L’uomo senza testa
Ho già scritto di Betta, la cameriera che assumemmo alcuni anni or sono, e che inaugurò il suo servizio in casa nostra annegando nottetempo in una cascata di latte. Adesso mi occorre tornare sulle visioni notturne di Betta, che fra l’altro con il tempo si dimostrò una domestica premurosa e piena di attenzioni. Devotissima cattolica di origini francesi, Betta parlava con un accento tutto suo, spassosissimo ogni volta che, mancandole un sostantivo o un verbo, emetteva strani suoni in un finto tedesco di sua invenzione, senza così interrompere il flusso del discorso, e sperando che l’interlocutore colmasse le lacune dal contesto. Di statura minuta, spesso con lo sguardo fisso ai piedi, rispettosissima, Betta arrossiva con facilità, inondando di una tinta improvvisa e paonazza le zone centrali del suo viso già cosparse di lentiggini. Si pettinava di continuo, e aveva per i suoi capelli biondi una cura quasi maniacale, tanto che teneva ad arte una ciocca sempre fuori dalla cuffia, giocandovi col dito e talvolta perfino portandola alle labbra. Se le rivolgevi la parola, in genere cambiava subito espressione, facendosi pallida e mormorando sempre: «Sissignore, sono qui per lei, se riesco», laddove la coda della frase riceveva puntualmente un accento fortissimo e preventivo, come a lasciar intendere: “Vi avverto che le cose in cui non riesco sono una più di mille, e non ne ho colpa”. Penso che da persona di umili origini, quale di fatto era, non comprese mai fino in fondo lo strano mestiere del suo padrone di casa, così attento ai sogni altrui da saccheggiarne volentieri i racconti come fossero pietre preziose. Sono anzi convinto che Betta ne fosse perfino divertita, e non mi stupirei se nei pomeriggi di libera uscita mi avesse perfino canzonato con qualche conoscente.
Di fatto, tuttavia, Betta si candidò fin da subito alla mia attenzione, essendo un’assai rumorosa sognatrice: più volte gridava nel sonno, talvolta spalancava perfino atterrita la porta sul corridoio e ce la trovavamo quasi in camera da letto, scarmigliata, in preda ai singulti, confusa fra i relitti del sogno e la foga di chiederci scusa per quei suoi assalti da cavalleria. Insomma, non v’era da stupirsi se al mattino i suoi sogni diventavano argomento di bonaria (e preoccupata) conversazione. E dunque:
«Ho sognato che ero per strada,
ed era pieno di gente,
erano tutti lì per me,
e mi guardavano ridendo...
Io non lo sopporto d’essere guardata,
ma loro stavano lì e ridevano,
poi mi facevano un applauso,
ridevano
e battevano battevano
battevano mani su mani,
mentre entrava un grande uomo senza testa,
con un mantello candido,
che mi picchiava con un bastone
e urlava: “Sciagurata, devi andare al circo!”,
ma io al circo non volevo andarci,
perché là dentro
c’è davvero gente che mi guarda,
e io non lo sopporto.
Così nel sogno gridavo: “Mai!”,
ma l’uomo senza testa
mi picchiava ancora più forte,
e lì mi sono svegliata...»
Naturalmente annotai questo sogno origliandone il racconto, dal momento che il mio ruolo di padrone di casa non mi avrebbe mai reso un pacifico ricettore. In più ero un padrone “scrutatore di sogni altrui”, e mia figlia Mathilde mi riferì divertita come Betta l’avesse pregata di non far con me parola del suo incubo, quasi cominciasse a temermi. Mi sentii uno stregone, o quasi. Ma a muovere il mio particolare interesse fu di fatto un caso banalissimo: circa una settimana prima, rientrando a casa, mi ero in effetti imbattuto in un trio di pagliacci che, armati di tromba e di grancassa, deliziavano i passanti a pochi isolati da qui. Incuriosito, mi trattenni a guardare, scoprendo che i tre richiamavano il pubblico pagante per i loro spettacoli serali in un tendone non lontano, detto “Il circo di Fred Kircher”. Come spesso accade, dopo aver appreso questa novità, mi resi conto che la strada verso casa vedeva appeso fino al nostro portone più di un manifesto di questo circo Kircher, a cui mai nei giorni precedenti avevo fatto caso. Ora, a rendere il tutto impressionante c’era stato in effetti un lapsus in cui la nostra Betta era incorsa pochi giorni prima. Chiedendo a mia moglie il permesso di assentarsi subito dopo cena, aveva addotto come ragione proprio il voler andare a vedere lo spettacolo, ribattezzato da lei “Il circo di Freud Kircher”. Mia moglie rise, le fece notare quella vocale di troppo, e le accordò il permesso.
