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In un’epifania causata dal febbrone, mi è parso di capire il significato ultimo della vita, frutto di una collisione tra le particelle divine che stanno alla base della materia nell’universo, e della morte, processo perfettamente inverso. Quando ho sfiorato i quaranta gradi, mi è sembrato tutto chiarissimo, illuminata com’ero dalla presenza di una nera signora incappucciata ai piedi del letto.
Se solo avessi scritto quello che mi diceva, la formula elusiva della natura che produce massa e della morte che la elimina, il mistero della creazione dal big bang a oggi misurato attraverso i prodotti del decadimento! Ruggine, sporcizia, malattia, follia, caos, corruzione, bugie, marcescenza, rovina, cellule morte e atrofizzate, tanfo, sudore, lordume, polvere alla polvere... Tutto questo interagisce a livello subatomico, dando origine a nuova massa in un ciclo senza fine. Non vedevo il volto della nera signora, ma so che era bonario e irresistibile, mentre mi parlava con un linguaggio scientifico e poetico al tempo stesso, davanti a un fuoco che emanava luce ma non calore.
Per qualche istante di straordinaria lucidità, ho capito che cosa vogliamo dire quando parliamo di frutto proibito e peccato originale, di avanzare verso la luce, lungo strade lastricate d’oro, di extraterrestri, aura, spiriti, paradiso, inferno e trasmigrazione delle anime, guarigione, resurrezione, reincarnazione sotto forma di corvi, gatti, gobbi, angeli. Mi è stato rivelato il mistero di questo riciclo continuo, di una precisione cristallina e di una bellezza prismatica, il piano di Dio Fisico Supremo, misericordioso, giusto e divertente. Un Dio creativo, parte di ognuno di noi.
Ho visto, ho conosciuto, ho toccato con mano la Verità perfetta. Poi la vita ha riaffermato la propria supremazia e mi ha privato della Verità. E così sono ancora qui, trattenuta su questa terra dalla forza di gravità. Immemore. Non ricordo più, o comunque non so esprimere quello che finalmente avrei potuto spiegare ai parenti disperati dei morti che sottopongo ad autopsia. Do risposte cliniche alle loro domande, che sono sempre le stesse.
“Perché? Perché? Perché...”
“Come hanno potuto fare una cosa del genere?”
Non ho mai saputo dare una risposta valida a questi interrogativi. Ma la risposta c’è, e io l’ho afferrata, anche se solo per un istante. L’ho avuta sulla punta della lingua, ma poi sono tornata in me e mi è sfuggita dalla mente, sostituita dal lavoro che avevo appena finito, da immagini inconcepibili, che nessuno dovrebbe mai vedere. Sangue e bossoli lungo corridoi pieni di disegni e decorazioni natalizie. E dentro l’aula... i bambini che non sono riuscita a salvare, i genitori che non sono riuscita a consolare, le rassicurazioni che non sono riuscita a dare.
“Hanno sofferto?”
“È stato rapido? Quanto tempo c’è voluto?”
Mi dico che è colpa della febbre. Non c’è nulla che io non abbia già visto, che io non sia in grado di gestire, e mi sento invadere dalla collera, che si risveglia come un drago dentro di me.
«Credimi: non vorrai che se ne occupi qualcun altro. Non è ammessa la minima cazzata, te lo dico io.» Marino continua imperterrito a parlare e, per essere sincera, devo ammettere che mi fa piacere udire la sua voce.
Non voglio sentire la sua mancanza come in quest’ultimo periodo. È l’unica persona che porterei con me in un inferno mediatico di quelle dimensioni, di portata incomprensibile: strade bloccate per chilometri dai mezzi di innumerevoli televisioni, antenne satellitari, elicotteri che sorvolavano la zona senza posa, nemmeno stessero girando un film.
“Hanno sparato da vicino o da lontano?”
Il drago si riscuote di nuovo, ma non posso permettermi di lasciare che la collera mi travolga. Meno male che Marino non è venuto con me. Non volevo che venisse. So che cosa è in grado di gestire e cosa no. Sarebbe crollato come un vetro che si spezza in mille frammenti a causa di vibrazioni troppo intense per l’udito umano.
