11
«Cristo santo, Winston, non ti chiedo mai
niente!»
Eravamo nella cucina
della madre del mio ex marito, erano le sei di sera e Winston aveva
in mano una bomboletta di WD-40. La agitò a lungo e quindi la
spruzzò sulla catena della BMX che aveva posato, rovesciata, sul
tavolo.
«Per una volta che ti
chiedo un favore...» dissi.
«Che bisogno hai di
stare fuori tutta la notte?»
«Ti chiedo mai che cosa
fai o dove vai, io?»
Winston scrollò le
spalle. «Se me lo chiedessi, te lo direi. Perché non lo lasci a
dormire da tua sorella?»
«Petra e Vince sono a
New York.»
Winston mi guardò male.
Probabilmente non occorre che io specifichi che Winston e Petra non
erano mai andati d’accordo. Neanche prima che Winston cominciasse a
correre dietro le sottane.
«A fare?»
«Petra ha compiuto
quarant’anni.»
«E quindi?»
Sospirai. «E quindi sono
andati a New York. C’è chi festeggia così i compleanni importanti,
Winston.»
«Ah.» Annuì pensoso,
come se fosse la prima volta che sentiva parlare di una simile
usanza.
Winston non era tipo da
festeggiamenti. Per il mio trentesimo compleanno mi aveva portato a
Kendal a fare un giro dei pub, perché secondo lui era da imbecilli
sprecare in cenette romantiche denaro che poteva essere investito
in una bella sbronza. Quando i pub avevano chiuso, ci eravamo
diretti a passo malfermo verso i taxi e, scoprendo che c’era una
coda di trenta persone, Winston mi aveva portato a piedi davanti a
un take-away.
Aveva chiamato il numero
esposto in vetrina e aveva chiesto che gli recapitassero a casa due
maxi kebab (con aggiunta di peperoncino e senza cipolla). Non
appena il furgone scalcagnato delle consegne si era fermato davanti
al locale, mi aveva preso per mano e mi aveva condotto dall’altro
lato per poi dare una banconota da cinque sterline al guidatore.
Durante il tragitto, fra scatole di pizza e un bizzarro
assortimento di attrezzi da giardinaggio (probabilmente il
fattorino di giorno faceva il giardiniere), avevo capito di essere
follemente innamorata di lui.
Petra sosteneva che
Winston era un bambino piccolo in un corpo da adulto e che non
aveva idea di cosa volesse dire assumersi delle responsabilità e
mettere le esigenze altrui davanti alle proprie. Non potevo darle
torto, vista la fine che avevamo fatto. Il problema principale di
Winston, a mio parere, era l’incapacità di rimandare la
gratificazione: voleva tutto e subito. Anche se non aveva un
soldo.
La bicicletta era il suo
nuovo giocattolo. Aveva quarantatré anni, abitava con la mamma, non
aveva un lavoro stabile e cosa faceva? Andava in bici.
Winston dal canto suo
diceva che a Petra piaceva il ruolo della martire e per questo
rendeva la vita difficile a sé e a chi le stava intorno. Mi lanciò
un’occhiata. «A New York.»
«Esatto.»
«Scommetto che Petra
avrebbe preferito due settimane sul Golgota.»
Lo ignorai.
«Come sta Vince?»
domandò Winston.
Annuii.
«È un po’ che non lo
vedo in giro.»
«Sta bene, Winston»
risposi.
«Pover’uomo» disse
Winston.
Lo chiamava spesso così:
«Quel pover’uomo di Vince». Come se fosse vittima di una grave
malattia o di una tragedia. Quando io e Winston stavamo assieme, se
cadeva il discorso su «quel pover’uomo di Vince» mi toccava
spiegare ai nostri interlocutori che non era malato e non aveva
subito rovesci di fortuna, ma era semplicemente il marito di mia
sorella.
«Allora, Winston» dissi
con decisione. «Tuo figlio può restare a dormire da te o
no?»
«Mio figlio passerà con
me il prossimo fine settimana, come da programma. Domani sera,
però, ho altri impegni. Non so se tornerò a dormire a
casa.»
«Con chi hai
appuntamento? È maggiorenne, almeno?»
Winston posò la
bomboletta. «E tu con chi hai appuntamento, Roz?»
«Con nessuno. Sono
single, lo sai benissimo. Ma se dovessi conoscere qualcuno, non
pensare di...»
«Roz» mi bloccò
sorridendo. «Calmati. Puoi metterti con chi vuoi, per quanto mi
riguarda. Ti farebbe bene, anzi: saresti meno
isterica.»
«Vai a farti
fottere.»