Quando giorni dopo la sentii raccontare il sogno, non potei non ricordare che il mio cognome era stato per errore abbinato al circo. Non mi ero mai posto la questione del possibile ruolo giocato nei sogni dai nostri numerosi errori, sviste ed equivoci commessi durante il giorno. In effetti la rigida selezione della nostra memoria spazza via come un netturbino tutto quello che potremmo definire un’irrisoria scivolata, inutile ai fini del bilancio giornaliero. E in nome della concretezza, quindi, scarta via per sempre questi sbagli. Ma il sogno? Se fosse lui a riaprire la pattumiera per recuperarli?
Non sono in grado di dire se il sogno di Betta le parlasse di un senso di colpa per essere andata al circo. Sono al contrario piuttosto convinto che il circo di quel Fred valesse nel sogno “il circo di Freud”. E aggiungerei non a caso, visto il timore di cui mi parlava Mathilde: nel sogno di Betta si parla di qualcuno che le impone di andare da Freud, ma lei rifiuta perché “là dentro c’è davvero gente che mi guarda”. Ovvero: da Freud c’è chi può capire questo mio sogno.
Il paradigma mi appare allora perfetto: il sogno parla di come restare nascosto. Il sogno non vuole essere decifrato. Ma cosa poteva esservi di tanto clandestino nell’incubo di Betta, per non dover essere assolutamente intuito? È mia abitudine accettare di buon grado le sconfitte, in questa mia estenuante gara per capire i sogni. E dunque non avrò remora nel dire che col sogno di Betta dovetti rinunciare per mancanza di indizi. E per vari mesi, mi accontentai di esser stato ribattezzato circense. In seguito, tuttavia, nuovi passaggi mi portarono a un’ipotesi plausibile. Intanto, sempre più spesso, la nostra giovane francese si assentava a fine giornata. Il fatto ci incuriosì, e bastò interrogare il vicinato per scoprire che Betta si accompagnava a un suo coetaneo, un certo Eli che esercitava con il padre l’onesta professione di guantaio. L’intesa fra i due sembrava andare avanti da un bel po’, sicuramente era già in essere al tempo del famoso sogno. Era presente, questo baldanzoso giovane, nel sogno del circo? Io ritengo di sì, dal momento che il racconto di Betta poneva un bell’accento su quell’infinita quantità di mani che le facevano l’applauso. In termini di condensazione l’immagine è quanto mai sintetica: l’amore per un guantaio si traduce in centinaia di mani che applaudono.
Quanto, invece, all’uomo senza testa, vi arrivai ancora dopo per un’altra via, ovvero attraverso gli anelli con cui barattavo i sogni di Tessa W.
Mi ripresentai a lei dopo aver ottenuto l’esile ma promettente immagine di un uomo che portava un vaso di viole. Un bottino magro per un rabdomante di sogni, ma sufficiente a stabilire un dialogo. Pertanto, fedele al patto, mi presentai dopo alcuni giorni con un vecchio anello di quelli lasciati da mia madre.
Tessa lo osservò incantata, poi mi sorprese: «Lei mi ha ingannato: questo non è uno dei miei anelli. Non lo voglio, se lo riprenda. Lo porti via».
«Se dice che non è uno dei suoi anelli, significa che ricorda molto bene com’erano.»
«Li ricordo perfettamente, prima che me li togliessero. In questo posto è vietato tenerli, me li hanno rubati loro.»
