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Nadine rimase in terapia intensiva ventiquattr’ore, poi la trasferirono nel reparto di semi-intensiva. Aveva un trauma al torace. Finché restò in terapia intensiva, Scott non si fece vedere. I figli sì, la andarono a trovare: li sentii bisbigliare dietro il paravento. A quel punto si era sparsa la voce fra il personale, tutti erano al corrente della situazione e ci trattavano con distacco professionale. La mia richiesta era stata esaudita e c’era sempre una sorta di sbarramento fra Nadine e George, cosa che sapevo essere non del tutto regolare, in un reparto di terapia intensiva. Dopo che Nadine fu trasferita in semi-intensiva, un infermiere pettegolo e un po’ effeminato che si chiamava Kyle indicò il paravento. «Possiamo abbattere le mura di Gerico, adesso? Che cosa dice?» disse.
I miei genitori vennero e andarono via. Winston venne, andò via, si procurò alcuni generi di prima necessità e si fermò.
Venne la polizia, ma la dinamica dell’incidente era chiara. Più testimoni avevano visto Nadine perdere il controllo della vettura quando l’anziano signore a bordo della Fiat era uscito in retromarcia dal vialetto. Alla prova dell’etilometro cui era stata sottoposta appena giunta al pronto soccorso era risultata al di sotto del limite, benché io l’avessi vista bere e lei stessa lo avesse ammesso. Dichiarò alla polizia che aveva appena scoperto che suo marito la tradiva e che era sconvolta. Disse inoltre che le dispiaceva moltissimo.
Dispiaceva a tutti.
Petra venne e si trattenne un bel po’. Pianse molto e stette al capezzale di George tre giorni interi, implorandolo di svegliarsi e torcendosi le mani. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata e vedevo che contraeva tutti i muscoli del collo.
«Dimmi quello che mi devi dire» la esortai dopo alcune ore di quel trattamento.
«E cioè cosa?»
«Quello che senti di dovermi dire.»
Petra scostò i capelli dalla fronte di George. «Non ho niente da dire.»
«Pensi che sia stata tutta colpa mia.»
Petra si voltò di scatto. «Non direi mai una cosa del genere» ribatté.
«Non c’è bisogno che tu la dica, Petra.»
Si portò una mano alla bocca e soffocò un singhiozzo. Poi chiuse gli occhi e inspirò a lungo, aggrappandosi alla sponda metallica del letto. «Non ti faccio colpe» replicò in tono misurato, fermo, ma come se avesse la bocca piena di aceto.
«Io me ne faccio, invece» replicai guardandola negli occhi. «Io sì, penso che sia stata tutta colpa mia. Ecco, l’ho detto. Così tu puoi farne a meno.»
«Non fare tanto la spavalda» si infiammò lei.
«Non faccio la spavalda. Lo penso veramente. Lo so. Ma non voglio vederti con tutta quell’ansia dentro, tutto quel rancore represso. Se vuoi vegliare mio figlio mentre versa in condizioni gravissime, cambia disposizione d’animo, okay?»
«Tuo figlio» ripeté Petra in tono piatto.
«Sì, mio figlio. Nel bene o nel male sono sua madre, Petra. Quindi adesso, per favore, o mi dici quello che hai da dire, oppure lasci perdere. Perché così io non ce la faccio.»
Petra si allontanò da George, andò ai piedi del letto e mi fece segno di seguirla.
Aveva l’espressione severa. «Sei un’imbecille, un’incosciente e mi vergogno di essere tua sorella» disse. «Mi vergognerei già a conoscerti, figurati a esserti imparentata.»
«Va’ avanti.»
«Hai di nuovo cercato una scappatoia. Tu cerchi sempre una scappatoia e te ne freghi se comporta far soffrire qualcuno, non pensi alle conseguenze.»
Non mi stava dicendo tutto. Usava un linguaggio quasi professionale, forse per rispetto nei confronti di chi ci stava intorno.
Scuoteva la testa mentre parlava. «Non riesco a credere che ci andavi a letto. Non mi capacito del fatto che avessi una storia con lui.»
«Non abbiamo avuto una storia.»