Winston scoppiò a ridere
e fece ruotare all’indietro i pedali della BMX per controllare che
la catena funzionasse come si deve. «Mi piace quando dici le
parolacce, Roz. Coprimi di insulti, dai! Ti ricordi come scopavamo
bene dopo una litigata? Ti ricordi di quella volta che siamo andati
alla cascata di Aira Force...»
Lasciò la frase in
sospeso e assunse un’aria sognante.
«Ma fammi il piacere!»
esclamai. Presi la borsa e chiamai George, che era andato a
guardare la tv in salotto.
«Stai serena, Roz» disse
Winston, posandomi una mano sulla spalla. «Lo tengo io, tranquilla.
Volevo solo fartela sudare un po’.»
Gli scostai la mano in
malo modo e lo fulminai con un’occhiata. «Quanto sei
infantile!»
«Non ti
arrabbiare.»
«Mi dai sui nervi»
mormorai. Chiusi gli occhi.
Mi voltai, posai le mani
sul bancone della cucina e trassi un bel respiro. Davanti a me
erano allineate diverse verdure: una grossa cipolla, due carote, un
gambo di sedano e sei patate già pelate. Il menu del giovedì,
pensai, e visualizzai la madre di Winston, Dylis, con il suo
grembiule plastificato e i sandali del dottor Scholl, che preparava
gli ingredienti per lo shepherd’s
pie del giorno dopo. Che vita
semplice!
Mi voltai verso Winston.
«Sono sotto pressione, in questo periodo.»
«Sei sempre sotto
pressione, Roz» commentò lui. In quel momento George entrò in
cucina. «Mi dici che programmi hai o no?» chiese
Winston.
Mi finsi indaffarata.
Frugai nella borsa in cerca delle chiavi della macchina. «Come
dicevo, è una cosa di lavoro.»
Alzai la testa e vidi
che Winston mi guardava scettico.
«Sì, certo» borbottò.
«Una cosa di lavoro.»
Prese dalla tasca dei
jeans una moneta da una sterlina e la diede a George.
«Comportati bene e non
fare arrabbiare la mamma» gli disse.
Vi do un consiglio spassionato: doveste mai
trovarvi in una situazione simile, non vi venga in mente di
documentarvi sull’argomento «escort» o similari.
Vi verrebbe un attacco
di panico.
Ammetto che cominciare
con Diario intimo di una squillo
perbene di Belle de Jour non fu una
grande idea, ma era l’unico libro vagamente attinente che trovai da
W.H. Smith a Windermere. Arrivata al capitolo tre, presi coscienza
del fatto che il mio concetto di normalità non si applicava a una
larga fetta di popolazione. Chiusi il libro di cattivo umore, mi
rallegrai di non averlo preso in prestito dalla biblioteca e sperai
che Scott Elias fosse in buona fede, quando aveva detto di non
volere «niente di strano».
Feci fatica a prendere
sonno e l’indomani mi svegliai in preda a un senso di profonda
inquietudine.
Dovevo fare una cosa che
non avevo nessunissima voglia di fare.
A Petra veniva
l’emicrania, quando si trovava a dover fare una cosa che non le
andava, anche se non aveva mai ammesso l’esistenza di un rapporto
di causa-effetto. Assumeva un cocktail di farmaci per contrastare
le crisi e sosteneva fossero dovute a cambiamenti di pressione
atmosferica, sbalzi ormonali e persino ai conservanti della carne
di maiale. Tuttavia tendevano ad affliggerla in occasione delle
visite alla madre di Vince, che era in una casa di riposo a Wigan,
e delle interminabili riunioni con i dirigenti della scuola in cui,
in quanto segretaria, aveva il compito di redigere i
verbali.
Mi sedetti sul letto e
posai i piedi per terra. Lungo lo zoccolino si era ammucchiato uno
strato di polvere e sotto il termosifone c’erano tre grosse
ragnatele. Da quanto tempo non facevo le pulizie?
Avendo la finestra
aperta, sentii sbattere una porta e quindi aprire il cancelletto
cigolante della casa di Celia, poi il motore di un’auto: Foxy stava
andando a fare la sua passeggiata.
Come molti anziani,
Dennis usciva in retromarcia dal posteggio mezz’ora prima della
partenza, come se la macchina avesse bisogno di scaldarsi prima di
affrontare il viaggio fino in fondo al paese.
Mi alzai e andai alla
finestra a guardare la Rover che si allontanava a passo d’uomo.
Dennis era un animo gentile, al contrario di Celia. Quando ero
andata a prendere George martedì sera, l’avevo sorpresa a fischiare
a volume altissimo vicino al microfono del cellulare.
