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«Uno di loro deve venire subito qui» mi dice la voce di Benton nell’auricolare. «Ma prima vorrei che tu mi ascoltassi con attenzione, Kay.»
Lo vedo rialzarsi in piedi e poi aggirarsi nel cantiere continuando a guardare me nel parcheggio. Tengo d’occhio Marino e Machado per accertarmi che non capiscano con chi sto parlando.
«Quello che sto per dirti per il momento deve rimanere tra noi. Posso dare loro indicazioni, ma non posso entrare nei particolari. Dobbiamo avere l’assoluta certezza.» Ma capisco che ce l’ha già. «E non sappiamo di chi ci possiamo fidare. Il problema più grosso è questo. Un solo passo falso, e Granby avrà quello che gli serve per tagliarmi fuori da questo caso.»
«Da questo o dagli altri?» domando.
«Da tutti. Non so per certo quanti siano, ma almeno quattro.»
«C’è una discrepanza, e piuttosto importante.» Mi riferisco ai sacchetti di plastica che le tre vittime di Washington avevano sulla testa.
«Stavolta è stato disturbato. È l’unica spiegazione che mi viene in mente. Oppure vuole farci credere che questo caso non sia collegato agli altri. Ma non credo. Cambridge è un terreno di caccia conosciuto, per lui. Ci è già stato e non mi stupisco che sia tornato a colpire qui. Questa non è una vittima casuale. Nemmeno la prima, Klara Hembree. Forse lo erano la seconda e la terza.»
Benton non sembra agitato né turbato: non sarebbe da lui. Ma io lo conosco, percepisco ogni sua sfumatura e so che quando si avvicina alla preda parla con voce tesa, come se avesse preso all’amo qualcosa di grosso, che fa resistenza. Lo ascolto e so che cosa sta per dire, ma c’è dell’altro e mi vengono di nuovo i brividi. Sento il pericolo con sempre maggiore intensità, mentre parliamo al telefono a pochi metri di distanza.
Nelle ultime settimane Benton ha continuato ad accennare a un problema di fiducia. È un discorso che è venuto fuori più volte da quando è partito per Washington. Qualche sera fa, dopo aver bevuto uno Scotch di troppo, l’ha detto chiaro e tondo: il caso del Capital Killer non verrà mai risolto. C’è qualcuno che non vuole che venga risolto, ha detto, e io non gli ho creduto.
Come avrei potuto? Tre donne sono state brutalmente uccise e Benton, che è nell’FBI, insinuava che l’FBI non volesse la cattura dell’assassino? Adesso sembra che il serial killer abbia ucciso di nuovo e Benton ha gli stessi timori. Ho paura che si sia lasciato coinvolgere troppo. Come se questo non fosse già abbastanza grave, ho il terrore che gli sia successo qualcosa di terribile. Che, alla fine, abbia perso il controllo. Forse, in fondo, era inevitabile.
«Il cassone porta attrezzi sul pianale del pick-up è stato forzato» mi dice al telefono. «C’è un attrezzo per terra. È bagnato, ma non sembra che sia lì da molto. Ha smesso di piovere parecchie ore fa, quindi deve essere stato lasciato lì poco prima.»
«Che tipo di attrezzo?» domando.
«Un tronchese a cricchetto, forse per tagliare dei tubi di metallo. È stato lasciato lì deliberatamente, con una pietra sopra.»
«Una pietra?»
«Un sasso abbastanza grosso, che è stato raccolto da terra e posato sull’attrezzo.»
«Per quale motivo?»
«Carta, pietra, forbice.»
Aspetto di capire se sta scherzando. Ma dice sul serio.
«Un gesto suggerito da una mente malata, infantile, di un individuo che non si è mai sviluppato pienamente e poi è regredito. Adesso sta malissimo e sta scompensando velocemente. Mi sembra un po’ presto, anche se non saprei spiegarti perché. Gli sta succedendo qualcosa» dice Benton. «La pietra e il tronchese sono una regressione atavica a un gioco del suo passato. È la sensazione che ho avuto sin dalla prima volta che ho notato ciò che lasciava nei pressi del cadavere. Bisogna pensare a cercare quel che non è ovvio, cosa che la polizia di solito non fa.»
«Ma tu invece sì.»
«L’ho trovato sempre io, in ognuno degli omicidi, anche quando sono arrivato due giorni dopo» replica. «Sasso vince forbice e forbice vince carta, e i poliziotti non sono altro che carta: gente che riempie moduli e stabilisce regole di cui lui si fa beffa. Non li ritiene un pubblico degno e mette un sasso su un attrezzo che ha usato per commettere il reato, come la pietra sulle forbici, per ricordare alla polizia che è indegna e lui è superiore. È una cosa che lo fa godere, che lo esalta e lo diverte.»
