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“Anamnesi: negativa.” Leggo quel che il dottor Geist ha scritto su Gabriella Lagos nel protocollo autoptico. Ha incluso alcuni fatti e ne ha omessi altri.

«Non aveva mai avuto convulsioni, svenimenti, problemi cardiaci, niente di niente. Poi un giorno fa il bagno e muore. A trentasette anni. Esami tossicologici negativi per tutte le sostanze che sono state cercate. L’alcol che aveva nel sangue era dovuto alla decomposizione.» Mostro a Benton le quattro pagine del documento visualizzate sul tavolo interattivo. «Presenza di schiuma bianca in naso, bocca e trachea perché non era possibile nascondere il fatto che era annegata.»

Benton si alza ed entra nel PIT vero e proprio, dove si ritrova circondato dal bagno di Gabriela e dal suo corpo in avanzato stato di decomposizione; le luci e le ombre delle immagini proiettate sulle pareti gli si riflettono sul viso mentre si siede al tavolino che Lucy chiama “la cabina di pilotaggio”. La tastiera e il mouse wireless gli permettono di modificare l’orientamento delle immagini, e la prospettiva cambia come se fosse lui a muoversi al suo interno. Sposta la vasca con il cadavere, ruotando a destra e zumando, all’inizio un po’ a scatti, poi sempre più sicuro, una volta che ci ha preso la mano.

Vedo i lunghi capelli castani di Gabriela sparsi sulla superficie dell’acqua torbida, stagnante; poco lontano galleggia l’elastico nero con un fiocco nero e lucido, con il quale li aveva raccolti prima di annegare. L’epidermide ha cominciato a staccarsi dal viso, ancora macchiata dalla maschera di bellezza, e il collo è rossissimo, perché l’acqua bollente le è arrivata fino al mento. È un altro dei fatti importanti omessi dal dottor Geist. Non ha preso nota delle zone più chiare in corrispondenza delle parti del corpo rimaste fuori dall’acqua – il viso e la parte superiore dei polsi – mentre tutto il resto è arrossato, scottato.

«Se fosse annegata nell’acqua bollente, avrebbe ustioni anche su tutta la parte alta del corpo e alla testa» spiego a Benton. «È un dettaglio cruciale, perché significa che la temperatura dell’acqua è aumentata quando era già morta. Mi basta questo per dire che si è trattato di un omicidio.»

«Non ho mai capito la schiuma.» Benton clicca sull’immagine e il viso di Gabriela, gonfio per i gas della decomposizione, con gli occhi sporgenti che sembrano esprimere un orrore indicibile, si ingrandisce ancora di più. «Anche quando il cadavere è completamente sott’acqua, la schiuma resta. Perché non si scioglie?» Porta il cursore sulla schiuma bianca fra le labbra socchiuse di Gabriela.

«Resta perché non è solo tra le labbra» rispondo. «Nei casi di annegamento, quando manca l’aria, nei polmoni e nella trachea si forma una schiuma densa. La maggior parte rimane dentro, ma quella che esce dalla bocca si vede e non se ne va completamente perché è tanta. Geist sapeva di non potere scrivere sul referto che non era annegata: il cadavere non gli permetteva di mentire. Al massimo poteva dichiarare che era stato un annegamento accidentale.»

Raggiungo Benton e, mentre guardo Gabriela Lagos, mi torna in mente il motivo per cui all’epoca mi insospettii e decisi di andare a vedere la salma, esposta in una camera ardente nel Nord della Virginia. Anche se non sono facilmente visibili, le contusioni ci sono. Sono di colore rosso scuro, alcune leggermente abrase, sulla guancia e sulla mascella destra, sull’anca destra, sulle mani e sui gomiti. Le caviglie e i polpacci presentano piccoli lividi lasciati dai polpastrelli e ci sono ecchimosi più grandi, meno delineate, dietro le ginocchia.

