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Non voglio tediarvi con i particolari della
fine del mio matrimonio. Non fu nulla di eccezionale: il solito
progressivo disintegrarsi della relazione a furia di promesse
mancate, cuori infranti e piatti rotti.
Diciamo semplicemente
che io e Winston non facevamo parte di quei genitori separati che
per il bene dei figli continuano a comunicare in maniera civile,
trascorrono il Natale assieme e frequentano amici
comuni.
La nostra separazione
era avvenuta nello stile degli inglesi del Nord: urla per strada,
cattiverie, irrazionalità. Una sera ci eravamo incontrati per caso,
ubriachi tutti e due, ed eravamo finiti a fare sesso in una
toilette. Non era stata una separazione tranquilla, insomma. Ma
quando mai lo è?
Appartenevo alla schiera
di donne che chiamano il loro ex «lo stronzo» e tutti capiscono a
chi si fa riferimento.
Ci eravamo separati due
anni prima e non avevamo ancora divorziato perché non ce lo
potevamo permettere economicamente. Io però lo consideravo ex
marito a tutti gli effetti. Winston era così indolente che fargli
firmare un modulo – anzi, fargli muovere un dito per fare qualsiasi
cosa – diventava una fatica improba, un lavoro. E io mi ero stufata
anche solo di provarci.
Certo, Petra aveva
ragione quando diceva che avrei dovuto recidere qualsiasi legame
con Winston e tirarmi fuori da tutto ciò che era cointestato, se
volevo rifarmi una vita e rimettermi in carreggiata. Finché c’era
lui di mezzo, non sarei riuscita ad approdare a nulla. Ma i miei
orari di lavoro massacranti e gli sforzi per tenermi a galla me lo
impedivano.
«Anteponi le rogne a
tutto il resto» mi aveva raccomandato Petra in più di un’occasione.
«Quando te ne sarai liberata, sarai più produttiva.»
Che cosa avrebbe detto,
se le avessi riferito l’invito di Scott? Le sarebbe preso un
colpo.
Petra era convinta che
tutti a questo mondo condividessero il suo rigore morale. Si
stupiva, quando si accorgeva che gli altri non erano come lei se li
era immaginati. Lo prendeva come un’offesa personale.
Ovviamente, avevo
rifiutato l’invito di Scott.
«Non esco con gli uomini
sposati» avevo dichiarato.
«Non ti chiedo di
’uscire’ in senso stretto» aveva ribattuto. «Beviamo un bicchiere e
stop. Non è proibito dalla legge, no? Ci vediamo da
amici.»
«No, Scott. Mi
dispiace.»
«Posso farti una
domanda?» Sorridendo.
«Spara.»
«Se non fossi sposato,
accetteresti?»
«Tu sei sposato,
Scott.»
«Ma se non lo
fossi?»
«Lo sei.»
Se n’era andato
divertito, come se la mia testardaggine non facesse che accrescere
il mio fascino. Mi chiesi se lo facesse d’abitudine, se fosse un
adultero seriale, uno che amava la conquista. Probabilmente avrei
continuato a chiedermelo fino alla fine della mattinata, se non mi
avessero telefonato per George.
Ero al terzo paziente
sofferente di sciatica, quando sentii squillare il telefono alla
reception. Cercai di non distrarmi, perché era un paziente
difficile e meritava tutta la mia attenzione.
La sciatica vera e
propria è rara. Si verifica quando il nucleo polposo, quella specie
di gelatina che si trova al centro del disco intervertebrale,
fuoriesce dall’anello fibroso e preme sulla radice del nervo
sciatico provocando un dolore così intenso che a volte è
addirittura impossibile muovere la gamba. Una volta che il nucleo
polposo è stato espulso, non si torna indietro: sarebbe come
cercare di rimettere il dentifricio dentro il tubetto. L’unica
soluzione è chirurgica. Perciò, se trovate un medico che vi
promette di rimettere a posto il disco, state certi che è un
cialtrone.
Come dicevo, però, la
sciatica vera e propria è rara. Più comune è che ci sia un
sovraccarico della fascia muscolare intorno alle vertebre lombari.
Conosco un trucco: faccio chinare il paziente in avanti e gli
massaggio con la punta delle dita i fasci paravertebrali;
normalmente nel giro di pochi minuti il paziente è in grado di
piegarsi del tutto senza bisogno che io gli manipoli le
articolazioni, cosa che può essere dolorosa.
