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Ricordo quando andai a vedere il film Proposta indecente. Ero con le mie amiche, durante le vacanze di Pasqua, ai tempi dell’università. Andammo a vederlo al Royalty Cinema di Bowness, uno di quei vecchi cinema che adesso stanno sparendo. Nel 1993 aveva un’unica sala e la cassiera, oltre ad accompagnare ai posti, vendeva i gelati durante l’intervallo. Li teneva in una cassetta che portava appesa al collo e si piazzava davanti allo schermo prima dell’inizio del secondo tempo in attesa che gli spettatori andassero da lei. Spesso dalla balconata i ragazzi le lanciavano addosso involucri di caramelle appallottolati.
All’uscita parlammo del film e ci ritrovammo divise fra quelle che avrebbero fatto come la protagonista e quelle che invece avrebbero detto di no.
Chi di noi sarebbe stata disposta a passare una notte con Robert Redford per un milione di dollari?
Le più ingenue di noi, quelle dai sani principi, erano contrarie: «Assolutamente no, l’amore non si compra». Ma eravamo tutte d’accordo sul fatto che l’abito nero di Demi Moore era favoloso. Bello da morire. Come si fa a dire di no a uno che ti regala un capo del genere? Okay, Robert Redford era un po’ avanti con gli anni, ma quel vestito era una meraviglia.
Non avevamo una vita complicata, allora. Ci illudevamo di poter cambiare il mondo e, nel caso fosse andato storto qualcosa, c’era sempre la possibilità che arrivasse il principe azzurro a salvarci come nei film.
Prima di andare all’appuntamento con Scott mi ero specchiata in slip e reggiseno e mi ero chiesta com’era possibile che un uomo volesse pagare per fare sesso con una come me. Non me ne capacitavo. Non ero un mostro, ma non ero neppure una modella ed ero lontanissima dal tipo di donna che compare sulle copertine delle riviste per soli uomini. Da ciò che Scott aveva appena detto – e dalla foga con cui l’aveva detto –, però, era evidente che voleva una donna normalissima, che ciò che desiderava e non riusciva a trovare era proprio la normalità.
Sarei riuscita a soddisfare le sue aspettative?
A rotolarmi sul letto insieme con lui, lasciarlo entrare dentro di me... per denaro?
Pensai ai due anni intercorsi dalla separazione con Winston. Avevo fatto sesso con un paio di uomini perché mi facevano pena e avevamo bevuto troppo e poi c’era stata la scopata con Winston che io avrei preferito dimenticare e lui invece tirava fuori ogni volta che gli chiedevo dei soldi. Avevo avuto inoltre una breve liaison con uno che non mi piaceva granché, ma era giovane e aitante, allenava la squadra di football della scuola, tutte le mamme si sdilinquivano al suo cospetto e mi lusingava farmi vedere con lui. Era stato gradevole con tutti quanti, seppure non straordinario. Se pensavo a questo, concludevo che sì, ce l’avrei fatta anche con Scott.
Ma ero in ansia.
Con Scott Elias non si sarebbe trattato di una scopata da ubriachi, senza conseguenze. Scott Elias era un uomo intelligente, capace di esprimere i propri sentimenti e in cerca di un’esperienza. Quando ci alzammo da tavola e mi prese sottobraccio per condurmi fuori dalla sala, mi augurai di essere all’altezza delle sue aspettative, perché il brivido di eccitazione che provavo normalmente prima di andare a letto con uno quella sera non c’era. Certo, le sue parole mi lusingavano, era naturale: era bello sentirsi dire certe cose. E la prima volta che l’avevo visto avevo sentito attrazione per lui. La sua spavalderia, però, la convinzione che con i soldi si ottiene tutto, per qualche motivo me lo avevano reso meno desiderabile. Aveva superato un limite che pochi osavano superare e la sua brama di comprarmi mi lasciava l’amaro in bocca.
Okay, almeno era stato sincero. Restava il fatto che così era: Scott mi aveva comprato.
Speravo fortemente di farcela, altrimenti nel giro di due settimane mi sarei ritrovata in mezzo a una strada. Soddisfare Scott Elias e ottenere quei soldi era la mia unica possibilità per evitare lo sfratto.
«Beviamo ancora qualcosa al bar?» propose Scott e, benché non ne avessi voglia, accettai perché un altro bicchiere avrebbe attenuato le mie paure, oltre che ritardato di qualche minuto la resa dei conti. Ordinai un gin tonic. Il giorno dopo dovevo lavorare e un long drink mi pareva preferibile a un altro bicchiere di vino, che sicuramente mi avrebbe fatto venire il mal di testa. Mentre Scott mi parlava della sua ditta di elettronica e dei problemi che aveva con il personale che prendeva lunghi periodi di malattia per sovraccarico biomeccanico e altre malattie professionali, mi accorsi che mi stava venendo sonno e non lo stavo a sentire. Mi scusai e andai in bagno a sciacquarmi la faccia.