«Ci volevano due mani per lasciarle quei lividi sulle caviglie, e due mani sono state usate. E non grandi come quelle di Martin. Altro elemento importante» dico a Benton. «Vedi questi segni tondi, dovuti alla pressione delle dita sulle gambe e sulle caviglie?» Sollevo le mani. «Sono grandi più o meno come le mie. Qualcuno l’ha afferrata saldamente per le caviglie e le ha sollevato le gambe, agganciandogliele con l’incavo delle braccia: è così che le ha lasciato i lividi dietro le ginocchia.» Gli mostro il gesto. «A questo punto si avvicina i polpacci al petto facendola scivolare con il busto e con la testa sott’acqua. Le contusioni all’anca, alle mani e ai gomiti sono dovute al fatto che si è dibattuta urtando contro la vasca. Dev’essere stata una lotta, acqua che spruzzava da tutte le parti, candele cadute per terra e nella vasca. Questione di pochi minuti, poi è finito tutto.»

«Ora capisco perché non può essere stato Martin, se aveva un braccio ingessato» dice Benton.

«Non può averla uccisa lui. Ma penso che sia stato a guardare, seduto sul coperchio del WC con i piedi sul tappetino bianco. Nello stesso posto dove chissà quante volte aveva subito la tortura di dover assistere al bagno e ai tentativi di seduzione della madre» spiego. «È comprensibile che la volesse morta, che si volesse liberare di lei. Ma credo che non avesse previsto l’effetto che gli avrebbe fatto vederla morire in quel modo.»

Lo immagino con gli occhi sbarrati, scioccato, paralizzato, mentre vede morire sua madre in maniera atroce e crudele senza poter fare più niente per fermare la cosa. Forse avrebbe voluto, ma non lo ha fatto.

«Dev’essere stata una morte spaventosa» dico a Benton. «Ti assicuro che il figlio non poteva aver immaginato quanto sarebbe stato orribile.»

«Sarà rimasto scioccato» dice Benton. «Non era né sociopatico né sadico. E non aveva bisogno di costanti stimoli sensoriali, di emozioni forti, di uccidere o veder uccidere.»

«Vorrei sapere che numero di scarpe porta Daniel Mersa.» E penso al ragazzo con l’elefante nella foto.

Percepisco uno spostamento d’aria: la porta alle nostre spalle si apre ed entra luce dal corridoio. È Lucy, con un foglio in mano, e ha l’aria contenta, soddisfatta, come quando sta per incastrare qualcuno o per vendicarsi di qualcosa in modo definitivo.

«Sono arrivati Granby e le sue truppe» annuncia. «Sono alla reception. Gli ho detto di aspettare, che arrivi subito. Il computer è impacchettato, pronto per la consegna. È da Ron e io ho già firmato tutte le scartoffie: manca solo la tua firma. C’è ancora molta roba da esaminare, ma abbiamo il backup di tutto e loro non lo sanno. Carin e Janet sono di sopra.»

«Bene.»

Lucy abbassa lo sguardo sul telefono e quando mi guarda di nuovo sorride, poi porge il foglio a Benton. «Allora?» gli chiede.

«Stavo per dirglielo» risponde lui.

«Ha una brutta notizia che è una bella notizia» mi dice allegramente Lucy.

Vedo Bryce nel corridoio: viene verso di noi. A quest’ora tarda è un po’ scarmigliato, meno azzimato del solito, ma ha quell’espressione nervosa e attenta che abbiamo tutti quando il dramma è in pieno svolgimento.

«C’è il “Globe”...» annuncia entrando. «Oddio, che schifo!» esclama poi. «È inguardabile! Non potete togliere quella foto?» Si volta per non vedere le immagini proiettate nel PIT. «L’ho già detto e lo ripeto. Se muoio, per piacere non lasciate che mi riduca così. Trovatemi subito, oppure mai più. Sock è su nel tuo ufficio. Gli ho sistemato la cuccia e gli ho dato un biscotto. Vi ho anche lasciato qualcosa da mangiare. Gavin è nel parcheggio con i fari spenti, ha appena visto arrivare l’FBI e tra un momento lo faccio entrare come se fosse uno che lavora qui. Sarà uno scoop incredibile. Voglio che senta tutto con le sue orecchie quando chiederanno che gli consegniamo il computer e tutto il resto.»

«Bryce, parli troppo» lo avverto.

