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La mia memoria era in mille pezzi. La cosa non mi entusiasmava, ma non era comunque il disastro che sarebbe stato per un robot integrale. Il mio tessuto neurale umano, che normalmente era l’anello debole del mio intero sistema d’immagazzinamento dati, non poteva essere cancellato. Dovetti affidarmi a quello per rimettere i pezzi in ordine e, sfortunatamente, la sua velocità di calcolo era terribile.
Ci stavo mettendo un’eternità, cazzo.
Vagai tra immagini a caso, fitte di dolore, paesaggi, corridoi, muri. Wow, un sacco di muri.
(Voci non identificate: «Cambia qualcosa?».
«Non ancora.» Un’esitazione. «Pensate che dovremmo lasciare che la mettano in un cubicolo? Se non può…»
«No. No, assolutamente no. Vorranno per forza sapere come ha fatto a sabotare il modulo di controllo. Se gliene diamo l’occasione… Non possiamo fidarci di loro.»)
La parte peggiore era che non riuscivo a ricordare (ma va?) da quanto tempo fossi in quella condizione. Le scarse informazioni diagnostiche a mia disposizione suggerivano un qualche tipo di errore fatale.
Forse era ovvio anche senza le informazioni diagnostiche.
Una complessa serie di connessioni neurali, tutte positive, mi guidò fino a una grossa sezione intatta di archiviazioni protette… Che diavolo era quella roba? Ascesa e declino di Sanctuary Moon… Cominciai a esaminarla.
E poi… Boom! Nella mia testa sbocciarono centinaia di migliaia di connessioni. Ripresi il controllo dei miei processi mentali e avviai una diagnostica e una sequenza di riparazione dati. I ricordi cominciarono a smistarsi e ordinarsi più rapidamente (voce: «Buone notizie! Il processo diagnostico mostra attività accelerata. Si sta rimettendo in sesto»).
(Identificazione parziale: cliente?)
Un soffitto curvo invece di un muro. Diverso dal solito. Ero sdraiata su una superficie imbottita. Avevo sufficiente accesso alla memoria per sapere che era insolito anche questo, e che solitamente “insolito” significava problemi. Altri frammenti ritrovarono coerenza, pur se non nel giusto ordine. Navi di trasporto, Nave, ART. Giusto… Allora non era così insolito. Indossavo vestiti umani invece di una tuta epidermica e una corazza, e quello mi tornava. L’accesso a un altro grumo di connessioni mi permise di associare gli oggetti che avevo sopra la testa come la strumentazione associata a un MedSystem. ART? Cercai di inviare un ping. No, quel ricordo era fuori posto. Avevo riportato Tapan dai suoi amici e avevo lasciato ART.
(«Come ti senti?» mi chiese Ratthi.
L’unico contrassegno a cui posso accedere su Ratthi è un indice parziale che dice “un mio amico umano”. Strano e improbabile, ma la versione pre-catastrofe di me ne sembrava certa, e io non ho nient’altro su cui basarmi. «Bene.»
Probabilmente è ovvio che non sto bene. «Sai dove ti trovi?» mi chiese Ratthi.
Non avevo una risposta. «Prego attendere mentre ricerco l’informazione richiesta» rispose il mio buffer.
«Okay» disse Ratthi. «Okay.»)
Ero in un MedSystem, con il tipo di strumentazione solitamente usata per gli umani o gli umani aumentati che dovevano riprendersi da operazioni mediche complesse. Nel comparto c’erano due portelli, uno aperto e uno chiuso. Mi ci volle un minuto – un minuto vero, dico; la mia velocità di accesso era tremenda – per riconoscere il simbolo sulla porta chiusa: un segno arcaico che stava a indicare il bagno. Oh, be’, fantastico… Un minuto intero per qualcosa di totalmente inutile.
Insomma, quello era un posto per gli umani, non per i robot o le SecUnit. Pensavano che fossi umana? Era un vero stress, non avevo voglia di far finta di essere umana, in quel momento. Ma non avevo né la giacca, né gli stivali. Sui piedi non ho nessuna parte organica, e non hanno l’aspetto di protesi mediche per un umano menomato. E… Oh, giusto, ero in un MedSystem, che avrebbe certamente saputo diagnosticare che il mio era un caso terminale di esistenza da SecUnit.