«L’istinto mi dice che questo è il primo di una lunga serie, Kay» mi confida Marino. Ha la stessa voce di sempre, ma più sicura, più assertiva. «Qualche psicopatico deve aver preso spunto da quello che è appena successo.»
«Quello che è successo a Newtown?» Non vedo come faccia a saltare a una conclusione simile e vorrei che la piantasse di tirare fuori il Connecticut.
«È così che funziona» insiste. «Uno psicopatico prende spunto da un altro psicopatico che fa una strage in un cinema o in una scuola per attirare l’attenzione.»
Lo immagino che guida per le strade buie di Cambridge sotto la pioggia. Sono sicura che non ha allacciato la cintura, ma evito di dirglielo, ora che è di nuovo in polizia. Ricade nelle vecchie, brutte abitudini con grande facilità.
«Le hanno sparato?» Glielo chiedo perché smetta di divagare, tornando continuamente su un argomento di cui non voglio parlare. «Non sei nemmeno sicuro che sia stata assassinata, dico bene?»
«Non pare che le abbiano sparato» conferma Marino.
«Cerchiamo di non confondere ulteriormente le cose facendo inutili confronti con quello che è successo nel Connecticut.»
«Non tollero che ’sti coglioni ricevano tanta attenzione dai media.»
«Su questo siamo tutti d’accordo.»
«Peggiora le cose. È un’istigazione a delinquere. Non dovremmo nemmeno dire come si chiamano. Dovremmo seppellirli senza lapide.»
«Parliamo del caso, per cortesia. Il cadavere presenta lesioni o ferite visibili?»
«A prima vista, no» risponde Marino. «Ma non credo proprio che si sia avvolta da sola in un lenzuolo per andare scalza nel campus a morire nel fango, sotto la pioggia.»
Se Marino sta bypassando il mio vice, Luke Zenner, e gli altri medici legali del CFC, non è perché pensa che io sia più qualificata di loro a gestire il caso, anche se è vero che lo sono. Ha chiamato me perché vuole tornare ai vecchi tempi, riappropriarsi del ruolo che aveva quando ci siamo conosciuti. Non lavora più per me. Adesso mi chiama quando decide lui. Mi ricorderà che i ruoli sono questi tutte le volte che potrà.
«Comunque, se non te la senti...» comincia. Forse lo fa per invogliarmi a dire di sì. O forse la sua è una sfida.
Non so. Non sono in grado di giudicare, in questo momento. Sono stanca e ho lo stomaco vuoto. Non riesco a pensare ad altro che a uova sode con burro e una macinata di pepe, pane appena sfornato e caffè espresso. Cosa non darei per una spremuta di arance rosse.
«No, no. Il peggio è passato.» Prendo la bottiglietta sul comodino. «Dammi il tempo di prepararmi.» Bevo un sorso d’acqua soltanto: non ho più una sete inestinguibile, le labbra secche e la lingua asciutta come carta vetrata. «Ho preso lo sciroppo per la tosse prima di dormire. Codeina.»
«Beata te.»
«Sono un po’ annebbiata, ma sto bene. Non mi sento di guidare, però; soprattutto con questo tempo. Chi ha trovato il corpo?»
Forse me lo ha già detto. Mi premo una mano sulla fronte: non ho febbre. Sono abbastanza sicura che mi sia passata e che non sia solo effetto dell’Advil.
«Una studentessa dell’MIT e un tipo della Harvard che stavano andando verso la camera di lei alla residenza universitaria. Hai presente la Simmons Hall? Quel palazzo enorme che sembra costruito con il Lego di là del campo da rugby e del campo da baseball dell’MIT?» mi chiede Marino.
Sento che ha il ricevitore scanner acceso. È nel suo elemento. Armato e pericoloso, con il distintivo appeso al cinturone, al volante di un’auto della polizia senza contrassegni ma con luci, sirena e chissà cos’altro ancora. Ai vecchi tempi, truccava i mezzi della polizia come fa tuttora con le sue Harley-Davidson.