«Versamenti da diecimila dollari al mese, ufficialmente per l’affitto dell’ufficio di Washington.» Lucy comincia a raccontarmi quel che Benton non mi ha ancora detto. «Bonifici a una banca di New York, che vengono suddivisi e trasferiti ad altre banche, dove vengono ulteriormente suddivisi e bonificati, e avanti così. Un ingranaggio puntuale come un orologio che va avanti da diciassette anni, per l’esattezza dall’agosto 1996, e non può essere una coincidenza. Forse nessuno si sarebbe mai accorto che il destinatario dei fondi, chiaramente denaro sporco, era Granby, se non avesse fatto un errore veramente stupido. Un’e-mail.» Lucy ha di nuovo la faccia felice. «Circa sei mesi fa è andato a pranzo con un investitore che ne ha parlato in un’e-mail a Lombardi.»

Me la fa leggere sul suo cellulare:

Da: JP
A: DLombardi
Oggetto: “Gran Gusto”
Grz del contatto, ottimo pranzo con il sig. FBI, davvero grande (a cominciare dall’ego). Non mi ero reso conto del gioco di parole quando ho scelto il mio ristorante italiano preferito! Consiglio di trasferire il suo conto a Boston, visto che ora lavora lì. Pochi contanti e il resto in azioni, obbligazioni ecc. Conosce qualcuno che può dare una mano per il mio problemino di revisione contabile, maledetto fisco. Ciao.

Mi incammino di buon passo nel corridoio curvo che porta alla reception, con il camice sopra i vestiti che non ricordo neppure più di avere indosso: ho raggiunto un livello di stanchezza che rasenta l’esperienza extracorporea, sono sveglissima e nello stesso tempo vado al rallentatore.

«Immagino che tu e Marino non possiate arrestarlo qui su due piedi» dico a Benton.

«Negherà tutto.»

«Naturale.»

«Invocherà subito il quinto emendamento e chiederà un avvocato.»

«Non importa. È rovinato, Benton.» Ho fatto in modo che la disfatta di Granby sia pubblica.

Benton mi guarda, risoluto a fare quello che va fatto. Dovrebbe essere contento, invece no.

«Nessun avvocato lo potrà salvare e i suoi amici di Washington si terranno alla larga come se fosse un appestato» aggiungo. Poi taccio, perché siamo quasi arrivati alla reception.

Ron è nella guardiola con il vetro aperto e per un attimo la vista di Granby e del suo codazzo di agenti mi spiazza. Sembra esausto, ma è gentile, come se apprezzasse che io lo abbia ricevuto nel mio territorio, con i tre agenti in giubbotto e pantaloni militari fermi qualche passo più indietro di lui. Mi rendo conto che ha paura. Non me lo aspettavo.

Mi chiedo se sospetta che Lucy sia entrata nel server della Double S, poi decido che ha capito cosa sta per succedere. Non è un ingenuo, sa chi è mia nipote e di che cosa è capace. Che sia o no al corrente di informazioni compromettenti che Lucy potrebbe scoprire, non può che aspettarsi il peggio. È sempre così quando si ha la coscienza sporca a quei livelli: per ogni peccato che viene scoperto, si è consapevoli di averne commessi almeno altri cento.

«Mi scusi per il disturbo» mi dice, senza guardare Benton e senza neppure immaginare chi sono Bryce e l’uomo che gli sta accanto, giovane, con la barba, camicia a quadretti, gilet di maglia, jeans e scarpe da ginnastica.

Lucy ci supera, diretta all’ascensore. Sento le porte che si aprono.

«Ovviamente, trattandosi di un’indagine su reati finanziari gravi, la ringrazio per aver ottemperato... ehm... per essere venuta incontro alla nostra esigenza di portare il server della Double S nei nostri laboratori» mi dice Granby. «Apprezzo infinitamente la collaborazione» aggiunge balbettando nervoso, troppo formale e troppo sorridente.

«Figuriamoci» replico senza sorridere, senza la minima cordialità. «È pronto, a vostra disposizione.» Incrocio lo sguardo di Ron, che mi fa un cenno di assenso dalla guardiola.

«Sì, signora direttrice.» Forse è la mancanza di sonno, ma mi sembra di cogliere un sorriso nelle sue parole. «È qui, con tutti i moduli pronti.»

«E poi ci sono gli omicidi.» Guardo Granby negli occhi mentre, con tutt’e due le mani, si liscia i capelli perfetti sulle tempie brizzolate. «Ci lavoreremo ancora e forniremo all’FBI tutte le informazioni necessarie.»

