento che il dialogo fra noi non è spezzato. Ho soltanto bisogno di non farmi temere: la mia cravatta, il mio abito grigio sono come una divisa d’ordinanza. Per cui chiudo gli occhi. Un dottore con gli occhi chiusi non è un dottore con gli occhi aperti. E forse questo mi farà scendere dal piedistallo, o dalla cattedra, o da qualunque podio dove adesso mi trovo: «Posso raccontarle un fatto, Tessa? Risale a tantissimi anni fa. Un ricordo. Vorrei che mi ascoltasse, se vuole. Le giuro che nessuno al mondo conosce ciò che sto per dirle. Insomma... È una sera di ottobre, fa buio presto. Io avrò dieci anni, non di più. Sono solo, chissà perché, sotto la pioggia: torno verso casa da non so dove... Anzi, lo so: vengo dall’emporio, dove mia madre mi manda a comprare filo di lana e toppe di stoffa: lo so, finiranno sui miei pantaloni... Col mantello mi copro la testa, che comunque è fradicia di pioggia... Un passo dopo l’altro, scansando le pozze che come laghi... Lo so che è tardi, che sta facendo buio, che mia madre aspetta: accelero il passo, adesso quasi corro, salto fra i sassi mentre la pioggia aumenta, aumenta, e con la pioggia tuoni e fulmini che fanno tremare i muri... Corro più che posso: non manca molto a casa... dalla testa mi scivola il mantello, sento l’acqua in viso ma non mi fermo, no: corro, corro, corro, finché a un tratto, all’improvviso, poco distante da me... Un boato... Assordante, gigantesco... Una scossa, uno scoppio, come uno squarcio dal cielo: non so cosa sia... Vedo solo una lama, gigantesca, di luce, una saetta che dall’alto si scatena su una quercia, la incendia, la brucia, la apre in due col fuoco, la spezza, enorme, così, nel mezzo, come faccio io giocando con i rami allo stagno! Sono terrorizzato, non capisco più niente, non comando più le gambe e scivolo a terra, nel fango, con la faccia fra le pozze... E lì, fra le pozze avviene qualcosa... È il mio viso?... È il mio viso che mi vedo davanti, riflesso dentro l’acqua di una pozza... Un viso di dieci anni, impaurito, pallido, che sta lì – sospeso – e mi fissa tremando... Non so quanto tempo rimasi lì – sotto la pioggia – a guardarmi, Tessa: forse un secolo. Forse sono ancora là, e non me ne sono mai andato. Tutto quello che so è che mentre fissavo quegli occhi e loro fissavano me, ricordo di aver pensato: “Ti chiami Sigmund... Sigmund Freud... Siamo io e te, soli, Sigmund. E così sarà sempre, fino in fondo: qualsiasi cosa accada ci troveremo io e te, del tutto soli”».
Quando socchiudo gli occhi, scopro che Tessa li ha chiusi a sua volta, ma un’ombra di sorriso sul suo volto mi dà la conferma che il mio racconto è stato capito. Non ne approfitto. Chiudo di nuovo gli occhi. Restiamo così, l’uno accanto all’altra, in perfetto silenzio. Poi, quasi mi svelasse un segreto da non dire:
«Stanotte io ero in quel bosco.
Fitto di rami
non riesco a camminare
da quanto sono stretti, e tagliano.
Il sentiero è in discesa,
a precipizio, si può cadere, non dovrei andarci
non dovrei andarci
non dovrei andarci
e poi c’è sempre quel cane:
lo stanno torturando, è disperato
come un guaito, rimbomba dovunque.
L’uomo con le viole
è dietro i rami,
gli nascondono il viso,
tiene le viole davanti alla faccia,
lui non ha faccia,
ha le viole in faccia.
Corro a precipizio per non vederlo,
corro per non sentire il cane,
corro ma i rami si chiudono come cancelli,
e dietro i cancelli
ma non posso farci niente
c’è una donna che suona
tiene lo strumento sulla faccia,
io le grido di andar via o farà la fine del cane,
ma i rami mi si chiudono alla gola
e non respiro
e non respiro
e non respiro.»