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Sarabanda al parco
La primavera del 1894 era stata prematuramente tiepida. Le giornate di sole, sebbene talvolta un po’ ventose, si susseguivano come un dono gratuito e immeritato, disseminando in giro a piene mani quell’infantile gioia da reduci scampati al fronte che ti fa dire: “Suvvia, è fatta: abbiamo superato un altro inverno”. In questo promettente presagio d’estate, il pomeriggio si prestava volentieri ad amene passeggiate al parco, magari coronate per i piccoli da qualche corsa intorno alla grande vasca dei cigni: il rincorrersi accaldati fra lo starnazzare delle anatre era per i miei figli una pura gioia. E fu appunto in uno di questi lieti dopopranzo che facemmo un’esperienza a suo modo memorabile. Per età Mathilde era la più grande, Jean-Martin e Oliver la seguivano a ruota, per cui – anziana e dunque prima per grado nella rigida gerarchia militare dei bambini – toccava sempre a lei comandare la sarabanda dei giochi, imponendo ai fratelli perfino le pause sull’erba e il dissetarsi a una fontana. E, come colonnello, toccò a lei venire a informarci del buffo caso in cui si erano imbattuti: «Signor padre, signora madre, laggiù c’è un gatto tinto di verde». Probabilmente il nostro sguardo bastò a farle capire quanto credito le dessimo, per cui io e Martha fummo subito afferrati per mano e costretti a seguirla verso il nobile gazebo dei concerti, dove con somma sorpresa dovemmo ricrederci. Un gatto si aggirava guardingo fra i cespugli, attento a nascondersi ma al tempo stesso puntando chissà cosa, per niente turbato dal fatto che il suo pelo dal collo in giù gocciolasse vernice verde. Ma lo spettacolo non finì lì, perché giusto in quell’istante ecco sopraggiungere un vecchio imbianchino, che disperatamente inveiva come un forsennato contro un cane a sua volta tinto. Il gatto vide il cane e si diede alla fuga, cosicché la folla dei bambini poté godere di un autentico numero circense: un imbianchino all’inseguimento di un cane mezzo verde che per par suo inseguiva un gatto dello stesso pigmento.
Quella sera, rientrati a casa, i tre piccoli Freud furono impazienti di raccontare alla domestica l’attrazione del giorno. Mia moglie Martha, nel frattempo, diede anche lei la sua versione alla sorella. Quanto a me, non potei far a meno di rilevare che ognuno di loro conferiva ai fatti una veste narrativa propria. Diciamo che, pur avendo assistito alla stessa scena, ognuno vi aveva letto qualcosa di diverso, e come tale diversamente la descriveva:
VERSIONE DI MIA MOGLIE MARTHA
«C’era un imbianchino in là con gli anni
che deve aver perso un po’ di vista un secchio.
Un gatto – molto grasso – così
si era del tutto macchiato di vernice
– magari nel secchio ci è andato a bere
nemmeno fosse latte –
e un cane randagio
pur di mangiarselo
doveva essersi infilato bello bello
pure lui nel secchio,
insomma quei due si davano la caccia
e dietro a loro l’imbianchino,
furioso per quel perder tempo.»
VERSIONE DI MATHILDE
«Un imbianchino stava verniciando su una scala,
quando il suo cane ha avvistato un gatto,
e ha cominciato a rincorrerlo,
ma poi mi sa che sono passati sotto la scala,
l’imbianchino è crollato giù
e gli si è rovesciata la vernice
proprio sopra il cane e il gatto,
per cui tutti e tre
hanno iniziato a darsi dietro l’un con l’altro
e divertivano un mondo.»
VERSIONE DI JEAN-MARTIN
«Al parco c’era un pittore matto
che si è messo a tingere di verde i cani e i gatti,
ma quando se n’è reso conto,
li rincorreva per pulirli.
Quei due però si piacevano di più colorati,
e non si facevano mai prendere davvero.»
VERSIONE DI OLIVER
«Per giocare a nascondino
un cane e un gatto si sono tinti di verde,
che così fra le piante nessuno li vedeva.
Ma uno li ha fatti uscire fuori davanti a tutti.»
Evidentemente, partendo da uno stimolo comune, ognuno dei miei quattro familiari aveva ricostruito la vicenda a proprio modo, attribuendo un diverso significato alle parti del racconto. Non si trattava di un’invenzione mendace, quanto di un accondiscendere a un bisogno naturale e necessario di inserire ogni elemento dentro una cornice narrativa che ne motivasse la funzione. E ciò avveniva solo sulla base della diversa esperienza di ciascuno. Pertanto, sulla base della conoscenza che avevo di mia moglie e dei miei figli, tentai un’analisi di ognuna delle quattro versioni.
