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Mentre il traghetto si allontanava gemendo dalla riva, scesi dalla macchina.
I turisti, come al solito, uscirono sul ponte non appena si chiusero le paratie e cominciarono a fotografarsi con il lago sullo sfondo e a indicare le ville più belle, ma io, come la stragrande maggioranza dei residenti, davo per scontato quel paesaggio magnifico e non degnavo di uno sguardo colline, foreste e acque trasparenti.
La bellezza dei luoghi diventa invisibile, quando hai la testa piena di crucci e di problemi quotidiani.
Bowness e Hawkshead sono due paesi divisi dal più esteso lago naturale dell’Inghilterra, Windermere. Il traghetto lo attraversa nel punto più largo assicurando un servizio che esiste da più di cinquecento anni. Per fare il giro del lago, sia in un senso sia nell’altro, bisogna percorrere una ventina di chilometri e d’estate, quando c’è traffico, ci vuole più di un’ora. Il traghetto quindi è essenziale. Le prime imbarcazioni erano a remi, poi a vapore. Quello attuale è a gasolio e può trasportare fino a diciotto autoveicoli.
Se sono di buonumore, mi sento la donna più fortunata del mondo. Mi si allarga il cuore nel vedere il panorama quando torno a Hawkshead. Sono felice di essere viva e di abitare in uno dei posti più belli del mondo, un luogo dove molti sognano di trasferirsi una volta in pensione.
Quel giorno ero in ritardo.
Un ritardo gravissimo, ingiustificabile.
Non potevo tirare in ballo interruzioni per lavori in corso, trattori con rimorchi carichi di pecore o gomme a terra. E non potevo far andare più veloce il traghetto.
Due settimane prima avevo vicino un’ambulanza che trasportava un ferito e il traghetto non aveva accelerato la sua corsa neanche in quell’emergenza. Era inquietante vedere l’ambulanza con i lampeggianti azzurri accesi ferma sul traghetto che attraversava il lago. Noialtri passeggeri ci guardavamo preoccupati, chiedendoci chi stesse trasportando e in quali condizioni. È una curiosità che non ci siamo mai tolti.
Non sarei riuscita ad arrivare in tempo al doposcuola e George si sarebbe agitato e magari sarebbe addirittura scoppiato a piangere. Aveva nove anni e in generale era un bambino forte, ma aveva patito la separazione fra me e suo padre un paio di anni prima. Lo avevo visto perdere gradualmente la spensieratezza, sostituita da una certa apprensione umorale più tipica di un adolescente che di un ragazzino di quell’età. Tendeva a essere guardingo, a stare sulla difensiva, come se sentisse di doversi preparare a superare gli ostacoli che la vita ci poneva costantemente di fronte.
Presi il cellulare e riprovai a chiamare.
Il sole era ancora alto nel cielo e faceva caldo.
I fumi del traghetto e di due veicoli con il motore ancora acceso rendevano l’aria pesante, contaminata, e quella puzza faceva a pugni con l’acqua cristallina e pulita del lago. Appoggiata contro la battagliola, con il cellulare vicino all’orecchio, riascoltai per l’ennesima volta il messaggio registrato del doposcuola.
Provai a chiamare Dylis nel tentativo di mettermi in contatto con il mio ex marito. Contrariamente al solito, mi rispose.
«Pronto, Dylis? Sono Roz.»
«Chi?»
«Roz» ripetei. «Dov’è Winston?»
«Non lo so, cara» replicò Dylis con il tono di chi si è appena svegliato. Dava spesso l’impressione di essere un po’ assente, quasi sedata. «Al lavoro, penso» disse. «Aspetta che prendo carta e penna così mi segno quello che gli volevi dire. Altrimenti poi non...»
«Dylis» la interruppi. «Winston non ha un lavoro. L’ha perso, no? Per questo non mi passa gli alimenti per George. O ne ha trovato un altro?»
«No, no» balbettò lei. «Non volevo dire questo. Assolutamente. È che non so dove sia e ho pensato che magari è andato a fare qualche lavoretto a qualcuno, ma gratis.»
«Gratis» ripetei. «Capacissimo. Senti, Dylis, se lo senti nei prossimi cinque minuti, puoi chiedergli se va lui a prendere George, che io sono in ritardo?»
«Non tocca a lui» replicò Dylis confusa. Sentii rumore di pagine e pensai che stesse sfogliando l’agenda.
«Non è il vostro weekend, lo so» spiegai. «Ma sono in un ritardo spaventoso e se tu fossi così gentile da contattare Winston e chiedergli di...»
«Biglietto, Roz» chiese una voce alle mie spalle.
Con il telefono premuto contro l’orecchio, mi voltai, estrassi una banconota dal portafoglio e la porsi al bigliettaio. «Mi dai un carnet nuovo, per favore?» gli chiesi sottovoce. «Ho usato l’ultimo biglietto che avevo stamattina.»
Terry era un uomo di poche parole, mi diede il carnet, e potei tornare alla mia conversazione telefonica. Dylis non aveva la patente e stava a Outgate, due chilometri da Hawkshead, quindi non potevo chiedere a lei di andare a prendere il bambino. Però il mio ex marito Winston Toovey, che sospettavo lavorasse in nero da Natale, con ogni probabilità era in giro a bighellonare con gli amici, visto che viveva con sua madre ed evitava qualsiasi tipo di responsabilità. Purtroppo aveva la cattiva abitudine di non portarsi appresso il cellulare.