«Grazie anche di questo, come sempre.» Continua a lisciarsi i capelli e a guardare Ron, che apre la porta della guardiola spingendo un carrello su cui si trova il server fasciato nella plastica. Lucy, a scanso di equivoci, lo ha chiuso con parecchi giri di nastro rosso su cui è scritto in nero: “MATERIALE PROBATORIO – Non manomettere i sigilli”.

Prendo dalla tasca del camice un pennarello, tiro fuori dalla busta trasparente appiccicata al pacco il modulo di trasmissione delle prove e vi appongo la mia sigla e la data davanti a tutti. Poi lo porgo a Granby, come vuole la procedura, trasferendo ufficialmente il computer all’FBI perché vi effettui analisi di cui sicuramente non abbiamo bisogno. Mi chiedo quand’è stata l’ultima volta che un capo divisione si è scomodato per farsi consegnare materiale probatorio o per recarsi da un medico legale. Scommetto che Granby non ha mai assistito a un’autopsia.

«Non mi aspettavo di trovarti qui» dice a Benton. «Che cosa sei venuto a fare?» chiede poi toccandosi di nuovo i capelli.

«Mi godo questo periodo di riposo. Probabilmente più di quanto te lo godrai tu.»

Granby socchiude gli occhi, apertamente aggressivo, ma sorride lo stesso. «Non ho tempo per riposarmi. Ho troppo da fare.»

«Secondo me, presto avrai un sacco di tempo libero, Ed.»

Sento dei passi decisi provenire dall’ascensore e vedo arrivare Lucy, Janet e Carin Hegel. Si fermano accanto a Bryce e a Gavin Connors, testimoni convocati come da programma.

«Cosa volete?» Granby punta su Carin Hegel tutta la sua attenzione, come se fosse la scarica di uno storditore elettrico, come se volesse trapassarle la pelle con lo sguardo.

Sa sicuramente chi è, per mille ragioni. Carin Hegel compare spesso in televisione, quando si parla di processi importanti, ed è famosa come un campione sportivo. Ma, soprattutto, era l’avvocato di Gail Shipton in una causa contro un’azienda che pagava Granby da anni. Gli versava parecchi soldi tutti i mesi e chissà quali altri favori gli faceva. Granby doveva essere convinto di non avere nulla di cui preoccuparsi, salvo rimanere intrappolato nei suoi stessi raggiri. Ed è quello che è successo. La bella vita che ha fatto finora sta per finire.

«Se sai chi c’è veramente dietro tutto questo, Ed, è il momento giusto per dirlo.» Benton non gli ha staccato gli occhi di dosso neppure per un attimo. «Non è Martin Lagos che stiamo cercando. So cos’hai fatto. Lo sappiamo tutti.»

«Non so a cosa ti riferisci, ma le tue insinuazioni mi offendono.»

«Stai cercando di incolpare degli omicidi del Capital Killer un ragazzo scomparso diciassette anni fa sulla base di un profilo genetico sbagliato, se così vogliamo dire. Un errore di laboratorio, scommetto che dirai.»

«Non è il momento né il luogo adatto!» ribatte Granby. «Ne parleremo in privato.»

«No» interviene Carin Hegel. Solo adesso noto che ha avuto l’accortezza di scegliere una mise molto professionale per l’occasione, nonostante l’ora.

Piccola e focosa, con capelli castani corti e un bel viso che non intimidisce affatto finché non apre bocca, si è messa una giacca scura di cachemire con un collo importante e grossi bottoni d’argento, pantaloni neri e stivali.

«Qualunque cosa ci sia da dire verrà detta qui, davanti a tutti.» Il tono è più da giudice che da avvocato.

«State scherzando?» Ma non è per nulla divertito e il suo nervosismo si trasforma palesemente in paura.

Lo vedo sempre più teso, come una molla pronta a scattare, e mi viene in mente che potrebbe darsi alla fuga.

«Ho pensato che ti potesse far piacere dare un’occhiata a questo.» Benton gli porge il tabulato telefonico. «So che è passato molto tempo, ma forse ricordi di aver telefonato al dottor Geist. Era il medico legale che si occupò dell’annegamento di Gabriela Lagos, un omicidio che tu volevi far passare per una morte accidentale.»

Granby fissa il foglio che ha in mano come se fosse analfabeta.

