L’incubo lieto di Elfriede H.
Osservarli è tutto.
Osservare i corpi, gli sguardi, osservare questa umanità sorpresa di se stessa che viene a svelarmi le voci che ha dentro, senza riconoscerle.
«Sto per dirle cosa sogno, ma non mi giudichi per questo. Temo di avere dentro non so che mostro.» Così mi ha detto Elfriede H., una pianista, entrando. Ha unito poi i piedi uno accanto all’altro, al millimetro. E mi ha fissato, come a chiedermi il permesso – il permesso, fanno sempre così –, il permesso di mostrarmi il presunto peggio di sé.
Le sorrido. Cerco fra i miei toni il più quieto che possiedo: «I sogni sono opera nostra, per quanto le appaia strano. E noi creiamo ciò che ci serve, Fräulein».
«Ciò che ci serve?»
«Qualunque mostro lei stia per raccontarmi, è un mostro creato per far bene. L’uomo sogna quello che desidera, sempre.»
Chiusa fino al collo nel suo abito ocra e nero, abbottonata fino quasi al mento, questa ragazza di cristallo resta ferma immobile senza dire una parola. Ho imparato a riconoscere dalle pieghe del viso, dalla luce degli occhi, questo momento sublime e micidiale in cui si vergognano dei loro sogni al punto di voler fuggire. Alcuni lo fanno. Altri resistono, ma se non crollano è per la paura forsennata di crollare. E la paura ha una sua forza, a cui misteriosamente ti puoi aggrappare.
Elfriede è una di queste creature dilaniate da crepe strutturali, eppure ancora resistenti al crollo. Si leggono in loro infiniti baratri, e al tempo stesso la tortura sfinente di evitarli.
Se mi occorresse ancora una prova tangibile di quanto una parte di noi detesti i sogni che creiamo, l’immagine di questa donna mi servirebbe perfetta.
Età indefinibile, su quel crinale dove la giovinezza si fa maturità, e le speranze diventano bilancio: fra futuro e passato è solo una mutata coniugazione di verbi, in fondo. Cos’altro? Perfezione della capigliatura – controllatissima e dunque rischiosa – sedata con premura sotto un fermaglio a chiave di violino. Non a caso è una pianista.
Una pura trincea di nervi. Le mani lisce, bianche d’avorio, si annodano l’una con l’altra mentre tenta di ingannarmi con un finto sorriso che io non ricambio, fissandole anzi le gocce di sudore che le brillano sulla fronte, a tradimento. Statuaria, eppure fragilissima. Leggo ogni venatura del suo marmo. E aspetto da un momento all’altro che la sua rabbia esploda.
Infatti.
«Io non le permetto di offendermi. Come può dirmi che i sogni, tutti i sogni, sono quello che noi vogliamo? Io sogno cose tremende. Dolorose, mi creda. Orribili. Come può osare, lei, dirmi che questo strazio è un desiderio? Io desidero farmi male? Desidero soffrire? Sono la mia nemica? Chi ho dentro? Maledizione, se è così, chi ho dentro?»
«Credo che la stessa domanda – all’inverso – lei se la stia ponendo in qualche altra parte di se stessa. Ogni volta che diciamo “Maledizione, chi ho dentro?” c’è in noi un’altra voce che dirà “Maledizione, dentro chi mi trovo?”. Se c’è un contenuto, deve esserci sempre un contenitore. La persona che ho davanti si lamenta di chi ha dentro, ma contiene a sua volta una persona che si lamenta di chi la contiene. Questa persona è quella che sogna. Non la giudichi, la faccia parlare.»
«Non so se ho più voglia di raccontare.» E si gira verso la finestra.
C’è qualcosa di insondabile in quel tempo lunghissimo – eterno e decisivo – in cui un essere cosciente cede parte di sé, e accetta di far parlare l’altro. Veniamo educati fin da piccoli al controllo. Accettare di perderlo – seppure per poco – non è cosa da niente; e i sogni cosa sono, in fondo, se non una breccia? La perdita di controllo. Che poi è possibile solo nottetempo, quando la guardia si assopisce e il signor Oskar K. parte per commerci in Ungheria. Guardo questa donna e mi dico che è così, senz’altro, è così.
La pianista Elfriede H. davanti ai miei occhi non cede la presa. Il suo pentagramma è nero su bianco, le note non ammettono disordine: un do è un do, un sol è un sol, mi con mi, re con re, il la non è un fa, il la non è un si, e così via dicendo.