«Lì per lì hanno pensato che fosse un manichino con una toga steso nel fango dietro la recinzione che separa il campo dal parcheggio» mi informa Marino, tornato a essere il detective di una volta. «Quando poi si sono avvicinati, entrando da un cancello aperto, e si sono accorti che era una donna avvolta in un lenzuolo, che sotto non aveva niente addosso e che non respirava, hanno chiamato il 911.»
«È nuda?» In realtà gli sto chiedendo di dirmi se qualcuno ha toccato il cadavere, e chi.
«I due ragazzi giurano di non aver toccato niente. Il lenzuolo è fradicio ed è abbastanza evidente che è nuda. Machado gli ha parlato e dice che secondo lui non c’entrano niente. In ogni caso, per sicurezza, gli fa fare un tampone per il test del DNA e controlla se hanno precedenti. La solita trafila.»
Poi mi spiega che Sil Machado, investigatore della polizia di Cambridge, sospetta si tratti di un’overdose.
«Potrebbe essere la stessa roba, tagliata male, che gira in questo periodo causando un sacco di problemi» dice Marino. «Come lo strano suicidio dell’altro giorno.»
«Quale strano suicidio?» Purtroppo ce ne sono stati diversi mentre ero fuori città e poi a casa malata.
«La stilista che si è lanciata dal tetto del suo palazzo di Cambridge e ha imbrattato le vetrate della palestra al pianoterra mentre la gente faceva ginnastica» mi spiega. «Sembrava che fosse scoppiata una bomba di spaghetti al pomodoro. Comunque sia, pensano che potrebbe esserci un collegamento.»
«Non vedo quale.»
«La stessa droga. Qualche schifezza di cui si faceva.»
«E chi è che lo pensa?» Non ho fatto io l’autopsia alla suicida, ovviamente. Prendo i dossier che ho impilato sul pavimento vicino al letto.
«Machado e il suo sergente, il suo vice» mi risponde Marino. «Il caso è stato subito sottoposto all’attenzione dei sovrintendenti e del commissario.»
Poso i dossier sul letto. Devono essere almeno una dozzina di fascicoli, referti autoptici e foto che il mio assistente Bryce Clark mi ha portato tutti i giorni, lasciandoli fuori della porta. Insieme al lavoro, mi ha portato anche provviste e generi di conforto.
«Si teme che sia metamfetamina tagliata con chissà cosa o qualche altra droga sintetica, una versione recente dei “sali da bagno” che gira a Cambridge in questo periodo. Forse anche la donna che si è suicidata era sotto l’effetto di questa droga» mi dice. «Una possibilità è che Gail Shipton, sempre che il cadavere sia il suo, si sia drogata con qualcuno che, quando lei è andata in overdose, l’ha portata nel campus.»
«È una teoria tua?»
«No, no. Se ti vuoi sbarazzare di un cadavere, perché lo porti nel campo sportivo di un’università, come se volessi metterlo in mostra per scioccare la gente? Il punto secondo me è questo, il pericolo maggiore da cui ci dobbiamo guardare in questo periodo: compi un gesto sensazionale e finisci su tutti i giornali e attiri l’attenzione persino del presidente degli Stati Uniti. Io credo che chi ha messo quel cadavere al Briggs Field sia uno così. Uno che vuole attirare l’attenzione, insomma, finire sui giornali.»
«Potrebbe essere. Ma non è tutto.»
«Ti inoltro le foto che mi ha mandato Machado per SMS.» La voce profonda di Marino è insistente, sgarbata, brusca.
«Non usare il cellulare mentre guidi.» Prendo il mio iPad.
«Tranquilla: dopo mi faccio la multa.»
«Ci sono solchi per terra, o altri segni da cui si possa capire come ha fatto il cadavere ad arrivare fin lì?»
«Dalle foto vedrai che c’è un casino di fango e purtroppo, se anche c’erano, impronte, solchi o segni di qualsiasi tipo sono stati cancellati dalla pioggia. Ma io non sono ancora stato sul posto. Non ho ancora visto niente.»
