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Un ladro di sogni
Ero poco più che un bambino quando fui derubato di me stesso. Avvenne in piena estate, in montagna. Il sole di giorno regnava, dipinto, su un cielo pastello. Alloggiavamo in una pensione tutta fiori e legno, di quelle in cui perfino d’agosto ti sembra di percepire il crepitio di una stufa accesa. Lì chiusi gli occhi come tutte le notti, rimboccato in un lenzuolo che sapeva di lavanda. Tutto era limpido e sereno in me, la vacanza rideva e con essa il creato. Eppure quella notte vennero a rapinarmi. All’inizio fu perfino divertente: sognai di avere un sosia. Era a tutti gli effetti un altro me stesso, a cui tutti si rivolgevano. Io non esistevo più, c’era solo lui. Identico a me eppure altro da me, così da prendere il mio posto. La sensazione di piangere durante un sogno non è così rara. Di certo però non ti scordi facilmente un pianto disperato, a dirotto, da cui senti quasi d’esser sopraffatto. Ebbene, fu così che quella volta piansi davanti alla sottrazione di me stesso. Il sosia si stava prendendo ogni cosa, chiamavano lui col mio nome, offrivano a lui il mio cibo. Non c’ero più. Osservavo, sentivo, vedevo, ma per nessuno ero lì.
A distanza di tanti anni, devo a quel sogno la più nitida impressione di quanto sia profondo il legame misterioso che ci tiene stretti a noi stessi. Il possesso di sé. La coscienza di appartenerci. Il senso quasi mai esplorato di abitare uno spazio solo nostro, proprio e indiscusso, di cui abbiamo noi le chiavi. Il mio pianto di quella lontana notte era in fondo la crisi di ogni uomo quando perde se stesso. Mai nella vita ho toccato questo abisso così da vicino. E oggi una parte di me sussurra che la ferita non si è mai del tutto chiusa: è come se il mio studiare i sogni nascesse in qualche modo da quel pianto, e dal senso non risolto di una sottrazione di sé.
Ma se lì fu l’origine del mio cercare, dov’è che mossi invece il primo passo? Nel rimettere in ordine questa mole di appunti, mi sono chiesto più volte dove fosse l’inizio. Ogni cosa d’altra parte ha un inizio, e la mia discesa nel labirinto dei sogni non fa differenza: da una scintilla nacque la fiamma, dalla fiamma divampò l’incendio. Credo che la scintilla, in questo caso, sia scoccata nel mese di marzo di molti anni fa, durante un consulto nella città di Lipsia, quando anch’io a mio modo mi macchiai di furto. Derubai un collega di un sogno. Ma lo feci in modo talmente bizzarro che la cosa non poté non colpirmi: dopo aver ascoltato senza troppa attenzione il racconto di un sogno di Delböuf che narrava di lucertole e di uno strano modo di nutrirle, replicai esattamente lo stesso sogno. Era una forma ridicola di appropriazione, dalla quale al tempo stesso mi sentivo divertito e imbarazzato. Per cui al risveglio, senza una ragione esatta, decisi di fermare per iscritto il mio bottino:
In alta montagna, in un cortile al freddo davo da mangiare delle foglie a una grande quantità di lucertole, e a ognuna dicevo il nome della pianta.
Chiusi il quaderno, e scordando tutto mi dedicai per la giornata al mio consulto. Quando però mi trovai solo nella camera d’albergo, quella sera, rilessi a voce alta le tre righe e conclusi che non contenevano affatto l’impressione del mio sogno. Lo riassumevano, certo. Ma non lo esprimevano. Quasi per gioco mi sforzai allora di scendere nei dettagli, riformulando il racconto:
Ero in montagna, in un cortile pieno di neve, quando vidi prima una sola lucertola e poi una lunga fila. Pensai che avessero freddo e fame, per cui presi una foglia da una pianta e le nutrii una per una. A ognuna dicevo il nome della pianta, ed era un nome in latino.
Di nuovo rilessi gli appunti, e di nuovo non fui soddisfatto. Non era il mio sogno, non lo era ancora, con tutto che la trama era quella. Mi chiesi allora se il punto non fosse proprio questo: il sogno non aveva bisogno di esser rilegato per forza in una trama: si componeva di immagini, le quali – sommate – davano l’effetto di un racconto. Per la terza volta allora ricominciai, isolando gli elementi come fossero immagini singole:
1) CORTILE DI MONTAGNA CON NEVE
2) LUCERTOLE INFREDDOLITE
3) FOGLIE DI UNA PIANTA STACCATE COME CIBO
4) NOME IN LATINO DELLA PIANTA
Era questo il mio sogno? Adesso che ne avevo estratto l’essenza come da un frutto, potevo dire di stringerlo in pugno? La risposta era no. Mancava l’emozione, ecco. Mancavano i miei stati d’animo, che concentrandomi avrei potuto ricordare passo per passo. Dunque, per l’ultima volta, riprovai a trascrivere il sogno, sforzandomi di isolare le immagini senza omettere le mie sensazioni. Ed eccone il frutto:
C’è il cortile di una casa.
