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L’uomo recluso
Nel mio catalogo di sogni il signor Wilhelm T. compare per la prima volta nel gennaio del 1894. Figura opaca, ai bordi della vita, attaccata a pochi tratti certi del suo essere come se tutto il resto gli fosse imperscrutabile, Wilhelm T. non ha mai avuto le chiavi di se stesso. Sta nei suoi anni come si può abitare un quartiere in affitto, perennemente a rischio di sfratto. Ragazzo mai divenuto uomo e uomo mai stato ragazzo, allinea un passo dopo l’altro della sua esistenza senza il coraggio di guardarsi mai indietro e col terrore di alzare il viso avanti: il suo è un eterno presente, il suo è un attimo sospeso, una stanza senza porte né finestre in cui tutto è sempre e solo la protezione delle pareti. Di quei muri Wilhelm T. ha fatto un monumento. Nel terrore di uscire per strada, ha lentamente reso la sua casa un carcere, convincendo se stesso di essere un pericolo per gli altri. Per difendere l’umanità, dunque, si proibisce di frequentarla.
Incontro Wilhelm T. nel semibuio del suo salotto. Le finestre sono chiuse, le tende polverose e spesse: ce ne sono ovunque. Un raggio di luce non penetra qui da tempo. Se sono stato ammesso è solo perché una parte di Wilhelm T. ha lanciato all’esterno l’ultimo appello, con quel modo di parlare così nobile e così controllato, come se ogni frase gli affiorasse sulle labbra in quanto memoria di un brano scritto: «Qualunque cosa accada là fuori, io me ne sento escluso. Vivo in esilio, perfino respirare l’aria mi appare come un furto di materia altrui. La sospensione è la mia sostanza. Io attendo continuamente un nemico di cui do per certa l’esistenza, ed egli ormai è talmente parte di me da essere divenuto me. Non so cosa possa fare, lei, con le sue terapie. Ma tutto quello che chiedo è separare me da lui, scindermi dal mio nemico, mettere una porta fra le due stanze perché io possa almeno chiamare per nome me stesso. Ecco: è tutto». E si lascia cadere sulla sua poltrona, all’indietro, spossato, come se la fatica del parlare avesse un costo insostenibile. Anzi, di più: a essere gravoso è il fatto stesso di avermi ammesso, qui, nella sua tana. Io fra queste tende non sono solo un intruso: sono il tradimento di Wilhelm a Wilhelm. Una parte di lui mi ha schiuso la porta, mentre l’altra non guardava. Decisamente: egli parla con qualcuno che non dovrebbe essere qui. E che pure lui stesso ha chiamato.
Mi tengo a distanza, cerco di farmi avvolgere dalla penombra di questa casa-caverna: voglio che a Wilhelm arrivi solo la mia voce, come se non fossi qui, come se il nemico non fosse entrato: «La sua psicosi è una soluzione logica a un problema sbagliato. Se lei potesse ricostruire come iniziò tutto questo... La sua separazione dal mondo ha un’origine, che lei ha sepolto in qualche parte di se stesso. Non ha memoria alcuna di questo?».
Il paziente prende un lunghissimo respiro, e continua a leggere dal suo libro: «Ho perso le mie tracce sul sentiero. Ho solo angosce sparse per la testa. E un sogno che torna ogni notte». Dopodiché, sulla parola “sogno”, ride.
«Un sogno?» gli chiedo dal mio buio.
«Ma non ha alcun senso.»
Il modo in cui il paziente Wilhelm T., affondato nella sua poltrona, scuote la testa con decisione, negando ogni valore al suo sogno sconosciuto, mi fa sorgere fin da subito il dubbio che là dentro, nelle pieghe di quel sogno senza senso, stia l’impronta di quello che era l’Eden e poi è divenuto Inferno. E per la prima volta, senza controllare le mie labbra, pronuncio la frase: «Se lei volesse raccontarmi il suo sogno...».
Il vuoto negli occhi di Wilhelm si fa d’un tratto vastissimo. Fissa un punto imprecisato della stanza. Lo sguardo di chi cerca dentro sé un sogno è identico a quello di chi scruta lontano, come dal picco roccioso di un monte si può cercare a perdita d’occhio il disegno di un fiume a fondovalle. La lontananza dei sogni è il loro primo inganno. Il secondo inganno è che siano cose di cui ridere. E di questo inganno mi servo volentieri, precisando a Wilhelm che «Mi piace annotare i sogni, anche se lei ha ragione: sono cose senza senso».
Annuisce. Sorride.
«Salgo sul fianco di un monte,
dove tutto sembra sia bruciato:
ci sono alberi enormi e neri,
fumano come carbone,
io ci sto in mezzo
e il puzzo di incendio mi entra nel naso
mentre la resina calda
scende come lava
dai buchi sui tronchi neri
e mi scorre in faccia
dandomi fuoco agli occhi.
Mi manca il fiato, sto per soffocare.