(«Non voglio fare il robot da compagnia.»
«Non credo che qualcuno possa volere una cosa del genere.»
Era Gurathin. Gurathin non mi piace. «Tu non mi piaci.»
«Lo so.»
Aveva l’aria di pensare che fosse buffo. «Non c’è niente di buffo.»
«Attesterò il tuo livello cognitivo al cinquantacinque per cento.»
«Vaffanculo.»
«Facciamo sessanta.»)
Mi tornò in mente un ricordo: la nave armata della compagnia.
Fui colpita da una fitta di terrore talmente intensa da paralizzarmi.
Ma quelle pareti erano di metallo consunto e graffiato, segnato dagli spettri di installazioni passate. Conclusione: quella non era la nave armata della compagnia.
L’unica cosa buona dell’avere emozioni era che acceleravano il processo di riparazione della mia unità di memoria (la cosa brutta dell’avere emozioni è OH CAZZO, CHE DIAVOLO MI È SUCCESSO?!). Controllai febbrilmente il mio modulo di controllo. Il mio codice era ancora al suo posto. I risultati dalla diagnostica ancora in corso mostravano che anche la mia porta dati non era stata riparata. Quella vampata di paura aveva bruciato tutto il mio ossigeno e dovetti fare un respiro profondo. Trovai le strutture per i codici dei miei firewall e cominciai a riassemblarle.
(«Non voglio essere umana.»
La dottoressa Mensah replicò: «Questa è una posizione che molti umani stenteranno a capire. Abbiamo la tendenza a credere che, siccome un robot o un costrutto ha sembianze umane, il suo obiettivo fondamentale sarebbe quello di diventare umano».
«È la cosa più stupida che abbia mai sentito.»)
Quando caddi a terra scoprii che mi ero concentrata a tal punto sulla mia rigenerazione mnemonica da avergli dato priorità perfino sul codice operativo. Avviai un altro processo di ricostruzione, che non fece altro che rallentare di nuovo tutto quanto. Ma le parti organiche nella mia testa ricordavano come stare in piedi e camminare, e avrei sveltito le cose se avessi fatto re-imparare le cose al resto di me.
Mentre tentavo di camminare raccolsi altre informazioni contingenti: la baia medica era stata inserita in una struttura più vecchia. Vecchie viti e alloggiamenti segnavano ancora quei punti sulla parete della cabina dov’erano state configurazioni precedenti, ora modificate o rimosse. Lungo le pareti erano stati fatti passare grossi cavi, poi morsettati perché non più necessari. Sulla paratia erano incisi vernice sbiadita e lettere, frasi, nomi. Il pannello di controllo del portellone era talmente vecchio che pensai fosse una piccola installazione artistica.
C’era un grande porto, il che era piuttosto strano, dal momento che in un varco spazio-temporale non c’è niente da vedere.
Sennonché non eravamo in un varco spazio-temporale. Eravamo nello spazio, e ci stavamo avvicinando a una stazione. Non si vedevano altro che punti di luce, ma il ponte di atterraggio stava inviando dati attraverso il canale di comunicazione, consentendo allo schermo della sala di restituire una visuale ravvicinata della stazione (sì, era complicato e strano ma, quando hai una merdosa nave senza feed, questo passa il convento).
Stranamente, una gran parte della stazione era progettata per assomigliare a una gigantesca nave di vecchia generazione, con… Oh, aspettate… Quella era una gigantesca nave di vecchia generazione, con un più convenzionale anello di transito costruito a partire dalla baia di carico. Era vecchia e brutta ma non era come Milu: c’erano un sacco di navi da trasporto e altre navi più piccole all’attracco. Mi estesi cautamente oltre i firewall e intercettai l’orlo del feed di una stazione.
«Sai dove siamo adesso?» chiese la dottoressa Mensah.