Apro le foto che Marino mi ha appena spedito via e-mail e osservo l’erba bagnata e il fango rossastro di un campo da baseball delimitato da una recinzione. Zumo sulla donna avvolta in un telo bianco. È snella, supina, con i lunghi capelli castani disposti ordinatamente intorno al viso giovane e grazioso, inclinato leggermente verso sinistra e imperlato di pioggia. Ha il lenzuolo avvolto sul petto, sotto le ascelle, come un telo da bagno. Sembra una signora alle terme.
È un’immagine familiare e mi colpisce la somiglianza con alcune foto che mi ha fatto vedere Benton qualche settimana fa, prendendosi un rischio notevole. Senza l’autorizzazione dell’FBI, mi ha chiesto infatti un parere sul caso che sta seguendo a Washington. Le vittime di cui mi ha mostrato le foto, però, avevano un sacchetto di plastica sulla testa, fissato intorno al collo con del nastro adesivo fantasia e un fiocco. È la firma del serial killer, e qui non c’è.
“Non sappiamo neppure se è stata assassinata” mi dico. Non mi sorprenderei se fosse morta improvvisamente e chi era con lei si fosse lasciato prendere dal panico, l’avesse avvolta in un lenzuolo, magari del dormitorio universitario, e l’avesse portata fuori in maniera che venisse ritrovata in tempi brevi.
«Potrebbero essere entrati nel parcheggio con un’auto, essersi fermati vicino alla recinzione, aver aperto il cancello e averla portata lì a braccia, oppure trascinandola» prosegue Marino mentre io guardo l’immagine sul mio iPad, che mi turba a livello profondo, viscerale. Cerco di scacciare quella sensazione, ma non ci riesco. A Marino non posso dire niente.
Benton verrebbe licenziato se l’FBI sapesse che ha svelato a sua moglie informazioni secretate. Poco importa che io sia un medico legale che ha competenza su casi federali e che aveva un senso consultarmi. L’FBI mi chiede spesso consulenze, ma in questo caso non l’ha fatto. Il capo di Benton, Ed Granby, non mi vede di buon occhio e sarebbe più che felice di gettare fango su Benton e farlo licenziare.
«Uno dei cancelli non era chiuso» mi informa Marino. «I due ragazzi che hanno trovato il cadavere dicono che quando sono arrivati loro era solo accostato. Gli altri, invece, sono chiusi con catene e lucchetti in maniera che fuori orario non entri nessuno. Chi ha portato lì il corpo, dunque, sapeva che quel cancello era aperto, oppure aveva la chiave o ha usato un tronchese.»
«Il corpo è stato messo deliberatamente in quella posizione.» Ho la testa pesante, l’eco di un’emicrania cronica. «Supina, gambe unite, dritte, un braccio sul ventre, l’altro teso e con il polso piegato. Sembra una ballerina, o una dama d’altri tempi che ha un mancamento e chiede i sali. Non c’è niente fuori posto, il lenzuolo è sistemato con cura... In realtà non sono nemmeno sicura che sia un lenzuolo.»
Ingrandisco il particolare più che posso senza che l’immagine si sgrani.
«Un telo bianco, comunque. È una posizione simbolica, rituale.» Ne sono sicurissima, e la stretta che provo allo stomaco è paura.
E se fosse la stessa mano? E se l’assassino fosse arrivato qui? Mi dico che ho in mente i casi di Washington perché se ne sta occupando Benton, in trasferta proprio per questo motivo. E poi non è passato molto tempo da quando mi ha fatto vedere quelle foto, i referti autoptici e degli esami di laboratorio. Un cadavere avvolto in un telo bianco, in una posizione aggraziata e pudica, non significa che l’assassino sia lo stesso. Me lo dico e me lo ripeto.
«Lo stronzo l’ha messa così apposta» dice Marino «perché per lui ha chissà quale significato.»
