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Vedo cortine di pioggia alla luce dei lampioni davanti alla nostra casa d’epoca nel centro di Cambridge, vicino alla Divinity School della Harvard e alla Academy of Arts and Sciences.

Guardo Marino scendere da un SUV non suo, un Ford Explorer nero o blu scuro fermo nel vialetto pieno di pozzanghere. Apre la portiera dalla parte del passeggero, ignaro del fatto che lo sto osservando dalla finestra del primo piano, incurante delle emozioni che mi provoca, indifferente all’impatto delle sue azioni sulla mia vita.

Non mi ha avvertito che voleva licenziarsi. Non ce n’era bisogno, perché io lo sapevo già. Il dipartimento di polizia di Cambridge non avrebbe neanche preso in esame la sua domanda di esenzione se non lo avessi raccomandato personalmente per un trasferimento con pari stipendio nel loro nucleo investigativo. Gli ho fatto ottenere io quel lavoro. La verità è questa. Una beffa del destino.

L’ho raccomandato al commissario di polizia e al procuratore distrettuale, ho dichiarato con tutta la mia autorevolezza che Pete Marino era il candidato ideale. In virtù delle sue qualifiche e della sua pluriennale esperienza, poteva saltare il periodo di addestramento previsto per i neoassunti. E chissenefrega dei limiti di età, no? Marino è un professionista d’oro, un collaboratore preziosissimo. Gli ho fatto una gran pubblicità perché voglio che sia felice e che smetta di covare rancore nei miei confronti. Non voglio che dia la colpa a me.

Provo un moto di tristezza e di collera quando apre la gabbia del cane sul sedile posteriore per far uscire il suo pastore tedesco, un trovatello che ha chiamato Quincy. Gli aggancia il guinzaglio alla pettorina e sento il rumore della portiera che sbatte sotto la pioggia. Tra i rami spogli della quercia davanti alla finestra osservo l’uomo che conosco da tutta la mia vita lavorativa portare il suo cane, ancora cucciolo, a fare pipì.

Percorrono il vialetto di mattoni e al loro passaggio i lampioncini dotati di sensori di movimento si accendono come per salutare l’investigatore Pete Marino, del dipartimento di polizia di Cambridge. A causa della sua stazza, l’ombra che proietta è gigantesca. Arriva ai gradini davanti al portone, sotto la luce delle vecchie lanterne di ferro. Le unghie di Sock ticchettano sul parquet: il mio levriero mi segue fedele giù per le scale.

«Io non credo che andrà come dice lui.» Continuo a parlare al cane, che sta zitto come un mimo. «Lo sta facendo per i motivi sbagliati.»

Naturalmente Marino non ne è consapevole. È convinto di essere andato via dalla polizia perché gliel’ho chiesto io, dieci anni fa. Non era d’accordo, dice. Se gli domandassero: “Sei infelice per colpa di Kay Scarpetta?”, risponderebbe di sì e la macchina della verità non registrerebbe alcun cambiamento fisiologico.

Accendo le luci e le finestre sulle scale, con i vetri a piombo colorati, si illuminano di scene naturali bellissime.

Nell’ingresso, disattivo l’impianto di allarme e apro il portone. Marino, gigantesco, è in piedi sullo zerbino e il suo cane, tutto zampe, tira disperatamente per venire a fare le feste a me e a Sock.

«Entra. Devo portare fuori Sock e dargli da mangiare.» Comincio a raccogliere nell’armadio dell’ingresso le cose che mi servono per il sopralluogo.

«Non hai una bella cera, devo dire.» Marino si abbassa il cappuccio dell’impermeabile, che gronda acqua. Il suo cane ha una pettorina da lavoro, con la scritta IN ADDESTRAMENTO su un lato e NON ACCAREZZARE sull’altro, a grossi caratteri bianchi.

Prendo la valigetta che porto per i sopralluoghi, grande, robusta, di plastica. L’ho comprata in saldo, come molti altri strumenti che mi servono per il mio lavoro e trovo da Walmart, Home Depot, o altri negozi del genere. Che senso ha spendere un sacco di quattrini per un costotomo o un bisturi se posso prendere per molto meno oggetti che assolvono altrettanto bene lo scopo?

«Non voglio bagnarti i pavimenti.» Marino è ancora fermo sullo zerbino, sotto la piccola tettoia che protegge il portone, e mi fissa esattamente come faceva poco fa nel mio sogno.

«Non ti preoccupare. Più tardi viene Rosa. Ho una casa che fa ribrezzo. Non ho neanche comprato l’albero di Natale.»

«La casa di Scrooge, insomma.»