Per lei, casa era un pianeta. Lo sapevo perché ci avevo spedito delle schede di memoria, indirizzate alla sua famiglia. Schede di memoria di grande importanza. Schede di memoria che per poco non ci facevano ammazzare. «Non mi piacciono i pianeti» dissi. «Sono pieni di polvere e agenti atmosferici, e c’è sempre qualcosa che vuole mangiarsi gli umani. E dai pianeti è molto più difficile fuggire.»
«Mi pare sia un sì» disse Gurathin, alle sue spalle.
La nave non aveva telecamere, perciò non potevo vedere nessuno. No, un momento… Potevo usare i miei occhi.
«Stiamo arrivando alla Stazione di Transito di Preservation» disse Mensah. «Sai cos’è successo?»
«Ho avuto un errore fatale. Credo sia ovvio.»
Mensah annuì. «Ti sei estesa troppo in là nel tentativo di contrastare il codice nemico a bordo della nave della compagnia. Te lo ricordi?»
Mi pareva di sì, ma non volevo parlarne. «Perché questa nave è così vecchia e merdosa?»
«Ehi» obiettò Ratthi. «Sarà anche vecchia ma non è merdosa. È arrivata su Preservation impacchettata nella baia di carico di una nave molto più grande, quella che poi è diventata la stazione, insieme ai nostri nonni. Be’, non quelli di Gurathin, lui è arrivato dopo.»
«I tuoi nonni erano impacchettati nella baia di carico.» Ero scettica. Ero stata impacchettata in un mucchio di baie di carico e non ci avevo mai visto nessun umano. Non che potessi vedere nelle altre casse di trasporto ma… Insomma, ci siamo capiti.
C’era una specie di sorriso nel tono di Mensah. Mi ricordavo quel suono. «Erano all’interno di moduli di sospensione, perché il viaggio durò quasi duecento anni. Erano rifugiati da una colonia mondo andata in rovina, ed era l’unico modo per fuggire. Quando giunsero nel sistema di Preservation, riuscirono a costituire un’alleanza con altri due sistemi colonizzati poco prima da navi di rifugiati simili a loro. Quando le navi di Corporation Rim hanno scoperto della nostra esistenza, i nostri nonni rifiutarono il loro aiuto, conservando così la propria indipendenza.»
Trovai una cartella di dati archiviati su Preservation. Certo, il mio status in un posto del genere era meglio che strumentazione o arma letale, ma avrei comunque dovuto avere un padrone. Ed essere una robot servente felice, o qualcosa del genere. Sarebbe andata proprio bene, come no…
Era possibile che l’avessi detto ad alta voce, o che a un certo punto l’avessi detto ad alta voce, chissà quando, perché la dottoressa Mensah disse: «Nessun altro, su questa nave, sa che sei una SecUnit. Pensano che tu sia una persona con un gran numero di impianti che è stata ferita mentre tentava di aiutarci, e che ti abbiamo portato su Preservation come rifugiata politica».
Io mi voltai e la fissai. Era in piedi accanto a me, Gurathin era seduto su una poltroncina con uno schermo a bolla portatile, Ratthi era sulla panca e Pin-Lee era appoggiata alla parete accanto al portellone (e questa nave è merdosa. Puzza come un paio di calzini umani).
«Quest’ultima parte è vera, tecnicamente» specificò Pin-Lee. «Rientri pienamente nella definizione legale di rifugiata politica.»
«È tutto molto teatrale» aggiunse Ratthi. «L’equipaggio pensa che tu sia un’agente di sicurezza speciale che ha tradito la compagnia per salvare noi.»
Era effettivamente molto teatrale, come il soggetto di una serie storico-avventurosa. Era anche corretto sotto tutti i punti di vista tranne che per i fatti, come il soggetto di una serie storico-avventurosa.
«Ora che hai modificato il tuo aspetto abbiamo più possibilità» disse Mensah. «Ora che sei riuscita a…» Esitò a terminare la frase con un “fingerti umana”. Ricordavo almeno tre conversazioni sull’argomento. «A non dare nell’occhio, diciamo. Voglio lasciare aperte tutte le possibilità finché non ti riprendi del tutto e potrai dirmi cosa preferisci fare.» Mi osservava attentamente. «Quando eravamo a Port FreeCommerce pensavo che avresti avuto bisogno di parecchia assistenza prima di riuscire a integrarti nella società umana. Mi sbagliavo, e mi scuso per questo.»
