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«Ammanchi?» ripetei.
«Sì» disse il sergente
Aspinall. «Ammanchi di cassa.»
Il sergente Quigley, che
era già uscito dallo studio, fece dietro-front e si piazzò alle
spalle della collega con fare impassibile, aperto. Capii che era
una scenetta che recitavano spesso.
Trattavano la vittima
con i guanti, facevano gli amiconi e poi, quando meno se
l’aspettava, sferravano il colpo basso.
«Non ricordo che Wayne
me ne abbia parlato» sussurrai.
«Provi a fare mente
locale. La scorsa settimana non le rivolse qualche domanda riguardo
ai conti che non quadravano?» mi incoraggiò il sergente
Aspinall.
In quel momento la porta
si aprì ed entrò Madgalena con un modello anatomico della colonna
vertebrale completo dei principali nervi e un disco prolassato
all’altezza della quinta lombare. Gliel’avevo chiesto il giorno
prima perché avevo un paziente che non riusciva a credere che la
compressione di un nervo della schiena potesse provocargli dolore a
uno stinco. Era convinto di avere una frattura, benché ai raggi X
non risultasse niente.
Madgalena fece un
sorriso di circostanza ai due ispettori e disse
«Guten Morgen», come sempre faceva per dissuadere l’interlocutore
dall’attaccare bottone. Si chiuse nel suo studio e accese Classic
FM, regolando il volume così alto che lo sentivamo anche da
fuori.
Joanne Aspinall indicò
la porta chiusa. «È una sua collega?»
«Sì.»
«Tedesca?»
«Austriaca.»
«Dovremo parlare con
tutti voi» disse.
Risposi che non c’erano
problemi e aspettai che si congedasse per la seconda
volta.
«Può fare mente locale
sulla settimana scorsa?» insistette lei.
«Sì, sì» risposi, come
se me ne fossi completamente dimenticata, e alzai gli occhi al
cielo fingendo di riflettere.
Dopo un po’ scossi la
testa. «No, mi dispiace. Non ricordo proprio che Wayne abbia
accennato a irregolarità nei conti. Di solito non ci coinvolge
nella contabilità, come se fosse al di sopra delle nostre
possibilità. Ha presente?»
«Certo» rispose Joanne
Aspinall. «Capisco.»
Avevo la sensazione che
questa volta l’interrogatorio fosse davvero concluso e borbottai
qualcosa a proposito del mio prossimo paziente.
Il sergente Aspinall mi
squadrò con serietà e mi ringraziò del tempo che le avevo
dedicato.
«A presto, allora»
disse.
Mi sforzai di sorridere.
«Arrivederci.»
Tesi le orecchie e,
quando sentii chiudere le portiere, corsi nel mio studio a
sbirciare da dietro le veneziane. I due poliziotti avevano una
Ford, credo. Non riconobbi il modello, ma era una berlina scura,
nuova, il genere di auto anonima pur se di grossa cilindrata con
cui giravano i rappresentanti.
Guidava lei. Fece
manovra con gran rapidità e partì.
Tremavo.
Dove caspita era
Wayne?
Se mi aveva denunciato,
come mai non veniva a lavorare? La cosa aveva un che di
inquietante.
Mi mancava
l’aria.
Uscii nel parcheggio e
mi sedetti sulla panchina. Sopra di me c’era una poiana che volava
in cerchio, sempre più in alto. Mentre la guardavo, venne aggredita
da due taccole che si lanciarono su di lei in picchiata strillando
come furie finché il rapace non si allontanò da quello che doveva
essere il loro nido.
La porta del centro si
aprì alle mie spalle.
«Cosa succede?» chiese
Magdalena, riferendosi ai due visitatori mattutini.
«La polizia sta cercando
Wayne.»
«E perché? Con tutti i
bambini scomparsi cercano proprio lui?»
«Quali bambini
scomparsi?» chiesi.
«Non lo so» rispose
Magdalena sulle difensive. «Ma sicuramente qualche bambino
scomparso c’è.»
Non approfondii. Spesso
Magdalena piantava a metà una conversazione e se ne andava
immusonita, come se l’avessi offesa. Non capivo se lo facesse per
limiti linguistici o di carattere.