«Come si fa a portare lì un cadavere senza farsi vedere?» Cerco di concentrarmi sui problemi più importanti. «In un campo sportivo dentro l’MIT, in mezzo a dormitori e residenze studentesche? Probabilmente chi l’ha fatto conosce bene la zona. Potrebbe essere uno studente o un dipendente, uno che vive o lavora nel campus.»
«Il posto dove l’ha lasciata non è illuminato di notte» replica Marino. «Dietro i campi da tennis coperti. Hai presente quei palloni bianchi vicino ai campi di atletica? Ti vengo a prendere tra mezz’ora, quaranta minuti. Sono davanti allo Psi Bar. È chiuso, ovviamente. Non c’è nessuno e le luci sono tutte spente. Ma faccio un giro per vedere dove può essere andata a parlare al telefono. Poi vengo a casa tua.»
«Sei solo, immagino.»
«Affermativo.»
«Sta’ attento, mi raccomando.»
Seduta sul letto, sfoglio i dossier nella camera padronale della nostra casa d’epoca, costruita nel diciottesimo secolo da un noto trascendentalista.
Comincio con il suicidio a cui accennava Marino. Tre giorni fa, domenica 16 dicembre, Sakura Yamagata, ventisei anni, si è lanciata dal tetto del palazzo di diciannove piani in cui abitava, a Cambridge. La causa della morte è quella che mi aspettavo, date le circostanze: traumi contusivi multipli, lacerazioni a cuore, fegato, milza e polmoni, cervello avulso dalla scatola cranica. Fratture estese a volto, coste, braccia, gambe e bacino.
Guardo le foto venti per venticinque scattate prima della rimozione del cadavere, in cui si vedono persone scioccate, molte in tenuta da palestra, infreddolite, e un distinto signore con i capelli grigi, in giacca e cravatta, con l’aria sconfitta e sconcertata. In una foto, l’uomo è accanto a Marino, che indica e parla. In un’altra, è accucciato vicino al cadavere e piega la testa di lato, con la stessa espressione sconfitta e scioccata sul volto.
È ovvio che conosceva Sakura Yamagata. Immagino lo spavento delle persone in palestra che, guardando fuori, hanno visto sfracellarsi il corpo. Deve aver fatto un tonfo terribile, come un pesante sacco di sabbia, come lo ha descritto un testimone in un articolo di giornale allegato al fascicolo. C’erano sangue e tessuti su tutta la vetrata e denti e frammenti sparsi nel raggio di quindici metri. Testa e volto erano sfigurati, irriconoscibili.
Associo le morti con simili mutilazioni alla psicosi o all’effetto di droghe e, mentre sfoglio il rapporto dettagliato della polizia, penso a quanto mi fa impressione leggere il nome di Marino e il suo numero di matricola.
“Verbalizzante: investigatore P.R. Marino (D33).”
Non leggevo verbali scritti da lui da quando è andato via dalla polizia di Richmond, una decina di anni fa. Guardo il suo resoconto di quello che è successo domenica scorsa a Cambridge, in un condominio di lusso in Memorial Drive.
... Intervenivo sul luogo dell’incidente e interrogavo il dottor Franz Schoenberg, il quale dichiarava di esercitare la professione di psichiatra presso il proprio studio privato di Cambridge e di avere come paziente Sakura Yamagata, stilista di moda. Il giorno dell’incidente, alle 15.56, la donna gli mandava un SMS comunicandogli la propria intenzione di “volare fino a Parigi” dal tetto del palazzo in cui era residente.
Alle 16.18 circa il dottor Schoenberg giungeva all’abitazione della donna e veniva accompagnato sul tetto, a cui accedeva da una porta di servizio. Il dottor Schoenberg dichiara che la donna era in piedi sul cornicione, oltre la bassa ringhiera di protezione, nuda e con le braccia aperte, girata di spalle rispetto al dichiarante. Il dottore l’ha chiamata una volta, dicendo: “Suki, sono qui io. Andrà tutto bene”. La donna non gli ha risposto, né ha dato altrimenti segno di averlo sentito e subito si è lasciata cadere in avanti, intenzionalmente, come se volesse tuffarsi ad angelo...