L’avevo già vista con un
fischietto da arbitro al collo e avevo pensato che lo usasse per
richiamare Foxy nel caso si allontanasse troppo, dimenticando che
Foxy non camminava volentieri. L’avevo guardata perplessa e Celia
mi aveva spiegato che lo faceva per dissuadere gli operatori dei
call center.
«Non è un tantino
brutale?Indossano le cuffie...»
«Se lo meritano: sono
troppo insistenti. E maleducati.» Poi mi aveva raccontato che
George aveva portato Foxy a passeggio e la cagnolina era stata
bravissima e non aveva tirato il guinzaglio.
Mi scostai dalla
finestra e mi guardai allo specchio.
Ero dalla parte
sbagliata dei quarant’anni. Sollevai la mano destra e la mossi per
controllare il dondolio del tricipite: era una novità, il primo
segno del declino. Ero ancora forte fisicamente, la muscolatura che
mi veniva dal lavoro che facevo e la parte superiore del corpo in
forma più che accettabile, però...
Mi ero scoperta a
sorridere ai cani, ultimamente, e questo era un chiaro segno di
invecchiamento.
L’appuntamento con Scott
era in un albergo a nord di Lancaster, vicino all’uscita
dell’autostrada. Da casa mia ci voleva un’oretta e quando Scott
l’aveva proposto avevo accettato perché mi pareva la giusta
distanza. Inoltre il ristorante serviva cucina da pub a prezzi
esorbitanti e ciò mi dava la garanzia che non vi avrei trovato
nessuno dei miei amici e conoscenti. Sembrava un posto studiato
appositamente per amanti clandestini: ambiente raffinato ed
elegante e personale che evitava di fare le classiche domande che
si rivolgono ai turisti, del tipo: Da dove venite? Siete già stati
nostri ospiti? Avete trovato traffico sulla M6?
La parte difficile era
decidere come vestirmi. Immaginavo che Scott si aspettasse che mi
presentassi con una mise femminile, ma cosa potevo mettermi per
cenare in un albergo nella campagna del Lancashire una sera
infrasettimanale?
Non ne avevo
idea.
Non era un appuntamento
galante. Mi sentivo in dovere di presentarmi con un abito adatto al
lavoro che ero chiamata a svolgere, ma mi vergognavo ad arrivare
troppo sexy a un appuntamento con un uomo con cui in circostanze
normali non sarei andata a letto.
Aprii il guardaroba
aspettando l’ispirazione. All’estrema destra c’era un abito di
chiffon Coast con un motivo a roselline che avevo indossato a un
matrimonio l’anno prima.
Troppo da cerimonia. E
un filo virginale.
Accanto c’era il vestito
che mettevo sempre a Natale: nero, fasciante, troppo scollato, ma
con il vantaggio di poter essere tirato su o giù a seconda
dell’ora, della compagnia e della quantità di alcol
ingurgitato.
C’erano anche tre
vestiti uguali che mi aveva passato Petra, che avrei definito
«molto sobri». Con la giusta biancheria, però, potevano essere
anche sexy. Petra li aveva acquistati l’anno prima, ma poi era
dimagrita e sosteneva che la ingoffavano. Non mi ero offesa e li
avevo accettati volentieri perché si sa, a caval
donato...
Optai per quello verde
smeraldo e lo provai per controllare che non ci fossero fili
tirati, brutte pieghe sulla pancia o macchie che mi erano sfuggite.
Non avrei avuto molto tempo per prepararmi e dovevo
organizzarmi.
Mi stava
bene.
Ero carina, per nulla
volgare, e potevo passare per una dirigente d’azienda che si
rifiutava di vestire da uomo solo perché occupava una posizione di
rilievo.
Soddisfatta, andai a
preparare la colazione a George. Dovevo dargli anche qualcosa da
portarsi a scuola per pranzo, ma avevamo di nuovo la dispensa
vuota: trovai solo pane raffermo e formaggio cremoso che aveva il
vantaggio di non ammuffire nemmeno dopo un mese di frigo. Feci un
panino, togliendo i bordi al pan carré, ed esaminai accuratamente
una banana che, se fossi stata una donna diversa, con una vita
diversa, avrei dichiarato idonea soltanto per una torta. Misi il
panino e la frutta in un sacchetto di plastica e aggiunsi la
bottiglietta dell’acqua, che stava cominciando a puzzare come uno
strofinaccio bagnato.
Povero
bambino.
Ma le cose presto
sarebbero cambiate, mi dissi. Una volta saldati gli arretrati
dell’affitto, avrei avuto abbastanza soldi per ordinare una bella
spesa da Tesco, e George avrebbe potuto mangiare anche il sushi a
pranzo, se avesse voluto.
La settimana successiva
le cose sarebbero tornate alla normalità e la mia notte con Scott
sarebbe stata soltanto un ricordo.