Anche i pazienti erano a
disagio. Sovente uscivano dal suo studio mortificati, dispiaciuti
di aver offeso senza volere la loro fisioterapista, semplicemente
lamentandosi del fastidio che le sue manovre
provocavano.
«Wayne ti ha mai parlato
di contabilità, Magdalena?»
Scosse la testa. «Parla
solo dei pesci del suo acquario.»
«E di ammanchi di
cassa?»
Magdalena sgranò gli
occhi.
«No, mai.» Con l’aria di
chi ne vuole sapere di più.
Mi alzai. «Neanche a me»
dissi distrattamente. E rientrai.
Per non lasciarmi
travolgere dai pensieri, preparai la fattura da mandare a Scott.
Questa volta riguardava un corso di sollevamento e movimentazione
delle vittime di infortunio.
Importo totale:
millecinquecento sterline. La inviai in allegato per email sperando
di accelerare la procedura, invece di stamparla e mandarla in
formato cartaceo.
Arrivò Gary e gli
raccontai che era venuta la polizia. Mi chiese di riferirgli tutto
quanto per filo e per segno. Quando ebbi finito, commentò:
«Sembrerebbe che stiano indagando su una frode. Pensi che Wayne sia
scappato con i soldi della cassa?»
«Mi sembra improbabile»
risposi in fretta. «A parte il fatto che... Quanti soldi potrebbero
esserci stati? La maggior parte dei pazienti paga con il bancomat o
la carta di credito.»
Gary si strinse nelle
spalle. «Ti ricordi il tipo del circolo del golf, il segretario,
che faceva la cresta sulle quote d’iscrizione?»
«Vagamente.»
«È andata avanti per
anni. Si era già intascato più di sessantamila sterline, quando se
ne sono accorti.»
«Che fine ha
fatto?»
Gary mosse le dita a
mezz’aria. «Sparito nel nulla» rispose in tono teatrale. «Ma la sua
auto è stata ritrovata al terminal traghetti di Stranraer, quindi,
o si è buttato a mare o è fuggito in Irlanda.»
Guardai Gary e provai
l’impulso di scappare più lontano possibile.
Ce l’avrei
fatta?
Avevo qualche soldo in
banca, George voleva cambiare città. Me lo aveva chiesto ancora
quella mattina. A Winston sarebbe dispiaciuto non vedere più suo
figlio, ma avrebbe dovuto pensarci prima di portarsi a letto tutte
quelle donne, giusto? Potevo andarmene quel giorno stesso. Potevo
tornare a casa e fare le valigie prima che la Aspinall e il suo
collega si ripresentassero a fare altre domande. Un nuovo inizio.
Dove potevo andare? George e io avevamo il passaporto: potevamo
migrare al Sud. Prendere la macchina e guidare finché non trovavamo
un posto che ci piacesse. Lungo la costa in Aquitania, per esempio.
Oppure in Galizia, dove la vita costava poco.
«Roz?»
La voce di Gary mi
arrivava da lontanissimo.
«Roz!»
«Cosa c’è?»
Mi fissava come se
avessi perso il senno. «C’è la tua paziente» disse indicando Sue
Mitchinson, che stava seduta su una natica soltanto, tutta storta e
con la faccia contratta per il dolore.
«Cosa ti è successo,
Sue?» chiesi, ricomponendomi.
«Ho litigato con
l’aspirapolvere» mi disse. «Siamo rotolati giù dalle
scale.»
Mi seguì borbottando
nello studio. «Ah, che piacere rivederti!» Chiusi la porta,
scacciai dalla testa i miei propositi di fuga e le promisi di
sistemarla nel più breve tempo possibile.
Per quel giorno la polizia non tornò: mi ero
preparata le risposte invano. Non accadde più nulla, a dire il
vero, a parte le elucubrazioni di Gary e Magdalena su dove potesse
essersi cacciato Wayne e sulla quantità di soldi che poteva aver
rubato.
Curiosamente, riuscivo a
parlarne come se ci credessi veramente, come se anch’io ritenessi
Wayne colpevole. Terribile, lo so, ma non potevo fare altro. In
ansia, provavo a chiamare Wayne sul cellulare ogni due ore senza
ottenere risposta.