A farle l’autopsia è stato Luke Zenner, che ha mandato al laboratorio di tossicologia campioni di fluidi e tessuti: cuore, polmone, fegato, pancreas, sangue...
Accarezzo il dorso sottile di Sock, le coste che si alzano e si abbassano a ogni respiro, e di colpo mi sento di nuovo stanchissima, come se parlare con Marino mi avesse succhiato tutte le energie che avevo. Faccio fatica a non riaddormentarmi, ma mi impongo di guardare di nuovo le fotografie, soffermandomi sull’uomo con i capelli grigi, che sospetto sia il dottor Franz Schoenberg. Per questo la polizia lo ha lasciato avvicinare alla morta. Per questo è insieme a Marino. Non riesco a immaginare che effetto debba fare veder volar giù da un tetto un proprio paziente. Come farà a superare un simile trauma? Vaglio i pensieri che affiorano fugaci alla mia mente e mi chiedo se ho già incontrato da qualche parte lo psichiatra.
“Certe cose non si superano” penso. “Non è umanamente possibile superare certe cose...”
Mi torna in mente che Marino ha accennato alle droghe tagliate male o sintetiche che circolano nel Massachusetts da un annetto a questa parte. Ha nominato i “sali da bagno”, che sono stati causa di molti incidenti e suicidi inconsueti. Abbiamo riscontrato un preoccupante aumento di omicidi e di reati contro il patrimonio, specie nei quartieri degradati di Boston, quelli che la polizia chiama “le case popolari”. Spacciatori e membri delle gang affittano immobili a poco prezzo in periferia, e in breve tempo il quartiere si degrada. Penso a quello che devo fare e mi collego alla casella di posta dell’ufficio per scrivere al laboratorio di tossicologia di dare la priorità alle analisi di Sakura Yamagata e cercare eventuali sostanze psicoattive sintetiche.
Mefedrone, metilendiossipirovalerone, anche detto MDPV, e metilone. Luke non ha pensato di estendere i test agli allucinogeni, ma io credo che vadano cercate tracce anche di LSD, metilergometrina, ergotamina...
I miei pensieri vanno e vengono.
Gli alcaloidi dell’ergot possono causare ergotismo, una malattia nota anche come ignis sacer o fuoco di Sant’Antonio, con sintomi neuroconvulsivi che si pensa possano essere stati alla base dei processi alle streghe di Salem. L’intossicazione da segale cornuta provocava infatti convulsioni, spasmi, psicosi e allucinazioni.
A tratti mi si annebbia la vista e mi cade la testa sul petto. Mi riscuoto sentendo la pioggia che batte sul tetto e sui vetri. Avrei dovuto dire a Marino di raccomandare agli agenti già sul posto di montare una specie di tenda con una cerata sopra il cadavere, per proteggerlo dalla pioggia, oltre che dagli sguardi dei curiosi. E per proteggere me, che non devo prendere freddo e infradiciarmi, ed è meglio che resti lontano dalle telecamere.
C’erano furgoni delle televisioni ovunque e abbiamo dovuto tirare tutte le tende. La moquette era marrone, intrisa di sangue scuro e secco che stava cominciando a decomporsi, si capiva dall’odore, e restava appiccicato alle suole quando ci si camminava sopra. Era tantissimo e, anche se cercavo di non passarci sopra per non contaminare la scena, era impossibile. Come se non contaminare la scena servisse a qualcosa, poi.
Non c’è nessuno da punire e nessuna punizione sarebbe adeguata. Seduta sul letto, con i cuscini dietro la schiena, taccio e sento la collera ferma nel suo angolino buio, che guarda fuori con occhi di citrino. Ne sento la grandezza, il peso in fondo al letto.
“L’avrà detto Marino che bisogna mettere al riparo il cadavere.”
La collera si sposta, pesantemente. Il volume e il ritmo dell’acquazzone passano da fortissimo a pianissimo...
“Marino sa fare il suo mestiere.”
Fuga da adagio a furioso...