«Ed è vero, sì, Tessa, in questo ha ragione. I suoi anelli li ha presi il direttore, li tiene lui. E per non farli riconoscere ai pazienti, li fa trasformare da un orafo infermiere. Questo è il suo primo anello, le appartiene: è suo. Ma se proprio non lo vuole, posso riportarlo dov’era. Il direttore sarà contento, ci giurerei, non ama che gli anelli siano dati indietro alle pazienti. Quando qualcuna rinuncia a un anello, lui le manda sempre un vaso pieno di viole.»
«Non lo voglio, si tenga le sue viole! Mi dia l’anello, allora, lo voglio, è mio.»
«Solo se lo infila al dito. Nessuna paziente è autorizzata a tenere gioielli: questa è un’eccezione, che ho ottenuto sotto la mia parola.»
Tessa afferra l’anello, lo bacia come fosse un figlio, poi lo spinge nell’anulare destro alzando la mano per intercettare l’ultimo raggio di luce del tramonto che attraversa a mezz’aria la stanza: «Guardi... Brilla come avesse la luce dentro. Dà luce a tutto l’ospedale».
«Ne darebbe ancora di più se ne avesse un paio sulle altre dita...»
«Un tempo ne avevo le mani piene, lo sa?»
«Domani è la festa di Hanukkah. Ho deciso di farle un regalo: aggiungeremo al nostro patto un anello di Hanukkah. Le piace l’idea? Per il sogno che mi racconterà oggi, avrà indietro due anelli con cui dar luce alla stanza, proprio come il candeliere di Hanukkah...»
«Due anelli per un sogno solo?»
«Direi che è un buon affare. Da bambina non li accendeva i ceri della Menorah in famiglia?»
«Oh sì, certo, io e Sarah li accendevamo.»
«Sarah è sua sorella?»
«Più piccola di me, ha i capelli rossi.»
«Lei e Sarah accendevate la Menorah Hannukiah con vostro padre.»
«Era lui, sì, era lui.»
«E le succede mai di sognare sua sorella?»
«No, mai, lei no.»
«Però sogna un uomo con le viole.»
Tessa non toglie gli occhi dal suo anello. È come se parlasse a lui, al momento unico legame con quella che era un tempo. «Avrò due anelli se rispondo? L’ha detto prima: due anelli se le dico un sogno.»
«L’ho detto.»
«E manterrà la promessa?»
«Quando mi ha detto dell’uomo con le viole, ha avuto l’anello, ce l’ha al dito, o sbaglio?»
Tessa si muove nel centro della stanza. Chiude gli occhi, respira. Poi apre lentamente le braccia, come se il suo sogno le si ricreasse intorno per davvero:
«Ho visto un bosco, fitto, pieno di rami,
è pericoloso entrarci,
il sentiero è ripido,
scende giù a strapiombo.
E là c’è un cane:
latra, guaisce,
gli stanno facendo male.
Oh, se l’è meritata, credo.
Sta laggiù, in fondo.
Mi fa male sentirlo.»
«E mi dica, l’uomo con le viole c’è ancora? Mi basta un sì o un no.»
«Sì, c’è, ma non si muove. Sta fra i rami, mi osserva.»
«Mi descriva il suo viso, riesce a vederlo?»
«Oh no, non ce l’ha. Gliel’ho detto, è decrepito, gliel’hanno tagliata.»
«Vuol dire decapitato.»
«Oh sì, la parola è quella. Avrò i miei anelli?»
L’errore di aggettivo di Tessa mi riapre subito il cassetto del sogno di Betta. L’uomo senza testa non è necessariamente quello che l’immagine sembra dire. Il sogno può giocare con le parole, pur di nascondere un significato rischioso. Per di più, Betta è francese: un dettaglio che non può essere tralasciato. Infatti. I santi e i beati appesi ovunque nella sua camera mi suggeriscono chi possa essere il misterioso uomo senza testa che la picchia col bastone: in francese “senza testa” si dice “sans tête”, con una pronuncia estremamente vicina a “sainteté”, che è l’appellativo del Pontefice. Il mantello infatti è bianco, il grande bastone è senza dubbio il pastorale.
Decisamente: la tresca fra Betta e il suo giovane guantaio non deve essere gradita nell’alto dei cieli.