Passando davanti al guardaroba, vidi un uomo seduto nell’altro bar, quello più vicino alla reception.
Era l’agente assicurativo che mi aveva fatto il prelievo di sangue. Indossava una camicia bianca con il colletto sbottonato, cravatta allentata e maniche rimboccate per il caldo. Beveva una pinta di bitter insieme con un ciccione che rischiava di cadere dallo sgabello a causa della stazza.
Mi balzò il cuore in gola.
Nel riconoscerlo probabilmente sbiancai, o comunque rimasi di sasso, perché mi sorrise e sollevò leggermente il bicchiere nella mia direzione. Fu un gesto quasi impercettibile, tanto che il suo accompagnatore neanche se ne accorse, poi riprese a chiacchierare e a mangiare i salatini nella ciotola sul bancone.
Corsi alla toilette con il battito a mille. Non avevo previsto di incontrare qualcuno che conoscevo e meno che mai lui. Di colpo mi ero resa conto della pericolosità di quella situazione.
«Tutto bene? Sei pallida» mi chiese Scott quando tornai.
«Come dici? No, no, sto bene. Pensavo che magari potrei darmi una rinfrescatina, prima di... Cioè, volevo dire...» Balbettavo perché... non ero appena andata a darmi una rinfrescatina? «Non ho avuto il tempo di disfare la valigia, capisci?»
«Nessun problema» rispose Scott, probabilmente pensando che fossi in ansia. «Ti raggiungo fra un momento. Se preferisci.»
Allungò un braccio e mi accarezzò la mano.
Lo guardai fisso cercando di trattenermi dal voltarmi verso la reception. Abbassai gli occhi.
«Roz?» disse Scott. «Sicura di star bene? Ti trema la mano.»
«Tu trovi?» La ritrassi. Sorrisi e mi apprestai ad alzarmi. «Mi dai un quarto d’ora?»
Mi avviai verso le scale e, passando, lanciai un’occhiata all’altro bar. L’agente dell’assicurazione era in piedi e stava per uscire. Rideva con il suo compagno di bevute, che gesticolava come un controllore di volo. Ebbi l’impressione che fosse una risata forzata. Forse anche lui era lì per lavoro.
Si voltò dalla mia parte e, vedendo che lo guardavo, mi fece l’occhiolino.
Imbarazzata, corsi via.
Devo ammetterlo: non fu la notte che mi aspettavo.
Quando ci sono di mezzo i soldi, cambia tutto. Se chiedeste a un campione scelto a caso di miei pazienti che tipo è Roz Toovey, vi direbbero che è una fisioterapista attenta, gentile, una che sta a sentire e non giudica, che ascolta volentieri se uno ha bisogno di lamentarsi e impartisce buoni consigli su richiesta.
Non ero così. Facevo così perché loro pagavano. Pensateci: quando è stata l’ultima volta che avete detto al vostro capo quello che pensavate veramente? Ma anche ai colleghi, a dire il vero.
Per un lavoratore autonomo, il capo è il cliente: se non gli dai quello che chiede, non ti paga. È semplice. Anche se non ero più un lavoratore autonomo, sapevo bene che, se non avessi offerto ai miei pazienti i servizi che richiedevano, sarei stata sostituita con una fisioterapista più brava. Quindi cercavo di dare il meglio: mi spaccavo la schiena sollevando pazienti pesanti ed eseguendo manovre faticose, perdevo la sensibilità dei pollici a furia di massaggiare. E cercavo di essere empatica: ascoltavo le magagne dei miei pazienti, i loro problemi esistenziali, le grane con i figli, i crucci economici, i disturbi di salute. Mi sforzavo anche di insegnare la corretta postura, di spiegare il collegamento fra stress e dolori muscolari, cose che ripetevo tutti i giorni, tutto il giorno, da anni. Cercavo pure di essere simpatica, divertente, di compagnia. Li stavo a sentire, sorridevo alle battute patetiche di certi vecchietti e della passione sfrenata delle anziane signore per Alan Carr. A fine giornata mi restava così poca energia per George – e per me stessa – che sovente stavo seduta imbambolata finché non era ora di andare a dormire.
Preparandomi in attesa che Scott bussasse alla porta, avevo perso la vergogna che avevo provato fino a poco prima, come pure la paura di essere scoperta e giudicata. Che razza di donna sei per vendere il tuo corpo? In fondo mi vendevo da quasi vent’anni, in maniera socialmente accettabile ma tutto sommato non molto diversa né meno alienante. Questi pensieri mi diedero una forza che non sperimentavo da tantissimo.
Durante il travaglio c’è un momento in cui il terrore si trasforma in potere, in una forza straordinaria, perché ci si rende conto di avere il controllo della situazione e di essere in grado di partorire un bambino sano. La donna prende coscienza del fatto che nessun altro può partorire quel bambino tranne lei.