È una casa di alta montagna, una baita.
Interamente coperto di neve.
Intirizzite, quasi sepolte dentro il bianco,
scopro due piccole lucertole.
Mi fissano, come mi chiamassero.
Le mani mi bruciano per il freddo.
Mi fissano. Come mi chiamassero.
Mi inchino.
Le raccolgo, le riscaldo.
La neve è ovunque.
Le mani mi bruciano per il freddo.
Adocchio una fessura dentro un muro,
so che là dentro staranno bene.
Ma prima di adagiarle,
stacco da una piccola pianta due o tre foglie.
Le stacco per fargliele mangiare.
Le labbra mi tremano, temo di non poter parlare.
Tuttavia mi sforzo, e mi sento dire:
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria”.
Lo so: ne sono ghiotte.
Ed ecco, da sotto la neve, ai miei piedi,
emergere un’altra lucertola.
E poi
un’altra e un’altra ancora. Una processione.
La neve è ovunque.
A ognuna io consegno una foglia:
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
Le mani mi bruciano per il freddo.
La neve è ovunque.
Questo era il mio sogno. Ora, la prima cosa che mi lasciò attonito fu che anch’io, come Delböuf, non mi ero mai occupato di botanica, né conoscevo le piante. Di più: provavo un ribrezzo istintivo per i rettili, tutti quanti. In modo particolare per le lucertole. Dunque? Da dove provenivano queste immagini? Da quale parte oscura del mio essere prendeva forma la scena innevata di quel cortile? E soprattutto: per quale assurda e tremenda regola del nostro umano esistere – per quale ingranaggio sconosciuto della mia macchina mentale – io definivo in sogno le foglie di felce non con un suono qualunque – posticcio, da ciarlatano – bensì con il loro nome, scientifico, da manuale? L’unica piccola variazione rispetto al sogno del collega stava in un gioco stupido di consonanti: la dicitura corretta della pianta in latino era
Asplenium ruta muraria
laddove io ero certo di usare in sogno la variante
Asperia ruta muraria
Ma conclusi che era un errore perdonabile a un profano della botanica. Ben più mi interessava la domanda più inquietante: chi parla, in me, nei miei sogni? Chi entra nel mio corpo, ogni notte, puntuale, dopo il trabocchetto che ci fa chiudere gli occhi?
Esplorare i sogni. Esplorare i sogni è esplorare la parte più arcana di noi, l’io che non sappiamo d’essere, l’essere che non sappiamo di avere. L’altro da me, l’io che sono senza volerlo. L’io che respingo, l’io che non comprendo. O forse solo l’io che non ha posto.
L’indomani del sogno, trovandomi a pranzo con due colleghi, il discorso di uno di loro cadde su un certo paziente affetto da isteria le cui crisi si scatenavano alla vista delle lucertole. È chiaro che il fatto fu del tutto casuale. Ma ebbe in me una conseguenza inattesa. Distintamente io sentii affiorare dentro di me – da una parte sconosciuta – un brivido come di pericolo, una sensazione così infantile e bambinesca di disagio per cui a stento nascosi l’agitazione e il batticuore che ne veniva. Sono certo che non avesse niente a che fare col fatto che il mio sogno era in realtà proprietà di un altro: a farmi tremare c’era il fatto che io – senza alcuna ragione logica – temevo che i colleghi sapessero il mio sogno, che lo avessero spiato. E questo mi atterriva.
Da quel giorno ho ascoltato negli anni dozzine di sogni, sogni di uomini, donne, vecchi, ragazzini. Che ho sommato ai miei. Li ho trascritti, li ho studiati, li ho sezionati come un chirurgo sui tessuti interni, alla ricerca di niente più che un senso.
Se è vero che niente in noi avviene senza motivo, e niente è per caso nel meccanismo che ci sostiene, allora che ruolo hanno queste immagini notturne, di cui spesso noi ridiamo dicendo “Sono solo sogni”?
“Sono solo sogni.”
“Sono solo sogni.”
C’è in noi molto di più di quanto sappiamo.
C’è in noi molto di più di quanto capiamo.
C’è in noi molto di più del recinto che vediamo.
Annotai il sogno misterioso delle lucertole come IL MIO SOGNO DI LIPSIA.
E da lì, in fondo, è cominciato tutto.