«È il marito della mia amica! Con tutti gli uomini che ci sono al mondo...» Aveva gli occhi pieni di lacrime. Scrollò le mani davanti al volto come per scacciarle. «Sei una disgrazia, Roz. Mi hai messo in una situazione incresciosa. Non credo che potrò mai...»
George aprì gli occhi.
Ci guardava stupito, confuso. Cercò di dire qualcosa e si meravigliò che le parole non uscissero come avrebbero dovuto.
Si portò lentamente una mano alla bocca, conscio di avere qualcosa di strano in quella zona, e aggrottò la fronte nel sentire il tubo.
Gli corsi accanto. «Non affaticarti, tesoro» dissi. «Come stai?» George annuì.
Non aveva paura. Sembrava contento di vedermi come quando si svegliava da piccolo: apriva gli occhi, mi vedeva accanto alla culla e sorrideva assonnato. Pareva chiedermi: Sei stata qui tutto il tempo?
«Sai dove sei, George?» domandò Petra con voce tremante. «Ti ricordi cos’è successo?» Alzai gli occhi al cielo e le chiesi di dargli un attimo di requie. Lei ci rimase male.
George sbatté le palpebre come se non riuscisse a raccapezzarsi. Abbassò gli occhi e spostò la testa nel vedere il fissatore intorno alla gamba.
«Vai ad avvertire le infermiere che si è svegliato» bisbigliai a Petra. Lei annuì e corse via.
Mi accucciai vicino al letto. «George, sei in ospedale e hai un tubo in bocca che ti aiuta a respirare. Vedi?» Passai il dito sul tubo, fino al ventilatore. «Questo aggeggio respira per te. Lo senti?»
George sorrise. «Bello, vero?» dissi. Lui lo osservò un momento, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso di me. «Hai una gamba ridotta un po’ maluccio, ecco perché sta dentro quella gabbia metallica: per aiutare le ossa a riattaccarsi nella posizione giusta. Ti fa male?»
Si guardò la gamba per cercare di capire se gli doleva o meno. Poi rialzò gli occhi e mi fece segno che no, non gli faceva male. «Ti hanno dato una medicina» gli spiegai. «Per togliere il dolore.»
Gli dissi che ero molto contenta che fosse sveglio, che mi ero sentita sola a tenergli compagnia senza potergli parlare. Lo informai che il suo papà era già venuto ed era andato via a recuperare alcune cose che mi servivano. «Fra poco sarà di nuovo qui» lo avvertii. George era sedato e piuttosto passivo e speravo che continuasse così.
«Buongiorno!» esclamò una voce alla mia sinistra. Kyle, l’infermiere, era ai piedi del letto con un gran sorriso e disse a George che era molto più carino con gli occhi aperti. George si imbarazzò.
«Potete togliergli il ventilatore?» domandai e Kyle rispose che sì, ora che si era svegliato si poteva fare, ma la somministrazione dell’ossigeno sarebbe continuata finché non gli avessero tolto i drenaggi toracici. Scompigliai i capelli al mio bambino e gli ripetei che ero contenta che fosse di nuovo sveglio. George cambiò faccia.
«Tutto okay?» chiesi.
Mi guardò con gli occhi spalancati e l’espressione spaurita, poi tentò di muoversi.
«Cosa c’è?» chiesi. «George, devi stare più fermo possibile. Cos’hai? Ti fa male da qualche parte?»
Petra cercava di calmarlo dicendo «Buono, buono», ma George si era irrigidito. Il mio primo pensiero fu che avesse subito un danno cerebrale, che avesse un edema, che stesse per venirgli una crisi convulsiva. Mi voltai verso l’infermiere, che però non pareva minimamente preoccupato. «Ti sta tornando in mente quello che è successo, George?» gli chiese con dolcezza e George annuì ripetutamente, sempre più spaventato.
Mi avvicinai. «Hai avuto un incidente» gli dissi.
Nessuna risposta.
«Ti ha investito una macchina, George.»
Scosse la testa come per dire che non se lo ricordava, l’espressione a un tempo frustrata e terrorizzata.
«Foxy» disse, con un filo di voce.