«La polizia sarà anche indegna, ma tu no.»
«Non mi considererebbe tale, no. Si renderebbe conto che io capisco quello che fa, nella misura in cui è possibile capirlo. Più di quanto lo capisca lui stesso, peraltro: come tanti serial killer, ha una consapevolezza limitata. Sono moralmente squilibrati e lo squilibrio mentale genera scarsissima consapevolezza. O forse non ne ha proprio.»
Mi volto a guardare Marino: scava intorno al palo, che si staglia solitario ora che la rete metallica è stata tranciata. Prevedo già che si metterà sulle difensive con Benton. È molto suscettibile nei confronti di mio marito e tra loro scoppierà una guerra, adesso che Marino ha di nuovo del potere. Si preannuncia una situazione non facile. Si risolverà, ma chissà quando. In questo momento non riesco a immaginarlo.
Mi preoccupano i tempi. Benton torna a casa tre giorni prima del previsto e il Capital Killer colpisce di nuovo qui, come un tornado che cambia improvvisamente direzione e investe in pieno casa nostra. Continuo a pensare allo sconosciuto che guardava la mia porta da dietro il muro del giardino, a capo scoperto sotto la pioggia. È tutta la mattina che mi sento osservata.
«Credi che l’assassino sapesse che saresti venuto qui?» Non ci voglio nemmeno pensare.
«Francamente, è una cosa che mi preoccupa» risponde Benton.
Non sarebbe la prima volta che succede. Diversi criminali gli hanno lasciato biglietti, lettere, pezzi di cadaveri, fotografie, registrazioni video e audio di torture e uccisioni. Macabri moniti, raccapriccianti souvenir: carne umana cotta, l’orsacchiotto di un bambino ucciso. Ho assistito a spaventose minacce e provocazioni strazianti e non c’è più nulla che mi sorprenda, ma questo... Non voglio credere a ciò che Benton invece sta prendendo in considerazione. C’è un motivo, e io non posso ignorarlo. O forse non voglio.
Benton sarebbe dovuto rimanere a Washington fino a sabato. Se non avesse deciso di tornare a casa prima del previsto, non sarebbe qui in questo momento a dire queste cose e non avrebbe trovato un tronchese e una pietra.
«Come faceva a sapere che saresti stato qui, Benton?»
«Probabilmente mi ha visto. Ci avrà visto tutti quanti» risponde. Mi guardo intorno: palazzi illuminati dal sole, studenti che passano a piedi e in bicicletta, auto che luccicano ferme nei parcheggi. «Era inevitabile che venissi. Magari non subito, ma appena lo avessi saputo... Dopo qualche ora, o al massimo un giorno, è chiaro che sarei stato qui a fare quello che sto facendo.»
«Tenerti d’occhio è un conto, ma sapere che saresti tornato a casa oggi è un altro.»
«Può darsi che non sapesse che sarei rientrato proprio oggi, ma avrà immaginato che sarei arrivato presto. Non so risponderti, ma devo prendere in considerazione anche questa possibilità. Quello che so per certo è che la scena del crimine è come le altre tre. L’attrezzo e la pietra sono chiaramente una firma. All’Unità di analisi comportamentale sono convinti che lo faccia per depistarci. Dicono che è come il Cecchino di Washington e la carta dei tarocchi trovata vicino a un bossolo nel luogo in cui aveva sparato a un tredicenne. Dieci vittime, alcuni omicidi commessi in Virginia più o meno nel periodo in cui tu sei venuta via.»
“Nel periodo in cui ti credevo morto.” Questo pensiero mi arriva inaspettato, e mi fa male. Torno con la mente al sogno che ho fatto, ma solo per un attimo. Benton comincia a camminare a grandi passi nel cantiere, vicino al bulldozer giallo. Adesso parla più veloce, con più foga del solito.
«“Chiamatemi Dio” e “Non rivelare alla stampa”, aveva scritto sul tarocco» racconta. «Per prendere in giro gli investigatori e depistarli, facendogli credere che l’assassino avesse a che fare con la magia o l’occulto. L’FBI non l’aveva preso sul serio, e in quel caso aveva fatto bene. Adesso però fa lo stesso con gli attrezzi, le pietre, i teli bianchi, i sacchetti di Octopus... Dicono che sono stronzate, ma non è vero. Ti assicuro che non sono stronzate: per lui significano qualcosa. Gioca, si mette in mostra. Temo che sia spinto da idee deliranti.»
