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Avevo sei chiamate perse del sergente Aspinall,
più due sms in cui mi chiedeva di mettermi in contatto con lei al
più presto. Non uso la segreteria telefonica, non sono capace.
Tanto vale scrivermi su un pezzo di carta e lanciarlo nel
lago.
Winston era tornato in
ospedale; lo avevo lasciato a tenere compagnia a George insieme con
Petra ed ero andata nel corridoio a chiamare Celia per farmi dare
notizie di Foxy.
A quanto mi risultava,
la cagnolina stava bene. Non ricordavo di averla vista schiacciata
sull’asfalto o anche solo sanguinante, ma in realtà non ricordavo
proprio di averla vista.
Questo però non bastava
a rassicurare George. Non riusciva a calmarsi, era agitato, gli
veniva da piangere, tanto che a un certo punto lo specializzando
del reparto aveva suggerito: «Non sarebbe meglio chiamare i padroni
del cane e farselo dire con sicurezza?»
Il corridoio era
affollato. Due giovani medici con la faccia pulita e l’aria
entusiasta camminavano verso di me. C’è una regola non scritta
secondo cui i dottori girano per l’ospedale con lo stetoscopio al
collo mentre il personale che ne avrebbe bisogno veramente,
fisioterapisti respiratori, infermieri e così via, lo devono tenere
in tasca per non confondere l’ordine gerarchico delle cose.
Avvicinandosi a me, i due dottori smisero di parlare e mi fecero un
sorriso mesto per delicatezza nei miei confronti. Lo trovai un bel
gesto.
Celia rispose al terzo
squillo.
«Celia?»
«Roz! Perché mi hai
chiamato? Tutto bene? Come sta George? Oh, Signore, dimmi che sta
bene! Come va la gamba? Guarirà?»
«Tu eri presente?» le
domandai. Ero confusa, non ricordavo se avesse assistito
all’incidente oppure no.
«Sì, certo. C’eravamo
tutti e due. Come sta? Dimmi come sta George. Ti prego, Roz, non
tenermi sulle spine!»
«Sta abbastanza bene. La
gamba è un po’ malmessa, ma dovrebbe recuperare. Speriamo. Si è
svegliato da poco e... Celia?... Chiede di Foxy.»
«Oh, Foxy sta
benone.»
«Davvero?»
«Si è strappata il
legamento crociato del ginocchio correndo a casa più veloce di
quanto non corresse da anni, ma a George tu questo non dirlo. Digli
invece di stare tranquillo, che Foxy sta bene. Sul serio,
Roz.»
Espirai.
Aggiornai Celia sugli
ultimi sviluppi e mi apprestai a richiamare la poliziotta per dirle
di George e farglielo pesare, visto che dai messaggi che mi aveva
lasciato sembrava non sapere che era stato investito. Ma si
parlavano fra loro, quei cialtroni? In quel momento vidi arrivare
Henry Peachey con un mazzo di fiori in una mano e un libro
nell’altra. Probabilmente stava andando a trovare sua sorella
Nadine.
Non mi aveva ancora
visto perché teneva gli occhi bassi e pensai di scappare nel
reparto di terapia intensiva per evitare di parlargli. Il tempo di
suonare e farmi aprire, però, e lui inevitabilmente mi avrebbe
visto.
Non è che volessi
evitarlo a tutti i costi. Anzi, una parte di me aveva una gran
voglia di spiegargli ogni cosa e di chiedere scusa, di cercare di
ricucire. C’era qualcosa nel suo incedere, però, che mi spingeva a
scappare: non aveva la solita postura eretta, il solito passo
baldanzoso e sicuro. Per la prima volta da quando Nadine aveva
investito mio figlio, mi sentii in colpa nei confronti di qualcuno
che non fosse George.
Mio figlio era ancora
vivo, quello di Henry no.
Mi voltai dalla sua
parte. Non appena mi scorse, si fermò sui suoi passi. Gli offrii un
sorriso debole e incerto e aspettai che si
avvicinasse.
Lui rimase fermo dov’era
e mi guardò con l’espressione che si riserva a una carcassa che si
sta decomponendo lungo il tuo cammino, che va superata o in qualche
modo aggirata.
Un inserviente che
spingeva una carrozzina lungo il corridoio gli chiese di spostarsi
e lasciarlo passare, riscuotendolo dal torpore che lo aveva colto.
Riprese a camminare.
«Ciao»
dissi.
«Ciao» rispose Henry
senza nemmeno guardarmi.
«Come
stai?»
Non replicò, ma chiese:
«Ho sentito che George è uscito dallo scontro in gravi condizioni.
Come sta adesso?»
«Si è appena svegliato.
Siccome ha chiesto di Foxy, sono uscita un attimo a...» Sollevai il
cellulare per fargli vedere che avevo chiamato Celia.
Henry annuì e tentò un
sorriso come a dire Tipico di George,
sì. Non gli riuscì granché bene,
tuttavia. Diede un calcio al pavimento con la punta della
scarpa.
«Quindi...» cominciai,
ma lui mi interruppe.
«Ho
fretta.»
«Aspetta, Henry. Ti devo
dire una cosa.»
Henry sospirò e lanciò
un’occhiata alle mie spalle. In un momento di follia feci per
toccarlo, ma lui si scostò velocissimo, come se l’avessi punto.
«Scusa» dissi.
Non gradì.