Arrivò il giovedì sera e, dopo tanto
rimuginare su Wayne e la situazione, mi faceva piacere avere
qualcos’altro a cui pensare. Avevo mandato al fratello di Nadine un
sms per dirgli dove abitavo ed eravamo rimasti d’accordo che
sarebbe passato a prendermi alle sette. Non sapendo dove intendesse
portarmi, scelsi un abbigliamento a metà strada: gonna leggera,
maglia smanicata e sandali. Non mi truccai, a parte un filo di
lucidalabbra, perché ero sufficientemente abbronzata e, come ho già
avuto modo di dire, non mi so truccare.
Vince era venuto a
prendere George alle cinque. Mi aveva chiamato per avvertirmi che
avrebbe cenato con lui, che avrebbero preso un fish-and-chips lungo
la strada. «Cos’ho fatto per meritarmi un cognato così bravo?»
chiesi. E lui rispose che in realtà ero io a fargli un favore:
Petra era di umore nero, come sempre in quel periodo, e lui era
contento di avere un motivo per uscire di casa.
«Perché Petra in questo
periodo è sempre di umore nero?»
«È una domanda da un
milione di dollari. Secondo lei, dovrei capirlo da
solo.»
«Ah.»
«Infatti» disse Vince.
«Ah.»
«Va bene se te lo
riporto verso le dieci? È troppo presto?» chiese.
«Ma no, figurati! Anche
alle nove va bene. Almeno, se non mi trovo con il fratello di
Nadine, ho la scusa per andarmene.»
«Come preferisci. Anche
se... Roz?»
«Cosa c’è?»
«Secondo me vi troverete
bene.»
«Cosa te lo fa
pensare?»
«Niente. Me lo
sento.»
Il fratello di Nadine arrivò in anticipo.
Avevo aperto la finestra della sala e la porta sul retro per fare
corrente. Non avevo intenzione di farlo entrare in casa, che era
spoglia e inospitale. Come Petra mi aveva fatto notare per
telefono, non avevo ancora avuto modo di farla moquettare e quindi
i pavimenti erano di nudo cemento. Era orribile e mi
vergognavo.
Inoltre con il caldo
certe stanze emanavano ancora gli odori sgradevoli lasciati dagli
inquilini precedenti: caffè bruciato, tabacco e calzini
sporchi.
Mi stavo applicando la
seconda mano di smalto rosa alle unghie dei piedi quando sentii la
voce di Celia dalla finestra aperta.
«Dunque lei è il
giovanotto che Roz ci stava tenendo nascosto! Vi siete conosciuti
per lavoro, giusto?»
Mi sentii torcere le
budella.
Non riuscii a
distinguere le parole, ma capii che la replica del «giovanotto» era
cortese e pacata. Mi augurai che non mi chiedesse delucidazioni in
proposito.
Ma mi passò subito di
mente, perché non appena aprii la porta esclamai: «Tu?» Non riuscii
proprio a trattenermi.
Mi fece un sorrisetto di
scusa. «Sorpresa» disse in tono piatto.
Mi sentii
arrossire.
Era Henry Peachey,
l’agente assicurativo che mi aveva prelevato il sangue nel mio
studio.
Mamma mia, quant’era
bello! Era davvero attraente. Ed era il fratello di
Nadine.
Merda.
Merda. Merda.
Merda.
Non me l’aspettavo. Ero
convinta di cavarmela uscendo quella sera e poi mai
più.
Notai la faccia
perplessa di Celia di fronte alla mia espressione sbigottita. Mi
sembrava già di sentirla brontolare: Non c’è da stupirsi che tu non riesca a rifarti una vita,
se accogli così i tuoi pretendenti!
«Perché non mi hai detto
che eri tu?» gli chiesi sottovoce.
«Perché temevo che ti
rifiutassi di uscire» sussurrò in risposta.
«Hai ragione» replicai.
«Aspettami qui» dissi poi, cercando di ricompormi. «Vado a prendere
la borsa. Dove siamo diretti?»
Henry fece un gesto
ampio. «Dove vuoi tu» rispose. «Pensavo di andare a
naso.»