Ero nel bel mezzo della
procedura quando Wayne bussò alla porta dello studio per informarmi
che avevo una telefonata urgente. «Adesso non posso rispondere» gli
urlai. La hippie senza reggiseno che stavo trattando sussultò per
l’interruzione e contrasse i muscoli, rimanendo bloccata in
posizione piegata.
«È la maestra di George»
specificò Wayne a denti stretti.
Non potevo lasciare
quella povera donna così, con le tette vizze che dondolavano come
palle da biliardo dentro a un calzino, piegata a quaranta,
cinquanta gradi. È una posizione estremamente precaria. Dissi a
Wayne che avrei richiamato al più presto.
Passai i successivi
novanta secondi frastornata da pensieri e paure che si scontravano
a tutta velocità nella mia testa, passando in rassegna un
assortimento di disgrazie che potevano essere capitate a George
perché la maestra decidesse di chiamarmi in studio. Non riuscendo
ad alleviare la contrattura della mia paziente, mi arresi
temporaneamente, abbassai il lettino al massimo, trenta centimetri
da terra, e la aiutai a sdraiarsi tenendola per la vita.
Rannicchiata in posizione fetale, la poveretta mi disse: «Vada,
vada a sentire cos’è successo a suo figlio».
La ringraziai, presi un
asciugamano e la coprii, benché a lei non fregasse nulla del
pudore. Andai in fretta alla reception e vidi che Wayne faceva una
faccia come a dire: Niente chiamate
private in orario di lavoro.
Composi il numero.
«Pronto?» Intanto Wayne si fingeva impegnatissimo ad aprire una
scatola di fazzolettini di carta e asciugarsi il labbro
superiore.
«Signora Toovey, sono
Hilary Slater.»
Hilary Slater era la
preside della scuola. «Tutto bene?» domandai.
«Sì e no, per la verità»
rispose lei. Sospiro. «Abbiamo un problema. Un problema con
George.»
«Si è sentito
male?»
Sei mesi prima avevo
incominciato a ricevere a intervalli più o meno regolari telefonate
dalle maestre, che mi informavano che George non si sentiva bene e
voleva tornare a casa. Lamentava sintomi disparati: nausea, mal di
testa, vertigini. Ogni tanto zoppicava persino. Ovviamente le
maestre lo prendevano sul serio. Anch’io, all’inizio.
Mi precipitavo a
Hawkshead a metà pomeriggio e lo portavo a casa, oppure in studio
da me, ma alla terza volta sia per Wayne che per me ha iniziato a
essere un problema. Soprattutto perché George in realtà stava
benissimo. Dopo venti minuti che era con me, il pallore scompariva
e cominciava a chiacchierare allegramente. Avevo parlato con la
maestra, spiegando che George faceva finta di star male per motivi
a me sconosciuti, che avrei cercato di approfondire le sue
motivazioni, ma che per favore non gli credessero subito, quando
accusava qualche malessere.
Una settimana dopo mi
era arrivata la solita telefonata, ma stavolta George era stato
visto vomitare da un compagno. Non potevo obiettare, dunque: avevo
mollato un paziente affetto da fibromialgia nelle mani di
quell’incapace di Gary, il cui repertorio terapeutico consisteva in
ultrasuoni seguiti dall’ultimo gadget di elettroterapia sul mercato
e da un predicozzo finale sulla postura corretta. Tutta roba
inutile per chi è afflitto da dolori costanti.
George, manco a dirlo,
stava benone. Il testimone del suo malessere era un suo amichetto
che sicuramente avrebbe confessato, se interrogato a dovere, e
avrebbe specificato che ciò che aveva visto uscire dalla bocca di
mio figlio era saliva, non vomito. Così George era riuscito a
svicolare dall’ennesimo pomeriggio di scuola e dalle lezioni di
spagnolo, di storia o quale fosse la sua materia odiata del
momento.
«George non sta male,
signora Toovey» specificò Hilary Slater.
«Per fortuna» risposi
con una risatina nervosa.
Silenzio.
«Potrebbe venire qui
intorno alle tre e mezzo, così ne parliamo?» propose. Ma la sua non
era una domanda.
Ebbi un attimo di
esitazione. «George ha il doposcuola, oggi. Lavoro fino alle
diciassette. Di che cosa si tratta?»