«Più o meno. Vieni dentro, che piove.»

«Dovrebbe smettere in mattinata.» Sfrega rumorosamente gli scarponi sullo zerbino, poi entra e chiude la porta.

Io mi siedo sul tappeto. Quincy tira per venire da me scodinzolando furiosamente contro il portaombrelli. Marino, che crede di essere molto bravo a addestrare il suo cane, ma che secondo Lucy sa solo portarselo appresso in macchina, gli dà uno strattone con il guinzaglio e gli ordina di mettersi seduto. Quincy continua imperterrito a fare quello che gli pare.

«Seduto» ripete Marino, in tono fermo. «Giù» aggiunge, visto che il cucciolo lo ignora.

«Cos’altro sai del caso, oltre a quello che mi hai già detto per telefono?» Sock mi salta in grembo tremante perché ha capito che sto per uscire senza di lui. «Su Gail Shipton... sempre che sia lei la morta.»

«Dietro il bar c’è un vicolo con un parcheggio. Piccolo, deserto e con molte luci bruciate» mi spiega Marino. «Penso proprio sia andata lì a parlare al telefono. Ho trovato sia il cellulare sia una sua scarpa.»

«Come fai a essere sicuro che siano suoi?» Mi metto gli anfibi di nylon neri, caldi e impermeabili.

«Sul telefono sono sicuro.» Prende dalla tasca un biscotto e lo spezza. Quincy si siede, pronto a scattare.

«E quelli di patate dolci che ti ho dato io? Non gli piacciono?»

«Li ho finiti.»

«Vuol dire che gliene dai troppi. Te ne avevo preso una cassa!»

«Sta crescendo...»

«Se continui così, crescerà fin troppo.»

«E comunque puliscono i denti.»

«Non usi il dentifricio che ti ho preparato?»

«Non gli piace.»

«Il telefono della Shipton non è protetto da password?» Mi allaccio le stringhe facendo un nodo doppio.

«Ho i miei sistemi.»

Lucy, immagino. Marino non si fa problemi a utilizzare i sistemi più o meno ortodossi di mia nipote nel suo nuovo posto di lavoro.

«Ci starei attenta, al posto tuo: al processo dovrai rendere conto di tutto.»

«Se uno certe cose non le sa, non te le può chiedere.» È chiaro che non gradisce i miei consigli.

«Presumo tu abbia prima cercato impronte e DNA su quel cellulare.» Uso con lui gli stessi toni che usavo quando era sotto la mia supervisione: non riesco a farne a meno. Non è passato neanche un mese...

«Sia sul cellulare sia sulla custodia.»

Mi alzo da terra e lui mi mostra la foto di uno smartphone in una custodia nera rigida su un marciapiede bagnato e pieno di crepe, vicino a un cassonetto. Non è una cover normale: resistente all’acqua e agli urti, di un materiale robusto, con protezioni retrattili, è il genere di custodia che Lucy definisce “di livello militare” e che abbiamo entrambe. È un dettaglio che potrebbe dirmi qualcosa di importante a proposito di Gail Shipton. Non sono custodie comuni. Siamo in pochi ad averle.

«Ho la cronologia delle chiamate.» Marino mi spiega come ha fatto a estrarre password e altri dati con un analizzatore fisico portatile che in teoria non dovrebbe avere.

È un’invenzione di Lucy, un dispositivo in grado di estrarre e decodificare le memorie di vari sistemi. Lucy non si fa problemi: lasciala sola con il tuo smartphone o il tuo computer per cinque minuti e scoprirà tutto di te.

«L’ultima telefonata effettuata da Gail ieri pomeriggio è alle diciassette e cinquantatré.» Marino fissa il marsupio che mi sono legata in vita. «A Carin Hegel, che le aveva appena mandato un SMS chiedendole di richiamarla. Da quando vai in giro armata?»

«Carin Hegel? L’avvocato?»

«La conosci?»

«Di vista. Per fortuna non sono mai stata coinvolta in cause legali di grossa entità.» L’ultima volta l’ho incontrata nel tribunale federale di Boston. Cerco di farmi venire in mente quando.

All’inizio di dicembre, forse. Una quindicina di giorni fa. L’ho incrociata per caso al bar del primo piano e mi ha detto che era lì per un’udienza predibattimentale di un processo che coinvolgeva una società di intermediazione finanziaria che ha definito “una banda di delinquenti”.

