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È uno strano dato di fatto: muoiono più persone a causa di incidenti stradali in campagna che in città. Il motivo? La distanza dall’ospedale più vicino è maggiore.
Per andare da Hawkshead al pronto soccorso ci vuole oltre un’ora, senza contare il tempo che impiegano i soccorritori per arrivare sul luogo dell’incidente.
Motivo per cui abbiamo un’aeroambulanza comprata con le donazioni di vari enti benefici e fu con quella che George venne trasportato dopo l’incidente. Io seguii la Great North Air Ambulance in macchina.
Non ricordo niente di quel viaggio fino al Furness General Hospital. Non ricordo che strada feci, se il traffico del venerdì sera fosse particolarmente intenso, se pagai il posteggio dell’ospedale. Non ricordo praticamente nulla di quel giorno. Nei mesi successivi ogni tanto affiorava un ricordo fugace che cercavo di afferrare, ma che spesso mi sfuggiva.
Ricordavo soltanto questo: se avessi corso più veloce; se fossi andata via dalla festa qualche minuto prima; se avessi detto di no a Scott Elias e alla sua maledetta proposta...
Il nostro cervello funziona così. Invece di affrontare la realtà, cerca scappatoie. Ritorna agli elementi che ci sono sfuggiti, alle cose che sarebbero potute andare diversamente, ripercorre gli eventi come se stessero accadendo di nuovo e fosse possibile cambiarne in qualche modo l’esito.
La tua coscienza ti esorta a smettere di elucubrare. È inutile, sentenzia. Ma è impossibile smettere.
Se avessi mandato a Winston i soldi per il biglietto del treno, George sarebbe andato da lui a Outgate, invece che da Celia e Dennis, e non gli sarebbe successo niente. Se io e Winston non ci fossimo separati, George avrebbe avuto ancora il suo adorato cane e non avrebbe sentito la necessità di portare a passeggio Foxy. Se avessi fatto un figlio con un uomo più assennato anziché con Winston. Se... Se...
«Signora Toovey?»
Mi alzai.
«Venga con me» disse l’infermiera vestita di bianco. Era minuta e doveva essere leggera come una piuma. Avrei potuto sollevare due volte il suo peso. Le infermiere del reparto di terapia intensiva sono tutte degli scriccioli.
«È vivo?» le chiesi.
«Venga, parliamo di là. Lei è fisioterapista, dico bene?»
«È vivo?» ripetei, senza muovermi di un passo.
«Sì, è vivo.»
«Cosciente?»
L’infermiera abbassò gli occhi. «Non ha ancora ripreso conoscenza. Lo stiamo trasferendo in reparto dal pronto soccorso.»
«Che cosa si è fatto?» chiesi.
Ero aggressiva, ma lei non pareva farci caso. Guardandomi negli occhi, mi enumerò i problemi di George.
«Doppio pneumotorace» cominciò. «Frattura scomposta di tibia e perone destri. Gli abbiamo fatto irrigazione e sbrigliamento della ferita e le fratture sono state stabilizzate. Ha un’abrasione dove forse ci sarà bisogno di un innesto cutaneo. Lo sottoporremo a TAC all’addome, ma prima dobbiamo togliergli l’acqua dai polmoni. Non risultano emorragie interne e la pressione è stabile. Le pulsazioni distali al di sotto della frattura sono regolari.»
«Perché è incosciente? Ha battuto la testa?»
«Non lo sappiamo. Non ci sono evidenze di trauma cranico, però dobbiamo fare gli accertamenti del caso. Sa com’è, nelle fasi iniziali... Non ha nessuno con lei? Vuole che avvertiamo un parente?»
«Sta arrivando mia sorella. Il papà di George è bloccato in Cornovaglia e non sono ancora riuscita a contattarlo. I miei genitori si sono messi in viaggio e arriveranno fra un paio d’ore.»
L’infermiera annuì e mi chiese come si chiamava mia sorella per avvertire l’accettazione di modo che la accompagnassero subito al reparto. Petra era fuori di sé. Non era neanche in grado di parlare, figurarsi guidare. E Vince alla festa aveva bevuto, per cui...