«È un po’ tardi per
chiedere scusa, Roz» disse con foga. «Mi spiace per George e sono
contento che si stia riprendendo, ma non ho voglia di parlare con
te. Hai rovinato la vita a Nadine e mi hai fatto fare la figura del
cretino. Preferisco non avere più rapporti con te, se non ti
dispiace.»
«Senti, Henry, capisco
che tu non abbia voglia di parlarmi, ma almeno questo lo devi
sapere: non ho mai avuto una storia d’amore con Scott. Non è vero.
Non so perché l’abbia detto alla festa, ma ti posso assicurare che
fra noi non c’è nessuna storia e meno che mai amore.»
Henry non rispose. «Hai
finito?» chiese dopo un momento.
«Sono stata benissimo
con te, Henry.»
Alzò gli occhi al
cielo.
«No» dissi. «Davvero.
Non pensare che...»
«Quindi quando uscivi
con me non andavi a letto con Scott. Giusto?»
Abbassai la voce.
«Avevamo fatto un patto per cui...»
«Un patto» ripeté Henry
imperturbabile.
«Sì. Scott mi pagava. Lo
so, non è una giustificazione, ma voglio che tu sappia che non era
una mia scelta.»
«Ti ha costretto lui,
quindi?»
«No» balbettai. «Mi
hanno costretto le circostanze. Alla festa te ne sei andato senza
lasciarmi il tempo di spiegarti. Vorrei anche ricordarti che ho
cercato di tirarmi indietro, quando mi chiedevi di uscire. Non
volevo che...»
«Che io...? Non volevi
che vi scoprissi? La sera che ci siamo incontrati in quell’albergo
vicino a Lancaster eri con lui, no?»
Annuii. «Era la prima
volta» ammisi. «Senti, mi dispiace che tu ci stia male. Non volevo
ferirti. Non mi aspettavo che tu mi piacessi tanto. Ho accettato
l’appuntamento al buio per far contenta Nadine, ma pensavo che dopo
quella sera non ci saremmo più rivisti.» Stetti un attimo zitta,
poi aggiunsi: «Non potevo prevedere che ti saresti presentato tu,
che ci saremmo piaciuti sul serio».
Mi parve che rilassasse
la mascella e ne approfittai per cambiare discorso. Indicai il
libro. «Che cosa leggi?»
«Anna
Karenina.»
«Bello?»
«È la seconda volta che
lo leggo e mi sembra che parli più di agricoltura che di adulterio,
rispetto alla prima.»
Sorrisi. «Senti, Henry,
so che sei arrabbiato con me. So di averti ferito e umiliato. Ma
voglio che tu sappia che il patto con Scott è precedente. Sono
stata con lui prima di conoscere te e l’ho fatto per denaro. Per
motivi puramente venali. Lo dici tu stesso, no? Se lavori due
giorni la settimana soltanto, ti adatti a fare qualsiasi cosa. Non
mi sto giustificando, ma non appena ho ripagato i debiti più
urgenti, ho smesso. Ero disperata, Henry, rischiavo di trovarmi
senza un tetto sopra la testa. Non ci sarei stata,
altrimenti.»
Seguì un momento di
silenzio carico di tensione, in cui Henry rifletté su ciò che avevo
appena detto e forse si ammorbidì leggermente.
«Mi aveva avvertito che
ti saresti difesa in questo modo» disse alla fine.
«Che cosa?»
«Scott» spiegò. «Mi
aveva avvisato che avresti detto così.»
«Non ti capisco,
Henry.»
«Scott è venuto da me
prima di partire...»
«Perché? Dov’è
andato?»
«Non ne ho idea. Alle
Galápagos, per quel che ne so io. Nadine non lo vuole certo
intorno. È partito ieri.»
«E cosa ti ha detto,
Henry?»
«Che mi avresti
propinato questa storia. E che, per l’appunto, era una storia.
Afferma che sei stata tu a dirti disponibile, nel corso della prima
seduta di fisioterapia, e che lui ha accettato perché ti trovava
attraente.»
Rimasi a bocca
aperta.
«Secondo lui, sei
un’arrivista e lo hai coinvolto per farti regalare gioielli e
quant’altro: hai visto in lui un mezzo per tirarti fuori dai guai e
gli hai pure chiesto un prestito.»
«Gli credi,
Henry?»
«Perché non dovrei? Tu
mi hai raccontato una bugia dopo l’altra, Roz. E comunque la
versione di Scott è più credibile. Scusa, ma la storia della escort
faccio davvero fatica a bermela.»
Lo guardai
sbalordita.
«Perdonami, non ce l’ho
con te» disse. «Ma dopo tutto quello che mi è capitato negli ultimi
anni, preferisco evitare altri motivi di sofferenza.»
«Aspetta» lo pregai. «Ti
prego, Henry, aspetta. Mi rendo conto che il fatto che fosse Scott
rende tutto più difficile, che se si fosse trattato di qualcun
altro...»
Mi
interruppe.
«No, Roz» disse
sommessamente. «A me non frega niente di Scott. A me dispiace per
te. Mi dispiace che, mentre ci frequentavamo, tu stessi con un
altro. Mi stavo innamorando di te, capisci? E ho bisogno di non
vederti più per ritrovare un minimo di equilibrio
mentale.»
Ciò detto, se ne andò.
Gli guardai la schiena, lo seguii con gli occhi lungo il corridoio,
finché non sparì alla vista.