«Abbiamo le prove del fatto che la scena del crimine fu manomessa» dice Benton e spiega che cosa intende, citando il condizionatore spento, l’acqua bollente nella vasca, la cera, le candele, il fatto che il bagno è stato riordinato.

«E suo figlio Martin aveva un braccio rotto, quindi non fu lui ad afferrarla per le caviglie in modo da annegarla» aggiunge. «Posso mostrarti le contusioni alle gambe, i lividi sulle caviglie lasciati dai polpastrelli, se vuoi.»

Granby è talmente sbalordito che non fa caso al ragazzo barbuto, con la camicia a quadri e il gilet, che prende freneticamente appunti, né alla bionda accanto a Lucy che ha in mano un registratore digitale e si premura di dire che è in funzione. Janet lo ha precisato più volte, annunciando che sta registrando la nostra conversazione e se qualcuno dei presenti ha qualcosa in contrario lo dica subito, altrimenti vale il principio del silenzio assenso. Ed Granby tace, ma io prendo la parola e gli spiego chi sono Janet e Carin, gli dico che entrambe sono avvocati e metto bene in chiaro il motivo per cui sono qui in questo momento.

«Esistono elementi probatori che mettono in relazione gli omicidi di Gail Shipton, Haley Swanson, Dominic Lombardi e Jadwiga Caminska con quelli di Washington, malgrado lei sostenga il contrario» dichiaro, lasciandolo visibilmente scioccato. «Fibre, un’impronta minerale, e non solo. È certo inoltre che è stato deliberatamente alterato un profilo genetico nel CODIS. Il campione da cui ha ricavato il DNA che ha sostituito a quello di Martin Lagos consiste in un misto di liquidi organici fra cui anche sangue mestruale: è di una donna.»

«La cosa verrà chiarita secondo le procedure regolamentari, legali. Non mi fido delle sue procedure. Non mi fido di lei, punto.» Carin Hegel guarda Granby e gli agenti in piedi dietro di lui. «Ho già lasciato un messaggio al procuratore generale» riprende, ed è a questo punto che Granby decide di tentare la fuga.

Il foglio che aveva in mano cade a terra svolazzando quando si precipita verso la porta che dà sul garage, spingendola con tanta forza da mandarla a sbattere contro il muro, e corre fino al parcheggio.

Marino sta scendendo dal SUV e, quando ci vede uscire tutti insieme di corsa, reagisce come avrebbe reagito ai tempi di Richmond. «Uau! Dove andate così di fretta?» esclama.

Granby corre verso la sua macchina.

Marino lo intercetta con pochi passi, lo afferra da dietro per la cintura e lo solleva da terra. Granby, con la punta dei piedi che sfiora appena l’asfalto, si dibatte invano, mentre Marino con la mano libera lo perquisisce e gli trova una pistola sotto la giacca, in una fondina da spalla. La porge a Benton. «Ti metto giù appena fai il bravo» dice amabilmente a Granby.

«Toglimi di dosso quelle cazzo di mani!» grida Granby. I suoi agenti si guardano bene dall’intervenire.

Restano dove sono e assistono impassibili all’umiliazione del loro capo, abbastanza furbi da capire da che parte gli conviene stare.

«Dicci chi è e dove si trova, Ed.» Benton gli si avvicina, nel parcheggio bene illuminato del CFC pieno di furgoni bianchi. «Non è Martin Lagos, altrimenti non staresti cercando di farlo incriminare. A parte il fatto che penso non sia più fra noi da tempo. Hai contribuito a toglierlo dalla circolazione tu, o è stato il suo amico Daniel Mersa?»

Granby lo fissa, in silenzio, dalla sua posizione precaria. Poi smette di dibattersi, come svuotato, e Marino lo depone a terra, trattenendolo per la cintola.

«Dov’è?» chiede Benton. «Vuoi che uccida qualcun altro?»

Granby continua a fissarlo con lo sguardo vacuo.

«Non te ne frega un cazzo, eh?» dice Benton, e di nuovo sento tutta la sua delusione.

«Andate al diavolo» ribatte Granby a voce bassa, spenta.

«Hai una possibilità di rimediare.» Benton dice una cosa che lascerà completamente indifferente Ed Granby, lo so già.

So che cos’è la disperazione che indurisce le persone, le svuota, le rende gelide come lo spazio interstellare. So dove porta e so dove va a finire.