VERSIONE DI MIA MOGLIE MARTHA
Il racconto dell’adulta del gruppo è non a caso l’unico in cui figurano dei giudizi sui personaggi: il gatto è definito “grasso”, mentre il cane diventa “randagio” e l’imbianchino è “in là con gli anni”. Dell’imbianchino, Martha percepisce poi la distrazione sul secchio e la perdita di tempo del dover rincorrere gli animali. In sintesi, il racconto di Martha punta quasi prevalentemente su un problema di colpe: il gatto è colpevole di mangiare troppo, il cane a sua volta vorrebbe mangiarsi il gatto, dopodiché entrambi sono colpevoli di essersi macchiati, mentre l’imbianchino è doppiamente colpevole di non aver controllato il secchio, e sconta questa sua lacuna perdendo tempo a inseguire i disgraziati. La mia impressione è che questo racconto non sia affatto casuale: con tanti figli piccoli, Martha era ossessionata dal dover tenere tutto sotto il proprio vigile sguardo, scontando altrimenti chissà quali guai fra sbucciature, bizze e conflitti d’ogni tipo. Pertanto, l’imbianchino distratto è una chiara maschera in cui Martha si immedesima, mentre il cane e il gatto sono i nostri figli. A sostegno di questa analisi, c’è anche il fatto che cane e gatto vengono collegati entrambi al tema tipicamente materno del cibo (il gatto per il latte, mentre il cane per il suo voler mangiare l’avversario). Oserei infine dire che quell’insistere su un oggetto come il secchio (lo nomina tre volte) potrebbe avere a che fare con quella che a detta di Martha è davvero da anni la sua ossessione, ovvero il bagno dei figli nella tinozza.
VERSIONE DI MATHILDE
Arrivata ormai sui banchi di scuola, Mathilde mostra nel suo racconto di avere a cuore una classica sfida con il mondo adulto. Il suo imbianchino, infatti, lo troviamo improvvisamente sopra una scala: il suo è uno stare più in alto, separato rispetto ai giochi degli animali che si svolgono sotto le sue gambe. All’opposto del racconto di sua madre, Mathilde toglie ogni responsabilità ai personaggi: il cane e il gatto si rincorrono come da statuto naturale, e il loro colorarsi si deve né più né meno a un incidente. Se quindi qualcuno ha colpa, quello è il secchio che si è rovesciato proprio su di loro. Come non notare che questa versione di mia figlia rispecchia fedelmente il suo modo di declinare le colpe tutte le volte che viene ripresa: la sentiamo sempre dire: «Che c’entro io? È successo da solo». Appunto: un incidente.
VERSIONE DI JEAN-MARTIN
A neppure cinque anni d’età, mio figlio Jean-Martin inizia a concepire il duro confine della realtà rispetto a quello della favola e dei giochi. È il trauma che verosimilmente sta vivendo sulla sua pelle, e di cui dunque ci racconta appena può: nel suo delizioso racconto del parco, all’inizio si è come dentro una novella, e la magia avvolge un po’ tutto: gli animali possono essere pacificamente colorati da un pittore. Il fatto però è che il pittore (ovvero Jean-Martin stesso) è definito “matto” (ecco l’immagine dei nostri rimproveri, e dei continui inviti a crescere). Per cui, alla fine, il pittore dovrà recedere dal suo guizzo giocoso, mettendosi a rincorrere gli animali già imbrattati. È una dura ammissione, davanti alla quale mio figlio tiene comunque a dire che i suoi animali “si piacevano di più colorati”. E non solo: “non si facevano mai prendere”.
VERSIONE DI OLIVER
Dal basso dei suoi tre anni, anche Oliver rispecchia nel racconto la sua percezione del mondo. Lì il gioco è tutto, non esiste altro, non c’è regola che possa piegare la bellezza del nascondino. E infatti la tinta verde diventa un trucco, un geniale stratagemma per non farsi trovare. Quanto all’imbianchino, egli è soltanto un seccatore che per un attimo ha rovinato il gioco.
Nella sua estrema semplicità, l’episodio del parco nelle quattro diverse versioni mi suggerisce qualcosa sul linguaggio dei sogni e sulla loro necessità. È come se i miei familiari non avessero potuto resistere alla tentazione di leggere comunque se stessi in ciò che accadeva, servendosi del racconto come di un pretesto per riferire qualcosa di più vitale e profondo. Mia moglie e i nostri figli hanno usato la vicenda del parco per esprimere qualcosa di ben più radicato e decisivo: Martha ha parlato dell’angoscia del suo essere madre e dei rischi che questo comporta, Mathilde ha dato voce alla sua voglia di far crollare gli adulti giù dai loro piedistalli, e perfino i più piccoli hanno trovato il modo per camuffare se stessi nella metafora ristretta del racconto. Dopo che i nostri occhi hanno assistito alla reale scena di quella sarabanda, è come se il ricordo di quelle immagini fosse diventato disponibile per contenere altro. L’imbianchino ha cessato di esistere come imbianchino, e così il cane e il gatto. Appena si è trattato di raccontare, ecco che immediatamente il vero oggetto del racconto è stato il proprio essere, il proprio sentire, il proprio vibrare. Nella nostra disperata sete di conoscerci, noi in realtà scaviamo di continuo in fondo al pozzo di noi stessi. Siamo il nostro discorso. Siamo la nostra ricerca. Siamo la nostra luce nel buio. Solo in apparenza parliamo del mondo. L’unico mondo di cui parliamo porta la nostra faccia.