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Mi occupavo di corpi. Vivi, non morti. E quell’afoso pomeriggio di inizio luglio il corpo steso a faccia in giù davanti a me era un normalissimo esemplare, il dodicesimo paziente della giornata. Iniziava a farmi male la schiena e il mio carattere solare dava segni di cedimento.
«Come le sembra?» domandò mentre gli premevo i pollici nei fasci muscolari paravertebrali.
«Va bene» risposi. «Ho liberato il tessuto cicatriziale intorno a L4, l’articolazione incriminata. Dovrebbe sentirsi meglio, quando si alza in piedi.»
Lavorava alla cava, e gli operai della cava erano fra i miei clienti più difficili. In genere parlavano poco, il che mi concedeva una breve pausa dalle interazioni verbali richieste dagli altri clienti, ma dal punto di vista fisico erano faticosissimi. La loro massiccia muscolatura, irrigidita in più punti, mi imponeva di usare tutto il peso del tronco per imprimere una pressione adeguata con i pollici.
I pollici erano i miei ferri del mestiere, fondamentali in ogni sfaccettatura del mio lavoro. Erano i miei strumenti diagnostici, che adoperavo per individuare e valutare la consistenza dei tessuti e il mezzo con cui davo sollievo a chi aveva dolore.
Avevo pensato di assicurarli, a un certo punto. Come le gambe di Betty Grable. Non lo avevo ancora fatto, però.
«Quando ha finito con la schiena, se ha tempo, mi darebbe un’occhiata alla spalla?» mi chiese il cavatore.
Alzò la testa e sorrise imbarazzato, come se gli dispiacesse tantissimo recarmi disturbo.
«Certo!» risposi, nascondendo il disappunto.
Prima lavoravo in proprio e davo il massimo per risolvere i problemi di ogni paziente. La gente non paga, se non ottiene risultati apprezzabili, e io ce la mettevo tutta per mantenermi un buon giro di clienti.
Cerchiamo tutti il giusto equilibrio fra lavoro e tempo libero, no? Be’, per un determinato periodo io l’avevo raggiunto.
E poi l’avevo perso.
A un certo punto avevo finito i soldi e mi ero ritrovata a lavorare cinquanta ore la settimana per una società che gestiva varie strutture sanitarie, chiusa in una stanzetta asfittica, un paziente dopo l’altro come in una catena di montaggio. E i frutti del mio lavoro andavano a finire nelle tasche di qualcun altro.
Per giunta, ero alla mercé del mio capo, che si chiamava Wayne.
Non era cattivo, ma la sua smania di far funzionare l’ambulatorio con la massima efficienza lo rendeva opprimente. E ogni tanto si metteva pure a farmi la corte, sebbene si fermasse sempre prima del limite delle vere e proprie molestie. Io comunque gli avevo subito fatto capire che doveva stare al suo posto, per evitare che si prendesse qualche libertà di troppo e mi invitasse a cena fuori. Penso che in realtà fosse un uomo molto solo.
Mi inginocchiai alle spalle del cavatore seduto sul bordo del lettino e gli chiesi di sollevare il braccio lateralmente. Quando arrivò a novanta gradi, l’uomo emise un gemito di dolore e contrasse involontariamente la spalla.
«È il sovraspinato» dissi.
«Una cosa grave?»
«Fastidiosa. Oggi non ho tempo per farle un trattamento come si deve, ma se vuole le faccio al volo un po’ di agopuntura per cercare di alleviarle il dolore.»
Avevo seguito un corso di specializzazione in agopuntura e, mentre ruotavo l’ago, sentii Wayne che cercava di convincere una signora alla reception a prendere appuntamento con un altro operatore del nostro centro.
«Voglio Roz Toovey» insisteva la donna.
«Roz è prenotata fino a metà della settimana prossima. Perché non prova Gary Muir?» continuava Wayne. «Può riceverla anche oggi. Fra dieci minuti.»
Nessuna risposta.
«Okay. Cosa ne dice di Magdalena?» suggerì Wayne.
Faceva sempre così: prima cercava di mandare i pazienti da Gary, che a quanto mi risultava non distingueva una scapola da una rotula ed era stato ammesso a fisioterapia solo perché quando aveva fatto domanda di iscrizione c’era penuria di fisioterapisti maschi. Prima di andare all’università, Gary giocava a football in seconda divisione.
«Magdalena?» domandò la signora. «È la tedesca?»
«Austriaca» corresse Wayne.