Indossava jeans sbiaditi
e maglietta grigio mélange. Era più alto di me e aveva un bel
sedere e belle spalle muscolose. Camminava come un pugile, sicuro,
saldo sulle gambe.
Cosa stavo facendo? Non
potevo uscire con lui. Non mi conveniva proprio.
Però non potevo tirarmi
indietro. Come facevo a dirgli di no?
Ci avviammo verso la
macchina superando Celia che, nel tempo che mi era occorso per
prendere la borsa e infilarmi le scarpe, era riuscita a mettersi il
rossetto e un ridicolo cappello a tesa larga che teneva allacciato
sotto il mento con un foulard di chiffon. Le lanciai un’occhiata
disorientata.
Henry aveva una Peugeot
rossa, di almeno quindici anni, pulitissima, il tipo di automobile
che si dà a un adolescente perché impari a guidare.
«Divertitevi!» ci augurò
Celia battendo le mani felice.
«Non mancheremo» rispose
Henry, aprendomi la portiera.
«Arrivederci, Celia»
dissi.
Ci salutò con la mano e
io tirai un sospiro di sollievo: per fortuna non aveva sottoposto
Henry a un terzo grado. Contemporaneamente, però, ero turbata dal
fatto che Henry Peachey mi avesse tenuto nascosto che ci
conoscevamo già e cercavo di farmi venire in mente se nel corso del
nostro primo incontro avessi per caso fatto il nome di Scott Elias,
suo cognato.
C’ero già andata a letto
assieme o non ancora?
No, era successo dopo.
In quell’hotel dove Henry mi aveva fatto l’occhiolino. Oh, santo
cielo! Mi aveva visto insieme a Scott? Aveva visto che anche Scott
era lì, quella sera? Ero caduta in una trappola?
Era una situazione
incresciosa. Non riuscivo a pensare con lucidità. Mi sentivo sul
punto di crollare. Partimmo ma, qualche centinaio di metri dopo,
Henry mise la freccia e accostò.
Tirò il freno a mano, si
voltò sul sedile e mi guardò negli occhi. Sudai freddo. Henry
Peachey aveva tutta l’aria di quello che sta per mettere le carte
in tavola e io temevo dicesse l’indicibile.
Invece mi tese la mano e
disse: «Piacere, Henry Peachey». Sorrise.
«Roz Toovey» risposi con
voce tremante, stringendogli la mano. «Non ci siamo già
presentati?»
«Sì, scusa. Avrei dovuto
dirtelo quando ti ho telefonato. Ci sei rimasta male, vero? Sembri
una che ha appena visto un fantasma. Ricominciamo
daccapo?»
Mi sforzai di sorridere.
«Okay» mormorai.
Seguì un silenzio
imbarazzato in cui entrambi cercammo di farci venire in mente
qualcosa da dire. Poi ebbi un’illuminazione e scoppiai a
ridere.
«Cosa c’è?» mi
chiese.
«Il mio
indirizzo.»
«Cioè?»
«Lo conoscevi già. Ti ho
detto che te l’avrei mandato per sms, ma tu già lo conoscevi. Lo
avevi sulla cartella.»
Henry fece una smorfia.
«È vero» disse. «Lo avevo già.»
«Sai tutto di
me.»
«Non mi sembra proprio»
ribatté. «Che problema c’è, comunque?»
Scrollai le spalle.
«Almeno sai per certo che non ho l’AIDS.»
Si spostò sul sedile, di
colpo serissimo. «I referti delle analisi del sangue sono dati
sensibili di cui non sono autorizzato a parlare. Li riceverai per
posta.»
Lo guardai
sbigottita.
«Non diciamo
sciocchezze» ribattei. «Se il test fosse positivo, non saresti
qui.»
Non gli dissi che mi ero
sottoposta al test non appena avevo scoperto che Winston scopava in
giro. E che sei mesi dopo l’avevo ripetuto per
sicurezza.
Proposi di andare a bere
qualcosa e lui si illuminò. «Pub?» suggerì prontamente. «O
scegliamo l’opzione tirchieria?»
«Che
sarebbe?»
«Compriamo un
assortimento di birre al supermercato e ce le andiamo a bere in un
bel punto panoramico. Eventualmente prendiamo anche le
patatine.»
«Mi piace.»