Poi in tre scatole di legno
vedo tre grandi farfalle
che sbattono le ali
escono su dalle scatole
e si alzano in cielo,
io vorrei salire
anch’io
lassù
con loro
ma non ho ali,
cerco di saltare ma non prendo il volo
e il fuoco negli occhi brucia sempre più forte,
allora afferro le tre scatole,
le uso per spiccare il volo,
ma sono sfondate,
non servono a niente,
il fumo intanto è sempre più denso,
mi entra dentro.
Mi manca il fiato, sto per soffocare.
E le pupille sono come braci
e il fumo ancora
e il fumo ancora
e il fumo, e il fumo
finché mi sveglio, senza fiato,
spesso piangendo.»
Il caso di Wilhelm T. si mostra vitale per la mia ricerca. Annoto questo racconto come IL SOGNO DI UN UOMO RECLUSO e questo mi porta chiaramente a una domanda: di cosa si nutre il sogno? Di cosa si compone? Se quest’uomo non esce da casa da anni, se i suoi occhi vedono solo queste pareti e queste tende coperte di polvere, come può sognare un incendio che senza dubbio da anni non può aver visto? È evidente che il sogno ha le chiavi di altri cassetti, che noi neanche immaginiamo.
Il mio collega Nathaniel D., che ha origini francesi, mi ha raccontato uno dei suoi sogni che ho annotato come IL SOGNO CHE TUTTO SA:
«Mi trovavo a camminare
in un paese pieno di nebbia,
ed era una nebbia tanto fitta
da non capire dove fossi.
Chiesi a un passante dov’era la farmacia
per medicarmi una gamba,
mi rispose che era oltre la piazza della chiesa,
ma che avrei fatto prima a passare
dal ponte sul fiume.
Poi mi fece cenno di seguirlo,
perché lui andava giusto lì.
Arrivato al fiume, lo ringraziai dandogli del voi,
mi rispose che lo chiamassi “Berthold”,
e aggiunse che non uscissi dalla strada
perché lungo il fiume i sassi erano scivolosi.»
Settimane dopo, il collega seppe da sua madre che all’età di sei anni aveva trascorso dieci giorni da una zia a Montbrison dove i parenti gestivano una farmacia. Non solo: con sua grande sorpresa, la madre gli riferì che il guardiano del ponte si chiamava Berthold, e fu lui a riportarlo a casa dopo che era scivolato sui sassi del fiume.
Credo che il meccanismo del sogno si serva del passato per raccontare il presente. Attinge ai ricordi dell’infanzia, quelli che non sai più di avere. Oppure apre cassetti più recenti, ma fra tutti sceglie quelli meno frequentati, quelli meno utili, i cassetti meno aperti di giorno dai pensieri.
Nel giugno dello scorso anno feci più sogni ambientati intorno a un campanile, la cui foggia mi era del tutto ignota. Ho scoperto poi per caso che si trovava in un sobborgo di Vienna dove non mi ero mai fermato, ma che attraversavo di frequente col treno. Il campanile era un materiale di scarto: una parte di me l’aveva cancellato come secondario e, come il pane caduto dal tavolo, se ne era appropriato il cane.
Sì. Dev’essere così.
Il sogno compone scene servendosi di scarti, come uno scultore che potendo scegliere non usi il blocco puro di marmo, ma assembli insieme spezzoni di gesso. Il marmo è vietato ai sogni: non gli viene consentito di usarlo. E su questo punto – che mi è oscuro – dovrò tornare. Per adesso mi basti questo: IL SOGNO È MATERIALE DI SCARTO.
Di certo, noi ricordiamo molto più di ciò che ricordiamo. Noi usiamo, per i sogni, ciò che non sappiamo di sapere. L’interpretazione dei sogni dunque non può nascere da simboli uguali per tutti. Ogni sogno è solo di chi lo crea, e a lui solo risponde. Interpretare un sogno è cercare dentro chi lo ha fatto il senso di ogni sua minima parte, perché il sogno non procede per pensieri ma per immagini. E c’è una sottile differenza, minuscola ma radicale, fra un pensiero e un’immagine: il pensiero è come un ponte fra due sponde, l’immagine è semplicemente il fiume.
Ma se questa è la materia di cui sono composti i sogni, se questa è la malta con cui sono costruiti i loro edifici, allora io mi chiedo: perché? Perché sogniamo?
Temo che sia qui la chiave. Noi non scegliamo di sognare. Ma una parte di noi, in qualche stanza buia del nostro pensiero – nascostamente – sente l’irrefrenabile bisogno di mettere insieme materiali di scarto per dirci qualcosa che non comprendo ancora. Non lo fa per lusso. Lo fa per istinto. E l’istinto agisce sempre per salvare.
I sogni sono un istinto, sì.
L’istinto non pensa.
L’istinto non sceglie.
L’istinto agisce.
E i sogni sono appunto azioni.
Ma in risposta a cosa?
In altre parole: perché mai Wilhelm T., nel semibuio del suo rifugio, ha bisogno di raccontarsi nottetempo una storia di fiamme, scatole di legno e farfalle? In che cosa – e per cosa – queste immagini sono per lui così necessarie?