«L’ultima volta mi ha fatto un male boia. Mi sembrava di essere finita sotto un autobus. No. Mi scusi, ma voglio Roz.»
«Come le dicevo, però» ribatté Wayne spazientendosi, «Roz non ha posto fino a metà della settimana prossima.»
Roz Toovey sono io, a proposito.
«Le potrebbe parlare un momento?» chiese la donna. «Le dica che Sue Mitchinson ha di nuovo mal di schiena, per favore. Ero una sua paziente abituale. Sono certa che mi vedrà, se le dice che sono qui e che sto malissimo. Roz è l’unica che può...»
«Un momento» la interruppe Wayne irritato.
Sentii dei passi, poi tre colpi sulla mia porta.
«Roz? C’è una certa Sue Mitchinson che vorrebbe farsi visitare da te.»
«Mi scusi un attimo» dissi al cavatore.
Aprii la porta e feci capolino fuori.
Non guardai Wayne, ma direttamente Sue che, non appena mi vide, mi venne incontro a passo di marcia.
Senza darmi il tempo di parlare, iniziò a espormi il caso. «Scusami, Roz: non te lo chiederei, se non fossi disperata. Lo sai che non mi piace disturbare. Potresti dedicarmi cinque minuti? Te ne sarei davvero grata.»
Non soltanto ero l’unica fisioterapista di South Lakeland in grado di mettere a posto la schiena di Sue, ma io e lei avevamo condiviso un pezzo di vita.
Avevo condiviso un pezzo di vita con molti pazienti di quello studio per il semplice fatto che mi avevano seguito lì quando avevo chiuso il mio. Erano lo zoccolo duro della mia clientela e mi sentivo in debito nei loro confronti.
All’inizio avevo messo un’inserzione sul giornale locale e non appena mi ero rivelata capace di offrire sollievo al dolore cronico (cosa che molti colleghi della zona non erano in grado di fare), si era sparsa la voce e nel giro di un mese la mia agenda si era riempita di appuntamenti. Naturalmente a quel punto i miei primi pazienti, quelli che erano stati così gentili da raccomandarmi, non riuscivano più a ottenere un appuntamento con me e dovevano ricorrere alle suppliche.
«Perdonami, Sue, ma proprio non posso» replicai con fermezza. «Devo andare a prendere George al doposcuola. Sono già arrivata in ritardo due volte, questa settimana.»
Senza fermarsi a pensare, Sue si offrì di mandare sua madre a prendere George.
Non conoscevo la madre di Sue. Non l’avevo mai né vista né conosciuta. Neanche George la conosceva.
«Stiamo a Hawkshead, adesso» risposi cercando di non essere sgarbata. «Non è possibile.»
Sue fece una smorfia e cercò di farsi venire in mente un’altra soluzione. Wayne intanto aveva la faccia sempre più seccata. Si irritava moltissimo quando i pazienti insistevano per essere trattati da me e non si lasciavano toccare da Gary e compagnia: gli impediva di distribuire gli appuntamenti in maniera bilanciata e finiva che io mi massacravo di lavoro mentre Gary si girava i pollici alla reception chiacchierando con Wayne, discutendo di Premier League e magnificando le qualità delle scarpe Puma. Ogni due parole, dicevano «assolutamente».
«Cinque minuti soltanto. Anche meno.» Sue non demordeva.
«Va bene. Cinque minuti» acconsentii. «Ma devi aspettare. Ho un altro paziente dopo questo e sono già in ritardo.»
Sue non mi stette a sentire e andò a sedersi in sala d’attesa senza lasciarci il tempo di cambiare idea.
«Hai chiamato il tipo dell’assicurazione?» domandò Wayne.
«Come? No, scusa. Mi sono dimenticata anche stavolta.»
Wayne fece un sospiro teatrale e alzò gli occhi al cielo. «Organizzati, Roz. Sei l’unica che deve ancora consegnare la valutazione» disse in tono di rimprovero. Abbassò la voce. «Senza quella, non sei coperta dall’assicurazione. E quindi qui non siamo coperti in quanto struttura...»
«Lo faccio, giuro. Appena ho un momento libero. Senti, Wayne» dissi uscendo dalla mia stanza e chiudendo la porta per evitare che il paziente mi sentisse, «non è che potresti darmi un piccolo anticipo sullo stipendio? Sono un po’ in difficoltà e non so se riesco ad arrivare a venerdì.»