Elfriede H. affonda nel palmo delle mani le unghie delle dita, quasi per non farsi portar via da una tempesta, e fissandomi dischiude le labbra, lentamente, per emettere non so ancora che nota dal suo strumento: «Se il mio sogno è davvero quello che desidero, allora porto dentro un essere spregevole, in cui non mi rispecchio. E non lo accetto. Mia sorella maggiore ha due bambini. Dipinti come angeli in chiesa, mi creda, e con me dolcissimi. Uno di loro è morto di febbre polmonare, sette mesi fa. Mia sorella non ha mai smesso di piangere. E io? Io non riesco a non sognare di toglierle anche l’altro. Si chiama Heinrich. E ogni notte glielo uccido...
C’è una stanza abbagliante,
di luce immacolata.
Io ci sto nel mezzo.
In punta di piedi.
Un organo suona, non so chi lo suona,
ma chiunque sia è un principiante,
neanche fosse uno dei miei allievi peggiori.
Accanto a me, in una cassa chiara,
è esposto Heinrich, su cuscini di piuma,
e però in tutto quel biancore...
io non so piangere, non mi riesce,
sento crescermi da sotto
una gioia vera, estrema,
che mi riempie tutta ed esce perfino fuori,
non so contenerla,
come un bicchiere pieno.
Io misuro a palmi la felicità di veder morto Heinrich? È questo che desidero? È questo che voglio? Se una parte anche nascosta di me arriva a tanto, io la prego di farla tacere, Herr Freud, per sempre».
Annoto questo caso come IL SOGNO DEL NIPOTINO MORTO.
Troppo spietato per sembrare un desiderio, il sogno di Elfriede la pianista suscitò fin da subito in me un’altra domanda: fino a che punto noi riusciamo a ingannarci? Se è vero che il sogno è costretto a camuffare immagini e situazioni pur di non destare la coscienza che dorme, devo concludere che esso abbia tanta forza da riuscire perfino a travestire i sentimenti? La gioia con cui questa donna assiste di notte al funerale di un bambino è gioia reale? Oppure non sarà essa stessa una finzione?
E quando io mi sveglio nottetempo fradicio di sudore per un sogno di tremenda angoscia, posso credere che quel terrore sia vero o che anch’esso sia la maschera di qualcos’altro?
Non è forse vero che talvolta, scavando nella miniera dei miei sogni, ho avuto fortissima l’impressione che il sentimento fosse di notte l’unico faro, come un appiglio a cui aggrapparsi per ricostruire un senso?
Nel febbraio del 1894, appena rientrato da un viaggio in Italia, feci un sogno semplicissimo, che niente aveva di tremendo, eppure mi svegliai di soprassalto, paralizzato dall’angoscia come in una guaina:
Mi trovavo seduto in un salotto chiaro,
in cui le poltrone
erano lunghe come letti
e tutto profumava di pulito.
Entrò una cameriera
con un sorriso splendido
da far quasi ridere
e costei mi servì gentilmente
la colazione
su un vassoio rettangolare
pieno di tazzine e di chincaglierie.
Cosa aveva questo sogno di così orribile? Perché mai ebbi l’impressione di ascoltare una canzone dolce con una melodia soave ma dove i versi, ascoltati uno per uno, tagliano la pelle come lame? Mi sforzai di sciogliere gli enigmi, uno a uno, e questa fu infine la faticosa analisi del sogno:
MI TROVAVO SEDUTO IN UN SALOTTO CHIARO,
IN CUI LE POLTRONE
ERANO LUNGHE COME LETTI
E TUTTO PROFUMAVA DI PULITO...
Il giorno precedente, appena rientrato dall’Italia, ero passato dalla clinica di Brucker per visitare un mio paziente affetto all’improvviso da un male sconosciuto. Mi sorpresi dell’eleganza della nuova ala del ricovero, ristrutturato il mese prima e decorato con tappezzerie e tende. Pensai distintamente che in un ambiente così nobile si sarebbero viste più volentieri poltrone che non letti, e mi chiesi se un giorno gli ospedali sarebbero magari diventati dei salotti con divani ambulanti. Nel sogno ero dunque in un ospedale. Il mio paziente si era fatto trovare non sdraiato ma seduto sul letto, come per darmi la sensazione di star bene, ma dai suoi scatti io capii subito che la nevrosi si era aggravata, sommandosi a un’infezione interna, devastante. È chiaro che mi ero sdoppiato nel mio paziente: come lui fingevo di star bene, ma solo all’apparenza, sentendomi dentro un male logorante che mi stava sfinendo. E d’altra parte, nei giorni prima della morte di mio padre, mia moglie non si ostinava a mettere sali profumati nelle stanze “per coprire in casa quest’odore da ospedale”? Il mio sogno così tranquillo quindi raccontava una finzione: mi trovavo internato in un reparto, e la morte era nell’aria.