Mi concentrai su di lei. «Non voglio andare sul pianeta.»
Lei annuì. «Va bene. Puoi restare sulla stazione di transito.»
Mi avevano incastrata, per cui tanto valeva approfittarne al meglio. «In un albergo?»
«Se vuoi.»
«Con un grande schermo.»
Mensah sorrise. «Si può organizzare.»
Nuovi ricordi continuavano a saltar fuori e a incastrarsi al posto giusto, ripristinando anche i collegamenti ai programmi d’intrattenimento immagazzinati precedentemente, il che era una distrazione perché continuavo a escludere il mondo esterno per guardarli. Ma innescavano anche connessioni neurali che acceleravano la ricostruzione delle mie facoltà di calcolo. Quando attraccammo all’anello di transito di Preservation, Mensah e Pin-Lee sbarcarono per prime al fine di distrarre gli umani che ci aspettavano sul molo, tra cui un nugolo di giornalisti provenienti dall’esterno di quel sistema. Quando un membro dell’equipaggio ci diede il via libera, Ratthi e Gurathin mi accompagnarono fuori dalla zona d’imbarco.
Mi portarono in un albergo adiacente al centro amministrativo della stazione, in una delle suite riservate agli ospiti diplomatici. Niente male, anche se il sistema di sorveglianza era del tutto inadeguato. Mi assegnarono delle stanze tutte per me, benché fossero collegate alle suite in cui avrebbero alloggiato gli altri. Era un po’ come un albergo in miniatura all’interno di un grande albergo.
Non mi piaceva.
Tornai nella stanza con un letto e lo schermo e chiusi a chiave la porta. Un’ora dopo, Ratthi bussò al mio feed e trasmise: Abbiamo messo in piedi una piccola rete. Spero ti sia d’aiuto.
Avviai cautamente una ricerca. Avevano installato delle telecamere in tutti i saloni delle suite e i corridoi di collegamento, cosicché potessi vedere tutto.
Ebbi una reazione emotiva complessa. Una nuova scarica di connessioni neurali mi sbocciò nel cervello. Ah, giusto… Mi capita spesso di avere reazioni emotive complesse che non riesco a interpretare con facilità.
Feci qualche aggiustamento al codice per accertarmi che nessuno avrebbe potuto hackerare la nuova rete dall’esterno. Poi sbloccai la mia porta.
Mensah aveva preso alloggio in un’altra parte della stazione, che usava quando si trovava lì per questioni di governo, e una gran parte della sua famiglia era salita per incontrarla ed emozionarsi per il fatto che non fosse morta. Pin-Lee, Ratthi e Gurathin dovevano restare sulla stazione, per il momento, perché negli uffici governativi del centro amministrativo della porta accanto ci sarebbero state parecchie riunioni a cui partecipare. Riunioni su GrayCris, la compagnia e ciò che era successo con Palisade.
Dodici ore dopo il nostro arrivo, Arada e Overse passarono a fare un saluto. A quel punto ero in grado di accedere al mio archivio su di loro e ricordare che: (1) erano clienti, (2) erano una coppia, (3) si piacevano l’un l’altra e (4) gli andavo a genio. Le osservai attraverso la mia rete di telecamere locali per ventitré minuti, poi uscii dalla mia stanza per permettergli di parlare con me. Gli umani ne parvero contenti.
Arada non mi abbracciò, anche se saltellò su e giù e agitò le braccia. Tredici ore più tardi, dopo aver parlato con gli altri, mi disse: «Tra pochi mesi partiremo per un piccolo viaggio di perlustrazione. Si tratta di un sito indipendente esterno a Corporation Rim, per cui non ci sarà nessuna compagnia concessionaria, né… Insomma, non ci dovremo preoccupare di cose del genere. Ci piacerebbe che ci accompagnassi per evitare di farci ammazzare. Non so cosa ti piacerebbe, in cambio…».
«Le piacciono le carte valuta» disse Gurathin. Io lo guardai. Lui mi anticipò: «Darò per buono il gestaccio».