«Anche su di te?»
«È possibile che si illuda di far colpo su di me» dice Benton con disinvoltura, nel modo in cui il guardiano di uno zoo parlerebbe di un animale feroce. «Non posso averne la certezza, ma credo che sappia cosa faccio ed è abbastanza narcisista da pensare che io lo ammiri.»
«Forse ha colpito adesso per un altro motivo» replico con calma, ragionevolmente. «Un motivo che non ha nulla a che fare con la tua presenza qui. Tu non c’entri niente.»
«È una cosa che mi preoccupa» ripete. «Potrebbe aver sentito dire qualcosa, non so. Ma ha un legame con questa zona, un legame molto forte. Ha lasciato qui il cadavere perché questo luogo significa qualcosa per lui. Sarebbe prematuro parlarne direttamente, o specificamente, comunque» dichiara. «Ne parlerò, ma non ora. Prima devo fare delle telefonate. La decisione non spetta a me, secondo loro, e non per via delle indagini, ma per un piano sotterraneo estremamente inquietante. Devo informare Granby. È il protocollo. E sarà un problema.»
Riferirà al suo capo, l’agente speciale Ed Granby, che fa sempre dell’ostruzionismo e che io detesto. So già come andrà a finire: miseramente.
«Immagino che vorrà assumere lui la direzione delle indagini, come le altre volte» replico.
«Non possiamo permetterglielo, Kay.»
«Dove può aver sentito l’assassino che volevi tornare a Cambridge oggi?»
«Appunto. Come faceva a saperlo? Può darsi che sia in contatto con qualcuno che è vicino alle indagini.»
Mi sovviene quello che ha detto Carin Hegel sulla corruzione, che arriva molto in alto, più in alto di così non si può, e penso al dipartimento della Giustizia, all’FBI. Preferirei non farlo. Le mie riflessioni si spostano su un terreno più sicuro, su quel che mi ha detto Benton alcune ore fa appena sceso dall’elicottero, e cioè che l’idea di rientrare prima del tempo per essere a casa il giorno del compleanno era di Lucy.
«Quando di preciso è venuta fuori l’idea di tornare a casa prima del previsto?»
Riprendo in mano la valigetta e mi allontano un po’ di più da Marino e Machado perché non sentano quello che dico.
«Tre giorni fa» risponde Benton. «Ne abbiamo parlato domenica mattina. Lucy sapeva che cosa avevi passato nel Connecticut e temeva che ti fossi ammalata per quello.»
«Mi sono ammalata perché ho preso un virus.»
«Voleva che io tornassi a casa, e anch’io volevo tornare, te l’avevo detto, ma tu mi hai risposto che non era il caso. Ero sicuro che, se ti avessi avvertito, mi avresti detto di nuovo di no.»
Sentirmelo rinfacciare in modo così crudo mi ricorda spiacevolmente altre recenti rivelazioni: spesso non manifesto quello che provo e non dico che cosa voglio. È un errore e fa male.
«Abbiamo deciso di farti una sorpresa» aggiunge Benton.
«Chi altri era al corrente?»
«Internamente, si sapeva.»
Mi sta dicendo che domenica all’FBI si sapeva che sarebbe partito da Washington prima del previsto. La divisione di Boston, a cui appartiene, doveva autorizzare il suo rientro a Cambridge e Ed Granby era ben contento che lui se ne andasse. Ha incoraggiato la sua partenza, dice Benton. Mi viene in mente l’albergo dove alloggiava.
Anche in albergo dovevano essere al corrente dei suoi spostamenti. Immagino che li abbia avvertiti appena ha deciso di tornare a casa, forse già domenica scorsa. Naturalmente Lucy era d’accordo e mi ritrovo a pensare di nuovo a lei. Mi domando se abbia accennato al rientro anticipato di Benton con Gail Shipton e, se mai, per quale motivo.
Deve aver presentato il piano di volo alla FAA, l’ente federale che sovrintende all’aviazione civile, prima di decollare dal Massachusetts per l’aeroporto internazionale di Dulles. Per motivi di sicurezza, i velivoli privati non possono atterrare nell’area di Washington senza prima chiedere l’autorizzazione e presentare il piano di volo. In albergo, all’FBI, in aeroporto, fra i controllori di volo... Mi domando quante persone fossero a conoscenza di particolari quali orari, destinazioni, tipo di velivolo, magari anche il numero di coda dell’elicottero di Lucy e le attrezzature che ha a bordo. Chi sapeva che cosa volevano fare lei e Benton, dove e quando?
