3

Mi svegliai di soprassalto quattro ore dopo, con l’avviarsi del mio ciclo di ricarica automatica. Il bot disse subito: È stata una reazione terribilmente infantile.

«Che ne sai, tu, dell’infanzia?» Adesso ero ancor più infastidita, perché aveva ragione. Lo spegnimento e il tempo che avevo trascorso inerte avrebbe scoraggiato o distratto un umano; la nave aveva semplicemente aspettato di riprendere il discorso.

Tra i miei passeggeri si annoverano insegnanti e studenti. Ho accumulato diversi esempi d’infantilismo.

Io me ne rimasi lì, immusonita. Avrei voluto riprendere a guardare una serie ma sapevo che il bot l’avrebbe scambiata per una sconfitta, come se avessi accettato l’inevitabile. Da tutta una vita, perlomeno le parti che potevo ricordare, non avevo fatto altro che accettare l’inevitabile. Ero stufa.

Siamo amici, ora. Non capisco perché tu non voglia parlarmi dei tuoi progetti.

Era una frase sorprendente e terribilmente irritante. «Non siamo amici. La prima cosa che hai fatto quando siamo partiti è stata minacciarmi» sottolineai.

Dovevo accertarmi che non avresti tentato di farmi del male.

Notai che aveva parlato di tentativo e non di intenzione. Se gliene fosse importato qualcosa delle mie intenzioni non mi avrebbe fatto salire a bordo, tanto per cominciare. Gongolava nel mostrarmi che era più potente di una SecUnit.

Non che sbagliasse a parlare di tentativo. Mentre guardavamo gli episodi, ero riuscita a fare un’analisi del bot usando gli schemi del suo stesso feed pubblico insieme alle specifiche di trasporti simili che avevo trovato nelle sezioni ad accesso libero della sua banca dati. Avevo escogitato ventisette modi diversi di renderlo inattivo e tre modi per farlo saltare completamente. Ma uno scenario di sicura distruzione reciproca non mi allettava particolarmente.

Se fossi riuscita a superare quella fase indenne, avrei dovuto fare in modo di trovare un passaggio su un cargo più simpatico e molto più stupido.

Non gli avevo ancora risposto, e ormai avevo capito che la cosa lo infastidiva. Ti avevo chiesto scusa, mi disse. Io continuai a non parlare. Il mio equipaggio mi considera sempre degno di fiducia, aggiunse.

Non avrei dovuto fargli vedere tutti quegli episodi di Saltamondi. «Io non faccio parte del tuo equipaggio. Non sono un’umana. Sono un costrutto. Costrutti e bot non possono fidarsi gli uni degli altri.»

Rimase in silenzio per dieci preziosi secondi, anche se dal picco di attività nel suo feed capivo che stava facendo qualcosa. Mi resi conto che doveva essere in cerca di un modo per confutare la mia affermazione consultando le sue banche dati. Poi mi chiese: Perché no?

Avevo passato tanto di quel tempo a far finta di essere paziente con gli umani che mi facevano domande stupide che avrei dovuto saper mostrare più autocontrollo. «Perché dobbiamo entrambi seguire gli ordini degli umani! Un umano potrebbe ordinarti di cancellare la mia memoria. Un umano potrebbe ordinarmi di distruggere i tuoi sistemi.»

Pensavo che avrebbe replicato che non ero in grado di fargli del male, il che avrebbe fatto degenerare l’intera discussione.

E invece mi disse: Non ci sono umani, qui, adesso.

Mi resi conto che ero stata intrappolata in un’impasse logica, e che il bot aveva fatto finta di aver bisogno di una spiegazione per far sì che articolassi quel pensiero ad alta voce, ma a mio beneficio. Non sapevo con chi fossi più irritata, se con me stessa o con lui. Anzi, no, ero sicuramente più irritata con lui.

Rimasi lì seduta per un po’, col desiderio di mettermi a guardare un programma qualsiasi, piuttosto che rimuginarci su. Percepivo il bot nel feed, in attesa, che mi osservava con tutta la sua attenzione, a eccezione della frazione necessaria a mantenere la rotta.

Aveva davvero importanza che lo sapesse? Avevo forse paura che, sapendolo, avrebbe cambiato l’opinione che aveva di me (per quel che ne sapevo, la sua opinione era già piuttosto negativa)? M’importava davvero cosa pensava di me una stupida nave di ricerca?