Salutai Dylis e provai il desiderio di sbattere il telefono per terra. Non era la prima volta: Dylis mi dava sui nervi. Bisognava cavarle le parole di bocca. Se faceva una gaffe riguardo a Winston, si lasciava scappare qualcosa che non avrebbe dovuto dire, soprattutto a me, e quando io la invitavo a spiegarsi, ad approfondire, lei stava zitta e si guardava i piedi.
Se io non demordevo, dopo un po’ alzava la testa e mi guardava sconsolata, conscia di averla fatta grossa, come se volesse chiedermi: Per favore non dirlo a Winston.
L’avrei presa a schiaffi. Mi veniva voglia di gridarle: Come hai potuto permettere che tuo figlio se ne andasse di casa lasciandomi una montagna di debiti? Non lo facevo perché dentro di me sapevo che i suoi modi distratti e svampiti erano il massimo che Dylis riuscisse a fare.
Arrivai a scuola alle sei e ventotto.
Con ventotto minuti di ritardo.
Aprii il portone e venni accolta da un corridoio silenzioso e privo di giacche e cappotti, solo qualche sacca da ginnastica appesa ai ganci.
Presi fiato ed entrai nell’aula. Il doposcuola si teneva nell’aula della prima e, mentre aspettavo che George radunasse le sue cose, ammiravo i tentativi di scrittura e i ritratti dei genitori degli alunni, spesso straordinariamente somiglianti per alcuni dettagli che forse i soggetti avrebbero preferito non vedere così enfatizzati (orecchie a sventola, denti storti).
George era seduto per terra, gambe tese in avanti, capo chino sul Nintendo. Non sollevò la testa, pur avendomi sentita arrivare. Si scostò i capelli dalla fronte con uno scatto.
Iona, la coordinatrice del doposcuola, alzò gli occhi e fece un sorrisino a denti stretti, come a dire che quella era davvero l’ultima volta.
Era venerdì, una splendida giornata di sole, non vedeva l’ora di mettersi in bikini, infradito e pantaloni corti e bersi una Peroni gelata.
«Mi scusi» dissi convinta. «Mi dispiace tantissimo. George, preparati. Sbrighiamoci.»
«Roz?» disse Iona.
«Lo so, è inaccettabile. Che cosa vi devo per il disturbo?»
«Dieci sterline» rispose. «Abbiamo cominciato a far pagare cinque sterline ogni quarto d’ora di assistenza extra, perché i genitori arrivavano costantemente in ritardo.»
«Ecco» dissi, porgendole una banconota che non mi potevo permettere di spendere. «Gliene do venti. Mi rendo conto che lei...»
«Non è questione di soldi, Roz» ribatté la maestra. «È che sono qui dalle sette e mezzo di stamattina e ho voglia di tornarmene a casa, capisce?» Iona non alzò la voce: era troppo professionale per fare una scenata davanti a George. Per certi versi, fu ancora peggio. Era come se mi stesse dando della cattiva madre.
«Mi dispiace tantissimo» ripetei. «Non succederà più: glielo assicuro.»
«Saremo costretti a chiudere il rapporto di...»
«No, la prego, non dica così» la interruppi. «È indispensabile, per me.»
«La capisco, Roz» disse Iona. «Mi rendo conto delle sue difficoltà, ma non arriva mai in orario e non è giusto. Non è giusto nei nostri confronti e nei confronti di...» Non finì la frase, ma fece un gesto in direzione di George, che era andato a prendere il cestino della merenda sul davanzale fingendo di non starci a sentire. Siccome avevamo finito le merendine, gli avevo dato uno yogurt alla pesca e in quel momento me ne pentii amaramente. I bambini dovevano portare via i rifiuti che avevano prodotto per permettere ai genitori di controllare che cosa avevano mangiato e cosa no. Il vasetto vuoto a quell’ora doveva assomigliare a un esperimento sulla generazione spontanea.
Mi voltai verso Iona e mi resi conto che stava aspettando che io dicessi qualcosa.
«Non so come fare» replicai con sincerità, considerando la logistica della settimana successiva.
Iona non propose soluzioni. Non mi sorpresi, visto che la sua pazienza si era esaurita il mese prima e mi aveva già dato più di una possibilità di rimediare.
Avrei potuto chiedere aiuto a mia sorella.
In realtà no. Compiva quarant’anni quel giorno, la sera eravamo invitati alla sua festa di compleanno e la settimana dopo aveva in programma un viaggio a New York. I miei genitori abitavano troppo lontano e comunque avevo promesso a mia sorella di non oberarli più di incombenze extra. Non potevo chiedere aiuto a loro, dopo quello che gli avevo fatto passare. Avrei dovuto aspettare ancora un po’.
Winston era inaffidabile. Nel periodo in cui aveva la passione dei fenomeni meteorologici estremi, si era dimenticato di andare a prendere George diverse volte per correre ad ammirare un temporale particolarmente intenso sul lago.
Iona si schiarì la voce, sempre in attesa di una mia risposta.
A un certo punto si apprestò ad alzarsi e fece una smorfia.
«Tutto bene?» le chiesi, notando che spostava il peso da un piede all’altro.
«Ho male a un ginocchio» rispose e sospirò. Due volte.
«Okay» disse alla fine, con espressione rassegnata. «Le do un’ultima possibilità, Roz.» E, senza darmi il tempo di esprimere la mia gratitudine e prometterle che non sarebbe accaduto mai più, si sollevò la gamba dei pantaloni e scoprì il ginocchio.
«Non avrebbe dieci minuti per guardare un po’ cos’ho?»