«Dovrete aspettare per parlarne» disse loro Pin-Lee. «Non può sottoscrivere nessun accordo contrattuale finché non completa la ricostruzione mnemonica.»
«Perché?» chiesi io. «Perché così dice la mia proprietaria?»
«No, testa di cazzo» ribatté Pin-Lee. «Perché sono la tua consulente legale.»
Dopo quella conversazione, dopo che gli altri furono andati a dormire, Pin-Lee tornò in camera mia e prese la mia borsa (quando ebbi ricordato la sua esistenza l’avevo controllata e avevo constatato che i marcatori d’identità di Wilken e Gerth e le carte valuta che non avevo ancora usato erano ancora al loro posto). «Tecnicamente è illegale» disse Pin-Lee, «perciò non farne parola con nessuno.» E mi ficcò nella borsa tre nuovi microchip d’identità e altre carte valuta. «È solo una specie di assicurazione nel caso qualcosa andasse storto» mi disse. «I documenti li ha fatti Gurathin, e queste carte valuta sono quelle che avevano dato a me e Ratthi per il viaggio a TranRollinHyfa ma che non abbiamo usato. Su Preservation non esiste un’economia di valuta interna, e queste sono prese dal fondo di viaggio dei cittadini.»
«Perché?» le chiesi.
«Perché voglio che tu sappia che facciamo sul serio, che non sei una specie di prigioniera, o di animaletto da compagnia, o qualsiasi cosa tu possa pensare.» E poi uscì pestando i piedi.
Quando venivano in visita umani che non conoscevo, io mi nascondevo nella mia stanza. Ci passavo comunque un sacco di tempo, anche quando non mi nascondevo, perché il processo di ricostruzione consumava molte risorse. A volte, per tre o quattro ore di fila il massimo che riuscivo a fare era restarmene sdraiata sul letto a guardare programmi locali sullo schermo della stanza.
Ventinove ore dopo il nostro arrivo, Ratthi venne a prendermi perché sullo schermo grande della suite principale stava passando un notiziario e si erano tutti riuniti per guardarlo. C’era anche Mensah. Nel notiziario c’erano un sacco di interviste con diversi umani ma, fondamentalmente, si diceva che la compagnia concessionaria era ancora furiosa per l’aggressione alla nave armata e aveva dichiarato guerra a GrayCris (anche nelle condizioni in cui versavo al momento, sapevo che le cose si sarebbero messe molto male per GrayCris). Erano state coinvolte anche molte altre entità corporative e politiche, per via di tutte le informazioni sulle passate vicende di GrayCris con l’escavazione di materiali sintetici estranei. Il notiziario faceva riferimento ai dati che avevo riportato da Milu e citava intere sezioni dalla scheda di memoria ricattatoria di Wilken e Gerth, che includeva video di agenti e dirigenti di GrayCris in possesso di resti alieni illegali (durante quelle parti guardai un po’ delle mie serie, visto che avevo già visto tutta la scheda).
«Ne siamo usciti, finalmente» disse Gurathin, facendo un gesto disgustato verso lo schermo. «Ora possono scannarsi tra di loro.»
«Non ne usciremo mai, finché dovremo interagire con le corporazioni» disse Mensah. «Ma è comunque un sollievo.»
«Tu che ne pensi, SecUnit?» disse Arada.
Il processo di ricostruzione stava accelerando di nuovo, e all’improvviso non ebbi più risorse per parlare con gli umani. Mi alzai e tornai in camera.
Processo di Ricostruzione Completo, Livello Cognitivo 100%
Trentasette ore dopo il nostro arrivo, mi tirai a sedere sul letto. Dissi ad alta voce: «Che stupidaggine». Ogni cosa era chiara ed evidente. Annotai mentalmente di non balzare mai più nel sistema di una nave armata robotizzata per scontrarmi con un codice costrutto Aggressore. Ti eri quasi cancellata, Murderbot.
Scesi dal letto e feci un rapido controllo generale della suite tramite le telecamere. La maggior parte degli umani era uscita per cena. Overse e Arada dormivano nella stanza di Pin-Lee e Gurathin era seduto nella sua camera, intento a leggere riviste accademiche sul feed.
Presi la borsa, trovai giacca e stivali e me li infilai, poi scivolai fuori dalla suite.