«È quasi certo che Gail sia uscita dallo Psi Bar e sia andata nel parcheggio dietro il locale, come mi ha detto Haley Swanson» continua Marino. «Gail ha ricevuto una telefonata da qualcuno che aveva un ID nascosto ed è uscita perché dentro c’era troppo rumore. Nel registro risulta “cellulare sconosciuto”. Se vai alla schermata di informazioni corrispondente, trovi data, ora e durata della chiamata. Nel caso specifico, diciassette minuti.»

Dà un altro pezzo di biscotto a Quincy.

«Gail ha chiuso la comunicazione quando è arrivato l’SMS di Carin Hegel» mi informa. «La Hegel ha provato a chiamarla e la telefonata è durata solo ventiquattro secondi. Il che è interessante: vuol dire che Gail non ha risposto e lei le ha soltanto lasciato un messaggio vocale, o che è stata interrotta.»

«Dobbiamo parlare con Carin Hegel.» Momento di disagio.

Carin Hegel mi ha detto anche un’altra cosa quando ci siamo incontrate nel bar del tribunale un paio di settimane fa. Mi ha confidato che non stava a casa sua, di essersi trasferita in un posto che non ha voluto specificare e da cui non intendeva spostarsi per tutta la durata del processo. “Motivi di sicurezza. A qualcuno farebbe comodo se avessi un bell’incidente stradale” ha detto. Per scherzo, ma ovviamente non c’era niente da ridere. Mi stava avvertendo, nel caso fosse arrivata da me senza appuntamento e in posizione orizzontale, ha precisato. Non ho neppure sorriso. Non mi sembrava proprio il caso: era una cosa seria.

«Le ho lasciato un messaggio dicendo di chiamarmi al più presto» mi informa Marino.

«Hai accennato alla possibile scomparsa della sua cliente?»

«Sì. Naturalmente non mi conosce e quindi non so se mi richiamerà lei o mi farà telefonare dalla segretaria. Sai come sono questi avvocati di grido» dice Marino, mentre mi metto la giacca. «La scarpa era vicino al telefono, bagnata ma non come se fosse rimasta sotto la pioggia per giorni. Qualche ora al massimo, direi» specifica. «La mia teoria è che l’abbiano abbrancata, lei abbia opposto resistenza e nel cercare di liberarsi abbia perso il telefonino e una scarpa. Mi dici perché ti porti dietro la pistola?»

«Che tipo di scarpa è?» domando.

Marino cerca una foto sul suo telefono e mi mostra una ballerina verde, di finto coccodrillo, girata con la suola in su sull’asfalto sporco e bagnato.

«È abbastanza facile perdere una scarpa così. Aperta, senza lacci» osservo.

«Infatti. Indica che ha cercato di divincolarsi, che il rapitore l’ha caricata in macchina a forza.»

«Non so ancora cosa possa indicare, a dire il vero. Altri effetti personali?»

«Potrebbe aver avuto una borsa marrone a tracolla. Era uscita con una borsa marrone e in casa non c’è. Così dice la sua amica Haley.»

«Con cui non hai più parlato dopo l’una di stanotte.»

«Non ho avuto il tempo materiale.» Marino offre un altro pezzo di biscotto a Quincy, il terzo in un quarto d’ora. «Il rapitore deve aver preso anche la borsa.»

«Nessuno l’ha sentita gridare? Come hanno fatto a caricarla a forza in macchina in una zona così frequentata, durante l’happy hour, senza che nessuno abbia visto o sentito niente?»

«Nel locale c’era un sacco di rumore. Dipende anche da quanto aveva bevuto.»

«Se era ubriaca, era più vulnerabile.» Sono anni che lo predico.

Stupratori, scippatori e assassini hanno vita più facile se le loro vittime sono sotto l’effetto di alcol o droghe. Una donna che esce barcollando da un bar è una preda perfetta.

«Con il buio, dietro il bar non c’era nessuno, immagino» dice Marino. «C’è solo una stradina che porta in Massachusetts Avenue. Insomma, è facile per un malintenzionato andare e venire da quella parte. È stata come minimo incauta a parlare al telefono proprio lì. Alle cinque e mezzo, sei, era completamente buio.»

«Non cominciamo a dare addosso alla vittima, per favore.» Mi incammino lungo il corridoio con Sock e mi fermo a raddrizzare le stampe vittoriane appese alla parete.

Ho la casa umida e polverosa, in disordine, trascurata. O almeno così mi sembra: non ho tirato fuori neanche una decorazione natalizia, non c’è profumo di cibo in cucina, non ci sono voci né rumori. Da quando sono tornata dal Connecticut è andato tutto storto.

«Non sarebbe dovuta andare dietro il bar con il buio» ribadisce Marino. «Parlava al telefono, non stava attenta a quello che le accadeva intorno» insiste.