... ENTRÒ UNA CAMERIERA
CON UN SORRISO SPLENDIDO DA FAR QUASI RIDERE...
In questa cameriera credo che il sogno nascondesse mia moglie Martha, con cui nei giorni prima avevo discusso per certi suoi modi poco affettuosi. Ella mi affrontò con durezza: «Se ti disturbo per il mio cattivo umore, vorrà dire che mi attaccherò un sorriso in faccia giusto per non farti infastidire. Ti piace un sorriso così? Prepara la mancia». La cameriera sorridente era di certo lei, era Martha.
... E COSTEI MI SERVÌ GENTILMENTE
LA COLAZIONE
SU UN VASSOIO RETTANGOLARE
PIENO DI TAZZINE E DI CHINCAGLIERIE.
Durante il mio viaggio in Italia mi avevano portato a visitare un piccolo museo dove mi ero soffermato su una teca polverosa coi reperti di una tomba etrusca, e fra loro un vassoio allungato di forma rettangolare, pieno di piccoli vasetti, di cui immaginai un uso conviviale, e ne feci domanda al guardiano. Egli scoppiò a ridere: «Ma no! Quale convivio? Quelli sono gli oli funerari! Vuole fare colazione coi cadaveri, dottore?».
Il sogno era quindi la mia morte, avvenuta in ospedale proprio mentre speravo di star meglio. Il desiderio contenuto nel sogno credo fosse che mia moglie riuscisse comunque a essere serena nonostante la mia scomparsa. Ma se il travestimento del mio incubo era perfetto, l’angoscia – lei no – non si era fatta tradire: come dire che il sentimento non si inganna, vede oltre la scena, intuisce ogni cosa, non si lascia beffare. Nell’interpretazione dei sogni posso dubitare di ogni cosa fuorché dei sentimenti: di loro, credo, mi dovrò fidare.
In questo è stato indicativo il sogno della vecchia signora Völler, una vicina di casa dai modi affabili, che ebbi in cura per circa un anno:
Scendevo da un sentiero di collina
e in fondo trovavo tre leoni feroci,
ma invece che svegliarmi per lo spavento
ho aperto gli occhi con lei non sa che allegria.
E tutto si spiegò col fatto che il marito si era fatto crescere una barba bionda per cui tutti in famiglia lo chiamavano “leone”. Non solo: il posto dove la signora Völler, una volta ogni due giorni, si divertiva giocando a carte era lo chalet del Giardino dei Leoni. Quanto al terzo leone, la sentii io stesso rivolgersi al suo autista – un uomo allampanato, una caricatura – chiamandolo non per caso “Leonard”. Sì, dev’essere così: separiamo l’effetto emotivo dei sogni dalla loro confezione esterna. Solo così li potremo sciogliere.
E dunque. Ritentiamo. Di nuovo.
Io non so ancora dire quale forza ci spinga a sognare. Ma qualunque essa sia, trova senza dubbio slancio dall’odio profondo con cui un essere umano detesta l’altra faccia di se stesso. Quest’odio ci obbliga a un linguaggio oscuro, ma la reazione di gioia, di paura, di sconforto... questa è del tutto reale.
E da qui posso partire per sezionare il sogno della pianista: dalla sua contentezza piena per la morte di un bambino. La gioia è reale, il funerale è un rebus. E il rebus può essere sciolto, passo per passo.
Come sempre chiedo alla mia pianista di ricominciare il racconto. Separando ogni elemento. Dal principio, dall’inizio.
«C’è una stanza abbagliante, di luce immacolata. Io ci sto nel mezzo.»
«In punta di piedi, così mi ha detto.»
«In punta di piedi, dottore, infatti.»
«Fräulein, devo chiederle se questa luce era nel sogno la nota più importante, o se lei definisce “luce” qualcosa che nel sogno era diverso.»
«Era tutto lucido, era tutto bianco.»
«Quindi lei si trovava non in mezzo alla luce, ma diremo meglio “in mezzo al bianco“?»