Wayne inclinò la testa da una parte e mi rivolse un’occhiata di disapprovazione. «Te l’ho già detto, Roz» rispose con dolcezza. «Non si fanno eccezioni. Neanche per te. Vorrei poterti venire incontro, ma ho le mani legate. Assolutamente.» Ciò detto, si voltò e se ne andò.
Finii di trattare il cavatore e sentii che Wayne alla reception informava Sue, ad alta voce e in tono dittatoriale, che avrebbe dovuto pagare la seduta per intero, anche se io l’avrei trattata per pochi minuti.
Si comportava così ogni volta che si sentiva messo in secondo piano, anche per faccende di scarsa importanza.
Quando, anni prima, avevo cominciato a lavorare come libera professionista, avevo paura di non riuscire a ingranare e avevo confidato le mie ansie a uno dei miei pazienti, Keith Hollinghurst, che mi aveva risposto così: «Quelli che non possono permettersi di non lavorare, ce la fanno. Quelli che non ne hanno bisogno, no».
Keith era molto critico nei confronti dei piccoli imprenditori che si buttavano allo sbaraglio senza rendersi conto di quanto impegno richieda chiudere il bilancio in positivo. «Nove su dieci falliscono» diceva. «Fa’ in modo di non essere fra questi.»
Keith Hollinghurst era della vecchia scuola. Aveva una ditta di rottamazione di materiali metallici, girava con fasci di banconote da venti in tasca ed era di una schiettezza spaventosa. Quel giorno, sdraiato a pancia in giù con una serie di aghi piantati nella schiena pelosa, si lanciò in invettive contro il consiglio distrettuale di South Lakeland. Mi riportò stralci di conversazioni avute con burocrati – che naturalmente aveva messo al loro posto – e io gli dissi sempre di sì, facendo una domanda ogni tanto per fargli credere che lo stavo a sentire. Poi gli tolsi gli aghi e gli chiesi di voltarsi supino in maniera da potergli manipolare la zona lombare sollevandogli una gamba e spingendola, tesa, verso il fianco opposto. Lui ubbidì e, mentre gli sistemavo un cuscino sotto la testa, vidi che aveva le mutande macchiate di urina.
«Appena finisci la zona lombare, ho da farti una proposta» disse sbattendo le ciglia.
«Non voglio che ti masturbi davanti a me, Keith.»
Non era la prima volta che ci provava.
Keith non rispose e io cominciai a spingergli la gamba facendolo inspirare ed espirare un paio di volte fino a sentire il tipico crac.
Molti pensano sia il rumore del disco intervertebrale che torna al suo posto, ma non è così. È il rumore delle due superfici articolari che si allontanano producendo un tipico schiocco oppure, più comunemente, come in quel caso specifico, è il rumore prodotto dalle aderenze che si staccano dall’articolazione.
Evito di controbattere, perché è più facile.
Ci sono altri luoghi comuni sui quali preferisco lasciar correre. Uno: la convinzione di tutti quelli che sono stati da un osteopata di avere una gamba più corta dell’altra. Due: l’irritante leggenda secondo cui i fisioterapisti ciechi hanno poteri paragonabili a quelli di Gesù Cristo. Tre: l’idea condivisa da tutte le donne di mezz’età di avere una soglia del dolore elevatissima.
«Senti» disse Keith. «Lo so che non navighi nell’oro, che ti stai crescendo il bambino da sola. Ti do sessanta sterline extra. Non devi neanche venirmi vicino. Ci metto poco.»
«Non se ne parla.»
«Ricordi cosa ti ho detto quando hai iniziato l’attività?»
«Ripetimelo.»
«Che per sopravvivere dovevi offrire qualcosina in più della concorrenza. Chi si limita a fornire un servizio standard, prima o poi fallisce. Il cliente deve andare via più che soddisfatto, altrimenti...»
«Troppo tardi, mi spiace: io sono già fallita.»
«Se vuoi rimetterti in piedi, Roz, non puoi limitarti a fare il minimo indispensabile. La gente si aspetta di più, specie adesso che c’è la crisi economica, girano meno soldi, la disoccupazione sale e...»
Lo guardai negli occhi.
«Non stai seriamente giustificando la tua richiesta con l’aumento della disoccupazione, vero?»
Keith abbassò gli occhi e si morse un labbro.
«Ottanta» propose. «Ottanta sterline sull’unghia. Non devi nemmeno far finta che ti piaccia guardare.»
«Non mi piace guardare.»
«Cento.»
«No, Keith» risposi con fermezza. «E adesso rivestiti.»