Wayne a quel punto mi
fissava apertamente e io cercai di allontanarmi perché non
sentisse. Il filo però non mi consentiva di prendere adeguatamente
le distanze.
«Preferirei che
parlassimo di persona» replicò cauta la Slater.
«Sì, capisco, però...»
Mi interruppi. Come potevo dirglielo senza sembrare maleducata o
menefreghista? Non c’era modo. «Non posso mandare via i pazienti,
signora Slater, se non in casi eccezionali.»
Wayne gesticolava in
maniera inequivocabile Non se ne
parla, Roz.
«Non glielo chiederei,
se non fosse necessario.»
«Possiamo fare un po’
più tardi, almeno?» chiesi speranzosa. «Alle diciassette, per
esempio? Penso di riuscire ad andar via dallo studio un po’ prima,
se...»
Ma Hilary Slater mi
interruppe. «Non è possibile, signora Toovey. George è stato
sorpreso a rubare.»
«Come ha detto,
scusi?»
«Suo figlio è stato
sorpreso a rubare.»
«Rubare?» ripetei. Mi
aveva colto completamente alla sprovvista. Wayne si bloccò e mi
guardò interessatissimo.
«Esatto.»
«Ha le prove, immagino»
balbettai. «Il suo non è un sospetto, ma un fatto inequivocabile,
suppongo, altrimenti io...»
«È inequivocabile,
signora Toovey.»
«Merda» mi scappò. Mi
scusai subito. «Va bene, vengo alle tre e mezzo»
risposi.
A meno che uno non programmi i propri impegni
in base agli orari dei traghetti, è difficile arrivare puntuali.
Quel giorno io arrivai, insolitamente, in anticipo. Rimasi in
macchina fuori dalla scuola per evitare le altre mamme, visto che
George non sarebbe uscito insieme con i suoi compagni. Non gli era
stato neppure concesso di tornare in classe per le lezioni
pomeridiane ed era rimasto a fare i compiti con un’assistente
didattica nel laboratorio di informatica.
Trafficai un po’ con la
radio in cerca di un canale che si sentisse decentemente. In certi
punti di Hawkshead il segnale non arriva. I fulmini non hanno
problemi, invece, tant’è vero che è indispensabile usare
interruttori magnetotermici per proteggere gli elettrodomestici.
Avevo già fritto un congelatore e due cellulari, da quando abitavo
lì.
Alla fine mi arresi e
rimasi nel silenzio a osservare i gruppetti di tre o quattro mamme
che conversavano. Ero sicura che dicevano cose tipo
Sono una madre degenere, perché...
Senza pensarlo veramente, ovvio. Ai padri
queste finte autocritiche venivano risparmiate, era consentito loro
farsi gli affari propri e non parlare con nessuno. Meglio evitare
ambiguità di sorta: quando un uomo si comporta come le donne, non
passa inosservato.
Aspettai che se ne
fossero andati tutti, prima di entrare. Mi ero ripromessa di non
prendere le difese di mio figlio, ma di ascoltare e assecondare
Hilary Slater e di assicurarle che avrei fatto in modo che in
futuro George si comportasse come si deve.
Quando però la
segretaria mi fece accomodare in presidenza e vidi George seduto su
una sedia troppo alta per lui, che dondolava le gambette magre e
teneva la testa bassa, fui colta da un moto di
compassione.
Gli corsi incontro.
«George» dissi, accucciandomi vicino alla sua sedia. «Come
stai?»
Lui annuì senza alzare
gli occhi.
Dopo poco ci raggiunsero
la preside, Hilary Slater, la maestra di quinta di George, e la
maestra di sesta, quella che lasciava una scia di profumo
nauseante.
«Signora Toovey» esordì
la preside. «Grazie di essere uscita prima dal
lavoro.»
«Si
figuri.»
«Vuole accomodarsi lì?»
E mi indicò una sedia vuota a mezzo metro da George. Guardai mio
figlio e mi tirai su. Cercavo di incrociare il suo sguardo, ma lui
mi evitava. Arrivai a sollevargli il mento con un dito, ma lui
continuò a tenere gli occhi bassi.
Mi sedetti e guardai le
tre donne che avevo di fronte. Avevano un’espressione comprensiva
della serie: Non
giudichiamo.
«Allora» cominciò la
preside. «Sono certa che il signor Toovey le ha parlato del
problema della scorsa settimana. È indispensabile che prendiate in
mano la situazione e facciate qualcosa. Perché dobbiamo
assolutamente intervenire, se...»