«La signora che era con lui sull’aeroambulanza, la signora alla guida... È...?» disse l’infermiera.
«Non siamo parenti» risposi gelida.
«Ah.»
«È viva?» domandai.
«Sì» rispose l’infermiera. «E cosciente. Ho avuto l’impressione che conoscesse suo figlio.»
«Lo ha investito» replicai.
L’infermiera annuì. «È molto scossa.»
«Lo credo bene» risposi. «Posso vedere George?»
L’infermiera si voltò e io la seguii mentre percorreva il corridoio a passetti veloci. Quando arrivammo al reparto, digitò sul tastierino il codice di sei cifre. La porta rimase chiusa e lei sospirò. «Continuo a usare il codice vecchio» spiegò. Riprovò e, prima di entrare, si voltò verso di me. «Non c’è bisogno che le dica che George non avrà il solito aspetto, vero?»
Scossi la testa.
«Okay» disse. «Andiamo.»
C’erano sei letti, tre dei quali erano occupati. In uno c’era Nadine, in quello vicino George e in uno di quelli di fronte un terzo paziente, un ragazzo tracheotomizzato, dal che dedussi che era lì già da un po’. In seguito scoprii che aveva la sindrome di Guillain-Barré, i muscoli respiratori paralizzati ed era in terapia intensiva da cinque settimane. La madre lo veniva a trovare, piangeva sommessamente per un’ora e poi se ne andava.
L’infermiera mi spiegò che, una volta stabilizzato, George sarebbe forse stato trasferito in un reparto di terapia intensiva pediatrica in un altro ospedale, ma che per il momento sarebbe rimasto lì. Con Nadine.
Non la guardai neppure, sebbene dovessi passarle davanti. Mi accorsi che si muoveva, che alzava un braccio, che gorgogliava qualcosa. Emise un verso gutturale come un animale in trappola.
Guardai dritto davanti a me e andai da George, mi inginocchiai vicino al letto e gli baciai una manina. Aveva addosso soltanto la biancheria intima e il suo corpicino era sporco di sangue secco. I due drenaggi toracici spuntavano, mostruosi, dalle costole. «Sono qui, tesoro» sussurrai.
Istintivamente, diedi un’occhiata ai monitor. La saturazione dell’ossigeno era bassa. Gli sistemai il pulsossimetro sull’indice ed espirai nel vedere che il valore saliva gradualmente.
Sopra la gamba destra era stata montata una tendina. Nella frattura scomposta la pelle era lacerata e intorno alla gamba George aveva un fissatore esterno. Persino con un innesto cutaneo, ci sarebbe voluto un anno, prima che guarisse.
Mi voltai di scatto verso Nadine che, nel vedere la mia faccia, sgranò gli occhi e cominciò a scuotere la testa, come se avesse una cosa importante da comunicarmi. Aveva un’espressione disperata, implorante. Mi voltai dall’altra parte.
Mi alzai e chiusi il paravento per non vederla. Continuai a sentirla piangere, però.
Stava venendo da me. Era venuta a Hawkshead per cercarmi a casa. E adesso eravamo finiti lì.
Baciai di nuovo la manina di George e gli sussurrai che gli volevo bene. Più e più volte, gli ripetei che tutto sarebbe andato a posto, che si sarebbe svegliato presto e sarebbe guarito. Gli dissi che non doveva aver paura, che ero lì con lui, che non l’avrei lasciato solo.
Era bellissimo. Aveva la pelle così liscia! Aveva un po’ di sangue secco vicino all’orecchio. Chiesi se potevo toglierlo e un’infermiera mi portò un batuffolo di cotone e una bacinella di metallo piena di acqua tiepida. George non si mosse. Il tubo con il quale respirava era tenuto in posizione con un nastro di garza e gli premeva sulle guance dando l’impressione che avesse il volto contratto in una smorfia. Chiesi all’infermiera di sistemarglielo meglio e lei lo fece. Lo curavano come se fosse stato figlio loro e fu questo, fu vedere con quale premurosa tenerezza lo trattavano, che mi fece scoppiare in lacrime.
Fino a quel momento, avevo tenuto duro.