La sicurezza della stazione era più simile a quella di Milu: concentrata in zone dov’era possibile che qualcosa andasse storto, e non negli spazi di lavoro o sulla spianata della stazione. Avevano concentrato gli scanner anti-armamenti intorno ai moli ma c’erano pochissimi droni, la maggior parte dei quali veniva comunque usata per fare piccole consegne. Era stato fatto un grosso sforzo costruttivo nella zona della spianata, con strutture arrotondate costruite per dare l’impressione di essere di legno e con un sacco di piante vere invece di ologrammi, mosaici di piastrelle incastonate nel ponte che illustravano la flora e la fauna dei pianeti del sistema, con dei contrassegni relativi sul feed che approfondivano le informazioni su ogni specie. Come distrazione per gli umani che mi passavano intorno funzionavano alla grande. La gente guardava le piastrelle a terra oppure leggeva il feed, senza notare possibili SecUnit a zonzo.
In nessuno dei notiziari che avevano guardato Ratthi, Pin-Lee e gli altri si diceva che ero lì, e, benché l’articolo proveniente da Corporation Rim dicesse che la SecUnit della dottoressa Mensah era stata coinvolta nella fuga da TranRollinHyfa, avevo fatto talmente un buon lavoro quando mi ero cancellata dai video della sorveglianza che non avevano trovato altre immagini di me se non quelle precedenti la modifica della mia configurazione, su Port FreeCommerce. Un bel problema in meno di cui dovermi preoccupare.
Un’altra cosa che era diversa, in quella spianata, era che la pubblicità via feed era limitata da una restrizione sulla sua portata, per cui gli schermi erano perlopiù all’interno dei negozi. Il che era strano. Da quel che vedevo sul feed c’erano due sistemi finanziari: uno che contemplava l’uso di denaro per i viaggiatori, l’altro basato sul baratto per i cittadini del posto.
Per fortuna, i banconi delle prenotazioni accettavano le carte valuta.
Avevo controllato gli orari delle partenze e dovevo trovare il modo di ammazzare un po’ il tempo, perciò mi diressi in una zona della stazione che era indicata come “Centro di Accoglienza”. Non avevo mai visto una cosa del genere in un porto, prima di allora, ma del resto non l’avevo mai cercata, per cui forse me l’ero semplicemente persa. C’erano vetrine e schermi informativi su tutti i pianeti e le stazioni presenti all’interno di Preservation Alliance. La cupola sopra di me replicava le volte celesti dei diversi pianeti di Preservation, e c’erano umani e umani aumentati in carne e ossa a disposizione per rispondere alle domande di chi avesse voluto stabilirsi lì. Cercando di evitarli, entrai in quel che pensavo fosse un negozio e invece si rivelò essere un teatro.
Non avevo mai visto uno spettacolo teatrale dal vivo, ma solo in qualche programma d’intrattenimento. La storia veniva messa in scena con un ologramma in mezzo alla sala, con grandi poltrone comode tutto intorno, non troppo vicine tra loro. Lo so che era soltanto un grande schermo, però… In quel momento c’era uno spettacolo olografico di tre ore su come fossero arrivati i primi coloni. In pratica, la versione lunga di ciò che Ratthi e Mensah mi avevano raccontato riguardo la grande nave che era fuggita dalla colonia in declino. Era una buona storia, anche se il tono generale era un po’ asettico.
Una volta finito, tornai alla zona d’imbarco e controllai l’attività attorno alle navi di trasporto che avevo contrassegnato. Continuava a non esserci nessun agente di sicurezza.
Comprai un passaggio con una delle carte valuta di Pin-Lee e trovai un’area d’attesa con divanetti e poltrone dove avrei potuto far finta di dormire mentre guardavo i miei programmi e controllavo il feed di sorveglianza della stazione. Ancora niente.
La mia nave passeggeri annunciò le procedure d’imbarco e io non salii.