È possibile che qualcuno al corrente di questi dettagli privati li abbia riferiti alla persona sbagliata. Non posso escludere che l’assassino, squilibrato e intelligente, si sia fissato su Benton e commetta atti efferati per attirare la sua attenzione o per dimostrare di essere più in gamba di lui. Succede raramente. Non ricordo nessun serial killer che avesse sviluppato una fissazione erotomaniacale per uno psicologo forense o un profiler. Ma ciò non significa che non ce ne siano stati. È probabile che qualche volta sia successo.
Quando si tratta di comportamento umano, tutto è possibile. Ho assistito a episodi di violenza e sadismo che, fuori dal contesto, avrei considerato inconcepibili. Non saprei inventarmi un crimine atroce che non sia già stato commesso, nulla che non sia già stato fatto, e Benton non è un uomo qualunque. Ha scritto libri e articoli, compare spesso al telegiornale e il suo nome è stato fatto pubblicamente in relazione ai casi del Capital Killer, soprattutto dopo le ultime due vittime. Se l’assassino si tiene al corrente, sa che Benton era a Washington e che le ricerche sono state intense, anche se i particolari degli omicidi sono stati tenuti nascosti, avvolti nel manto di segretezza dell’FBI.
Benton prevedeva che l’assassino avrebbe colpito altrove e che questo era un momento favorevole per cambiare città: forse quest’uomo astuto e crudele riesce a indovinare le sue deduzioni, le sue intuizioni. Benton è convinto – e lo è stato sin dall’inizio – che il Capital Killer abbia dei legami con Cambridge, luogo che conosce e rappresenta per lui un porto sicuro.
Lo sostiene da aprile, da quando è stata assassinata Klara Hembree, che si era trasferita a Washington meno di un mese prima. Klara era sotto tiro già a Cambridge, dice Benton, e l’assassino l’ha seguita nella capitale. Non l’avrebbe fatto se a Cambridge non fosse stato nel suo ambiente e se non avesse conosciuto bene la zona di Washington. È uno che gioca in casa. Si sposta, si ferma dove si sente al sicuro e forse ha colpito anche in luoghi di cui noi non sappiamo nulla. Benton l’ha detto e ripetuto da quando è partito, prima della festa del Ringraziamento.
Se teme di essere stato preso di mira da questo assassino, o da uno qualsiasi degli assassini a cui dà la caccia, lo posso capire. Quanto potrà reggere ancora prima che le sue barriere comincino a incrinarsi, prima che tutto questo lo intossichi, gli si insinui sottopelle come un parassita? Me lo chiedo da quando ho iniziato ad amarlo.
«Era ovvio che sarei venuto a dare un’occhiata qui» mi dice Benton al telefono, dall’altra parte del campo pieno di fango. «O che ci sarebbe venuta la polizia. Qualcuno avrebbe controllato anche qui, benché sia lontano da dove è stato trovato il cadavere.»
«Perché?» chiedo.
«Per via del pick-up.»
«Quello che è stato forzato.» Osservo il pick-up nero intorno a cui Benton gira lentamente mentre parla.
«È strano che sia qui, è fuori posto» replica. «Non c’entra niente con il cantiere. È un veicolo privato, che non dovrebbe essere parcheggiato qui. Era prevedibile che mi saltasse subito all’occhio.»
Si ferma e mi guarda.
«Questo nell’ipotesi che il tronchese sia stato usato per tagliare il lucchetto e la catena del cancello.» Vedo Marino e Machado che rinunciano a scavare e decidono di usare un seghetto da ferro.
«Ha usato questo attrezzo e voleva che lo trovassimo» dice Benton. «Quando sarà esaminato in laboratorio, vedrai che ho ragione. Siamo il suo pubblico e vuole farci sapere tutto quello che si è preso la briga di fare. Lo eccita...»
«“Quello che si è preso la briga di fare”?» Lo interrompo, arrabbiata, perché mi sta mettendo paura. Per un attimo sento montare una di quelle vampate d’ira che faccio così fatica a soffocare.
Poi mi impongo di ritrovare la freddezza. Non serve a niente reagire come una persona normale. Scaccio tutto ciò che può interferire con il mio ragionamento e la mia disciplina clinica, lo allontano il più possibile. Dopo tanti anni, so come si fa a svuotare la mente.
Guardo Marino frugare nella sua valigetta, che praticamente è un’officina portatile. Faccio un bel respiro e, ora che sono più calma, penso di nuovo a Gail Shipton. Sarebbe logico che il nesso fosse lei. In tal caso vorrebbe dire che aveva qualche legame con l’assassino anche se non lo conosceva, anche se non lo aveva mai visto, come dice Benton.