«Al bianco, sì, ero in punta di piedi nel bianco. Un bianco innaturale, fortissimo. Mi stava tutto intorno.»
«Tutto intorno?»
«Mi avvolgeva, sì, dappertutto.»
«Curioso. Lei era immersa nel bianco, e in questo biancore ricorda come si sentiva? Era già felice in questa parte del sogno?»
«No, ancora no. Ero inquieta. Lo sono ancora, a ripensarlo.»
«Di questo ci fideremo: il bianco – qualunque cosa fosse – nasconde una fonte di timore, tanto che lei ci sta immersa dentro senza scampo, lo subisce. Procediamo. Vada avanti, la prego.»
«Un organo suona, non so chi sia a suonare, ma non è bravo, non ci sa fare.»
«E lei è infastidita? Lo giudica per questo? Lo condanna?»
«No, no, anzi. Mi diverte. Lo trovo imbranato. Ma non mi urta, questo no. Se non sa suonare adesso, potrà sempre imparare. Ogni allievo sbaglia.»
«Lo chiama sempre al maschile: allievo. Eppure ha detto che non sa bene chi è che suona.»
Elfriede si arresta, fissa lo sguardo contro la parete, è come se là interrogasse il suo sogno. Poi il responso: «So che di certo non è una donna».
«Di certo è un uomo, un uomo a cui lei dunque permette di sbagliare. E che cosa suona esattamente? Un lieder? Un inno?»
«Niente del genere. E niente di funebre. Si esercita, ecco. Sì, lui suona delle scale.»
«O meglio: non le suona.»
«Non le sa fare.»
«Lei dunque è prigioniera del bianco, costretta a sentire un allievo che stona. Posso chiederle se lei è sposata?»
«Non lo sono.»
«Immagino avrà avuto uno spasimante, un corteggiatore. O forse lo frequenta adesso.»
«Perché me lo chiede?»
«Perché lei si occupa per mestiere di musica. Posso immaginare che suonare sia una parte essenziale di se stessa. Per i musicisti di solito è così.»
«Infatti, suono da quando avevo cinque anni.»
«Concorderà con me che non è un particolare scontato: la sua vita si può dire coincida con la musica, per cui ha un certo peso il fatto che lei sogni un uomo che suona. Ebbi un paziente nell’autunno scorso, un giovane pittore di un certo nome, ossessionato dal sogno di una bambina che dipingeva. È una metafora abbastanza chiara di un legame, immaginario o reale.»
«Non ho mai trascinato uomini dietro la sottana, non ho tempo per queste cose.»
«Non sono indiscreto: le faccio queste domande solo per leggere il suo sogno. Un amore giovanile? Neanche questo?»
«Oh sì, anni fa. Ma ero troppo giovane.»
«Questo chi lo dice?»
«Prego?»
«Mi chiedo quale faccia di noi parla, me lo chiedo anche per me stesso, ogni volta che apro bocca.»
«Si commettono errori, dottore, in giovinezza. Per fortuna non irreparabili.»
«Lei quindi sciolse il fidanzamento?»
«Non ci eravamo affatto legati. Theodor era un tenero amico. Credo che poi ne fui anche attratta. E lui da me. Ma fui brava ad aprire gli occhi prima che facessimo errori.»
«E non lo vide più?»
«Per un certo tempo sì, fui costretta: abitava al piano inferiore in Kircherstrasse, lo vedevo uscire per strada dalle mie finestre.»
«Lui non provò a insistere?»
«Gli avevo proibito di salire.»
«Ed è esattamente quello che sogna adesso: un allievo che tenta di fare le scale. Credo che Theodor sia il vero oggetto del sogno. Non lo ha mai più rivisto?»
«Una volta soltanto...»
«Lo ha incontrato al funerale dell’altro nipote?»
«Ma senza alcuna volontà: del tutto casualmente.»
«Per cui sogna di avere un’altra occasione identica, che le dia modo di insegnare finalmente a Theodor – mi permetta l’azzardo – come si salgono le scale. Il suo sogno non ha niente a che vedere con il bambino morto, quello è solo un pretesto: le serve una copertura per non dire a se stessa che lei desidera rivedere quell’uomo, senza che nessuno la giudichi per questo. Vuole che tutto avvenga in silenzio, e infatti sta in punta di piedi e il cuscino del bambino è fatto di piume. Ah... Un’ultima domanda: come si chiama sua sorella?»
«Mia sorella?»
«Sua sorella.»
«Bianca.»