Controllai l’elenco della stazione e scoprii che Mensah aveva un ufficio nel blocco amministrativo insieme all’Autorità Portuale. C’erano anche i suoi alloggi privati (il che era una pessima idea. Lo so che Preservation si vede come una specie di paradiso umano non corporativo, ma bisogna anche guardare in faccia la realtà). Non avevo comunque intenzione di andare a casa sua, visto che avrei trovato tutta la sua famiglia, per cui mi diressi all’ufficio.
Dovetti superare un po’ di controlli di sicurezza e tre umani aumentati che si fecero distrarre troppo facilmente da finti allarmi di guasti all’equipaggiamento. Era un bell’ufficio, con un balcone che si affacciava sulla piazza antistante l’edificio amministrativo e qualche schermo gigante. Non toccai niente tranne il divano, su cui mi accomodai e rimasi a guardare episodi per altre otto ore.
Avevo messo il feed della stazione in background e continuava a non esserci nessun allarme di sicurezza, nessuna attività insolita intorno alle navi di trasporto passeggeri o ai cargo robotizzati.
Poi percepii Mensah che entrava nell’androne dell’edificio insieme a due umani e a una piccola umana dall’aspetto giovanile che sembrava un po’ una versione di Mensah in miniatura. Mi alzai in piedi e rimasi in attesa.
Entrarono nella stanza e si fermarono di colpo.
«Sono io» dissi.
«Sì, lo vedo.» Mensah serrò le labbra, celando la propria espressione, ma non pareva arrabbiata. Guardò gli altri umani alle sue spalle, poi mi disse: «Dammi solo un momento».
Io uscii sul balcone mentre parlava con loro. Due livelli più sotto c’era una barriera d’aria che proteggeva la piazza – immagino che fosse meglio di niente. Sul pavimento della piazza c’era un grande mosaico circondato da elaborate sculture astratte di piante vere. Umani e robot ci passavano sopra mentre si dirigevano verso gli altri uffici portuali. Dei passi leggeri mi fecero capire che la piccola umana mi aveva seguito all’esterno. Arrivò fino alla balaustra, occhieggiandomi con curiosità. «Ciao» mi disse.
«Ciao» risposi io. «Sono la consulente per la sicurezza da compagnia di tua madre.»
Lei annuì. «Lo so. Mi ha detto che se ti chiedevo il tuo nome, probabilmente non me lo dicevi.»
«Ha ragione.»
Ci fissammo per dieci secondi, poi decise che ero seria. Allora aggiunse: «Ha anche detto che l’hai salvata da un gruppo di sgherri corporativi».
«Non ha detto “sgherri”.» Era un termine arcaico. Lo sapevo senza bisogno di andare a cercarlo perché le nuove stagioni di Avventure nei Sistemi Liberi, che era prodotta in uno degli altri mondi all’interno di Preservation Alliance, era uscita una ventina di ore prima e avevano usato la parola “sgherri”. Ero sicura al novantatré per cento che fosse da lì che l’aveva imparata la piccola umana di Mensah.
«Hai capito che intendo.» Incrociò le braccia. Si era chiaramente aspettata di ricevere più informazioni da parte mia ed era indispettita dal fatto che, a quanto pareva, non le avrebbe ottenute. «L’hai salvata, vero?»
«Sì. Vuoi vedere?»
Lei inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Certo.»
Avevo già estratto il mio video dell’ultima parte della nostra fuga attraverso la zona d’imbarco di TranRollinHyfa – la lotta contro le SecUnit e la SecUnit da combattimento, e la nostra fuga con la navetta. Editai rapidamente il file tagliando i primi piani più truculenti e lo inviai sul suo feed.
Il suo sguardo si fece introspettivo, poi vitreo mentre lo guardava. Col tono di una piccola umana che era rimasta impressionata ma che cercava di non darlo a vedere, disse: «Wow».
«Anche tua madre mi ha salvato. Ha sparato a una SecUnit con una trivella mineraria.»
Finì di guardare il video e mi guardò, aggrottando la fronte. «Quindi sei una SecUnit.» Abbozzò un’alzata di spalle che non capii. «È una cosa… strana?»
Era una domanda complicata con una risposta semplice. «Sì.»
Mensah uscì sul balcone e indicò severamente le poltrone all’interno dell’ufficio. La piccola umana mi salutò con la mano e andò a sedersi dentro. Mensah si appoggiò alla balaustra accanto a me e mi disse: «Temevo te ne fossi andata».