La
interruppi.
«Un momento» dissi.
«Avete parlato con Winston?»
Hilary Slater si
accigliò. «Sì» rispose. «Non le ha detto nulla?»
«No.»
«Ah, be’...» balbettò.
«Allora... Mi dispiace. Davo per scontato che...» Lasciò la frase
in sospeso e guardò le colleghe in cerca di
ispirazione.
La maestra di George si
schiarì la voce. Era una donna pacata, gentile, sulla cinquantina,
molto disponibile. Se la incontravo per strada, però, aveva il
brutto vizio di far finta di non conoscermi. «Abbiamo provato a
contattare il signor Toovey, volevamo che ci fosse anche lui, ma ci
ha risposto un uomo che ci ha informato che il signor Toovey è in
trasferta all’estero.»
Lanciai un’occhiata a
George, che sollevò la testa un secondo e subito tornò a guardare
per terra. Aveva le ginocchia macchiate di erba e la stringa della
scarpa sinistra allacciata male, troppo lunga da una parte e troppo
corta dall’altra.
«Peccato» commentai.
Tutti sapevamo che era stato Winston a rispondere a quella
telefonata. «Però poco fa diceva che gli avete parlato la settimana
scorsa?»
«Sì» rispose Hilary
Slater. «Due volte. Venerdì, quando è venuto a prendere il bambino,
lo abbiamo informato che da un po’ di tempo scomparivano
cose...»
«Tipo?»
domandai.
«Cancelleria, roba così.
Nulla di valore, ma non è questo il punto. Rubare è rubare, signora
Toovey.»
«Avete detto questo a
Winston?»
«Sì» rispose la preside.
Prima di continuare, si morse un labbro. «Non mi ha preso granché
sul serio. Ha detto che a suo parere era normale, a quell’età. Ci
ha addirittura scherzato su, ha detto che sua madre gli cuciva le
tasche, quando era piccolo. Mi dispiace che non glielo abbia
riferito, signora Toovey. Davo per scontato che lei fosse stata
informata.»
Guardai George. «Avresti
dovuto dirmelo, tesoro.»
«Purtroppo George non
sembra disposto a parlarne» replicò Hilary Slater. «Non ammette di
aver sbagliato e non vuole dire perché l’ha fatto. È un ottimo
scolaro, benvoluto da tutti. Non riusciamo a capire perché si
comporti così.»
«George?» lo
interpellai, ma lui rispose con una scrollata di
spalle.
Mi rivolsi di nuovo alla
preside. «Cancelleria, quindi. Solo questo?»
«Purtroppo no. Ci siamo
accorti che era George a far sparire quelle cose perché ha cercato
di rivenderle.»
«Oh.»
«Una delle spillatrici è
stata trovata nello zaino di un alunno della seconda.»
Feci una
smorfia.
«E oggi George è stato
sorpreso con le mani in una borsa in sala professori. Aveva in
tasca quaranta sterline e siamo abbastanza sicuri che non fosse la
prima volta.»
Mi alzai dalla sedia e
mi andai ad accucciare vicino a George. «Santo Cielo! Che cosa ti è
saltato in mente, George?»
Scoppiò a
piangere.
«Signora Toovey,
sappiamo che a casa state attraversando un brutto momento. Dovrebbe
cercare di capire che cos’è che turba il bambino, in particolare»
suggerì Hilary Slater.
«Verrà punito?»
chiesi.
La preside scosse la
testa. «Per questa volta lasceremo correre. Ovviamente, se la cosa
si ripeterà, dovremo prendere provvedimenti. Ma siamo certe che
George ha capito la gravità della situazione e non lo farà più.
Vero, George?»
Mio figlio sollevò la
testa. Aveva le guance bagnate di lacrime. «No»
rispose.
Un momento dopo, seduti
nel corridoio, gli chiesi: «Guardami, George. Cosa
succede?»
«Niente.»
«George»
ripetei.
Si asciugò gli occhi.
«Non lo so.»
«Sì che lo sai. Perché
hai rubato?»
Scoppiò in singhiozzi.
Sembrava disperato.
«Perché sei senza soldi»
rispose fra le lacrime.
«Non sono senza soldi.
Ho quelli che servono» dissi.
George prese
fiato.
«E voglio ricomprare
Cesar» disse. «Voglio che torni a casa con noi.»