In quella stanza d’albergo provai un analogo senso di forza e di potere. Nessuno mi avrebbe tirato fuori dal baratro economico in cui ero precipitata: o mi davo per vinta e mi arrendevo, oppure dovevo trovare il modo per uscirne fuori.
E così mi passò la paura. Accettavo la sfida. Se Scott Elias voleva una donna attenta e passionale che soddisfacesse i suoi bisogni sessuali, avrei fatto quello che voleva. Ero pronta.
La suite aveva un che di americano, stile New England: mobili bianchi, tessuti avorio, immagini di fari di Nantucket, pavimento di legno chiaro con un soffice tappeto bianco al centro.
Il letto era a baldacchino, come temevo. La notte precedente avevo sognato di venire legata a un letto a baldacchino, braccia e gambe larghe e calza ficcata in bocca. Ma forse Scott aveva scelto quella stanza proprio per la sua semplicità, perché non sembrava un boudoir, come se non avesse bisogno di un’ambientazione sexy per eccitarsi.
Inclinai le stecche delle veneziane in modo da lasciar passare la giusta quantità di luce del tramonto e aprii la sacca da viaggio. Andai nel bagno, mi sfilai il vestito e sistemai i trucchi. Mi passai un batuffolo di cotone inumidito sotto le ciglia, mi diedi una lavata e applicai nuovamente rossetto e lucidalabbra. Da ultimo, mi raccolsi i capelli in un morbido chignon facile da sciogliere all’occorrenza.
Mi infilai di nuovo il vestito e controllai il risultato da diverse angolazioni.
Avevo preso in considerazione l’ipotesi négligé, ma mi sembrava volgare aprire la porta perfettamente truccata, tacco alto e babydoll. E poi mi ero messa in testa l’idea, giusta o sbagliata che fosse, che a Scott piacesse spogliare la sua donna o al limite assistere allo spogliarello. E comunque non possedevo négligé.
Ripiegai le lenzuola, accesi uno degli abat-jour sui comodini e quello vicino al televisore e spensi il lampadario. Mi diedi un’occhiata in giro. C’eravamo quasi.
Nel frigobar c’erano un certo numero di mignon. Ne presi due di whisky single malt e le versai nei bicchieri.
Bussarono alla porta.
Mi guardai un’ultima volta nello specchio. Ero abbastanza soddisfatta del mio look, ma avevo l’espressione dura e tirata di un corridore ai blocchi di partenza in una gara olimpica deciso a intimorire gli avversari.
Presi un bel respiro profondo e scossi braccia e spalle per allentare la tensione.
Ero pronta.
Aprii la porta e guardai Scott. «La stanza è molto bella» dissi.
«Mi fa piacere che sia di tuo gradimento.»
Mi scostai per lasciarlo entrare.
Una cosa va detta di Scott: la sua sicurezza era magnetica. Stava per compiere un’azione socialmente disprezzata senza traccia di vergogna o pentimento. Non notavo la minima incertezza nel suo sguardo, nella sua postura. Era tranquillissimo. E la sua nonchalance era contagiosa.
Mi chiesi se le donne non fossero programmate per trovare eccitante quell’atteggiamento fiero per motivi evolutivi di autodifesa. Un uomo così protegge la prole. Forse invece le mie erano elucubrazioni cretine: il vero motore erano i soldi. Alle donne piacevano gli uomini ricchi perché davano loro sicurezza e forse alla radice dell’arroganza di Scott c’erano solo i soldi.
Scott si sedette al tavolo. «Che cosa beviamo?» chiese.
«Single malt.»
Prese il bicchiere e mi squadrò lentamente da capo a piedi e poi da sotto in su, con aria soddisfatta. Mi ammirava come si ammira una macchina sportiva o una giumenta alla fiera del bestiame. Tutto a un tratto era diventato serio. «Stai bene pettinata così» osservò.
Istintivamente mi portai una mano alla faccia: i complimenti di mettevano sempre un po’ in imbarazzo.
Mi avvicinai e rimasi in piedi, percependo la tensione che si creava fra la sua coscia e la pelle nuda delle mie gambe e sembrava quasi sviluppare calore.
«Come procediamo?» chiesi a voce bassa.
«Fai quello che ti senti di fare e...» Si interruppe. «Io sono qui soltanto per...»
Ma di nuovo lasciò la frase a metà. Intuii che voleva dirmi qualcosa, svelarmi qualcosa di sé, e non ci riusciva. Mi passò le dita sull’esterno coscia, ammirando la curva dei fianchi. Quando la sua mano arrivò sul gluteo, espirò lentamente.
Gli presi il bicchiere e lo posai sul tavolo.
Mi chinai, appoggiai le mani sullo schienale della sua sedia e avvicinai la faccia alla sua. «Sono qui per te, Scott. Dimmi che cosa vuoi che faccia.»
Scott mi premette le labbra sulla bocca e io rimasi sconcertata nel provare un fremito.
Fu un bacio più dolce di quanto mi aspettassi.
Poi Scott si staccò da me e mi guardò negli occhi.
«Spogliati» disse.