Aveva lo sguardo fisso sulla piazza e io potei guardare un lato del suo viso. «Ci ho pensato.»
Rimase in silenzio per venti secondi, osservando i movimenti nella piazza più sotto. «Hai riflettuto a quello che vuoi fare?»
«Guardare le serie.»
Mensah fece quella faccia con il sopracciglio inarcato che avevo registrato tra le mie note come un: “Lo so che stai cercando di essere divertente ma non sei divertente”. La maggior parte delle volte era riservata a Ratthi e Gurathin. «Penso che, se davvero fosse stato tutto quello che volevi fare, saresti da qualche parte a farlo, e non saresti mai andata su Milu.»
«Ho guardato un sacco di serie mentre andavo verso Milu.» Non era propriamente una confutazione, ma pensai che fosse importante da sottolineare.
«Gurathin mi ha mostrato il video che hai condiviso con lui.» Intendeva dire il video della nave passeggeri con Ayres e gli altri. «Stavi aiutando quelle persone.»
«Non potevo aiutarle. Avevano un contratto di lavoro forzato.»
Dalla sua reazione capii che sapeva esattamente di cosa stessi parlando. «In tal caso, era troppo tardi per aiutarli.» Fece per voltarsi verso di me, poi guardò di nuovo verso la piazza. «Anche se avresti voluto farlo.»
«Sono programmata per aiutare gli umani.»
Inarcò di nuovo il sopracciglio. «Non sei programmata per guardare le serie.»
Non aveva tutti i torti.
«Il motivo per cui te lo chiedo» continuò «è che hai ricevuto un’offerta di lavoro da parte di GoodNightLander Independent.»
Okay. Questa sì che era una sorpresa. «Vogliono comprarmi? Credevo fosse illegale, nei territori in cui operano.»
«È illegale possedere una SecUnit» mi corresse Mensah. «Loro però vogliono assumere qualcuno che potrebbe o meno chiamarsi Rin, che sospettano trovarsi da qualche parte all’interno di Preservation Alliance e il cui status di cittadinanza verrebbe considerato immateriale.» Sorrise. «Credo che l’abbiano posta in questo modo.»
Io non riuscivo a crederci. «Vogliono assumere una SecUnit?»
«Vogliono assumere la persona che ha salvato la loro squadra di rilevamento dai robot da combattimento e dai sicari, e non gli importa cosa sia quella persona.» Mi guardò di nuovo. «Ho anche parlato con la dottoressa Bharadwaj. Vuole che ti chieda di considerare l’ipotesi di rendere pubblica la tua storia. Non per i notiziari, ma come parte di un resoconto documentaristico. Da un po’ di tempo si è creato un piccolo movimento, all’interno di Preservation Alliance, che preme per il riconoscimento della piena cittadinanza per costrutti e robot di primo livello. Lei crede che un resoconto completo della tua situazione in prima persona potrebbe essere un importante contributo. Quand’anche tutto ciò che volessi fare fosse acconsentire a pubblicare il messaggio che mi hai inviato prima di lasciare Port FreeCommerce, come parte dei documenti di pubblico dominio sull’incidente di GrayCris, sarebbe comunque d’aiuto. Vorrebbe parlarne con te, se pensi che sia una cosa che puoi prendere in considerazione.»
Uhm… Forse avrei dovuto essere sconcertata. Era un’idea terribile. Era un’idea terribilmente allettante. «Un documentario sul feed d’intrattenimento?» chiesi.
Mensah annuì. «Te lo ripeto, non c’è nessuna fretta. Voglio solo farti sapere che hai già diverse opzioni, e mi aspetto che tu riceva altre offerte per i tuoi servizi come consulente per la sicurezza. E che qui hai degli amici con cui poter discutere di ciò che vuoi – qualsiasi cosa deciderai di fare, o dovunque deciderai di andare.»
Avevo delle opzioni tra cui scegliere e non dovevo per forza decidere subito. Il che era un bene, perché ancora non sapevo cosa volessi veramente.
Forse, però, avevo trovato un posto dove stare finché non l’avessi capito.