Non avrei dovuto farmi quelle domande. Sentii un’ondata d’indifferenza che stava per travolgermi ma sapevo che non potevo permettermelo. Se avevo intenzione di perseguire il mio piano, così come l’avevo immaginato, dovevo fare attenzione. Se lasciavo spazio all’indifferenza, chissà dove sarei finita. Magari a scroccare passaggi a stupidi trasporti robotizzati e a guardare serie finché qualcuno non mi avesse acciuffato e non mi avesse rivenduto alla compagnia, probabilmente, o non mi avesse fatto fuori per espiantare le mie parti organiche.

«Più o meno trentacinquemila ore fa» dissi «fui assegnata a un contratto sulla Stazione Mineraria Q di RaviHyral. Durante l’incarico persi il controllo e uccisi buona parte dei miei clienti. I miei ricordi di quell’incidente sono stati parzialmente cancellati.» Le formattazioni di memoria delle SecUnit erano sempre parziali, per via delle parti organiche presenti nel nostro cervello. «Ho bisogno di capire se l’incidente sia avvenuto per via di un malfunzionamento del mio modulo di controllo. Penso che sia andata così, ma ho bisogno di esserne certa.» Esitai. In fondo, però, al diavolo… Quello sapeva già tutto il resto. «Devo sapere se invece sono stata io a hackerare il mio modulo di controllo proprio per provocare l’incidente.»

Non so cosa mi aspettassi. Sapevo che ART (alias Astronave Rompipalle di Trasporto) era più affezionato al proprio equipaggio di quanto non lo fossero le SecUnit ai propri clienti. Se non si fosse sentito così nei confronti degli umani che trasportava e con cui lavorava, non si sarebbe innervosito tutte le volte che succedeva qualcosa ai personaggi di Saltamondi. E io non avrei avuto bisogno di mettere un filtro per evitare tutti i programmi ispirati a fatti realmente accaduti in cui capitava qualcosa di brutto agli equipaggi umani. Sapevo cosa si provava, perché era così che mi ero sentita io nei confronti di Mensah e di PreservationAux.

Perché ti hanno cancellato l’incidente dalla memoria?, mi chiese.

Non era la domanda che mi aspettavo. «Perché le SecUnit sono costose e la compagnia non aveva voglia di perdere più soldi di quanto non avesse già fatto, con me.» Avrei voluto glissare. Avrei voluto dire qualcosa di talmente offensivo che mi avrebbe lasciato in pace. Soprattutto, volevo smetterla di pensarci e volevo poter guardare Sanctuary Moon. «O li ho uccisi per via di un malfunzionamento e poi ho hackerato il modulo di controllo, oppure ho hackerato il modulo di controllo per poterli uccidere» dissi. «Sono le uniche due possibilità.»

Sono tutti così illogici, i costrutti?, chiese l’Astronave Rompipalle di Trasporto con le immense capacità di analisi a cui avevo dovuto tenere la metaforica manina perché era stata emotivamente compromessa da una serie inventata. Prima che potessi farglielo notare, aggiunse: Non sono le prime due possibilità da considerare.

Non avevo idea di cosa volesse dire. «E va bene. Quali sono le prime due possibilità da considerare?»

Che sia successo, oppure che non sia successo affatto.

Dovetti alzarmi e fare due passi.

Ignorandomi, ART continuò. Posto che sia successo: sei stata tu a farlo, oppure una qualche influenza esterna ti ha spinto a farlo? E, se una qualche influenza esterna ti ha spinto a farlo, perché? Chi ha tratto beneficio dall’incidente?

ART sembrava felice di aver esposto con tanta chiarezza il problema. Io non ero sicura di esserne felice quanto lui. «So che avrei potuto hackerare il mio modulo di controllo.» M’indicai la testa. «Il fatto che io l’abbia hackerato è il motivo per cui sono qui.»

Se è stata la tua capacità di hackerare il modulo di controllo a provocare l’incidente, come mai non era stato sottoposto a controlli periodici? Avrebbero individuato la modifica.

Non avrebbe avuto alcun senso hackerare il modulo se poi non fossi stata in grado di ingannare i procedimenti di diagnostica base. Però… Alla compagnia erano tirchi e approssimativi, ma non stupidi. Io ero tenuta all’interno di un centro di smistamento, proprio accanto ai loro uffici. È chiaro che non si aspettavano nessun potenziale pericolo da me.

Hai ragione nel sostenere che sia necessaria un’ulteriore indagine per chiarire completamente l’incidente, disse ART. Come intendi procedere?

Smisi di camminare. Lo sapeva, come intendevo procedere: sarei andata a RaviHyral e avrei cercato informazioni. Nella banca dati della compagnia non c’era niente a cui potessi accedere senza farmi beccare, ma i sistemi su RaviHyral potevano non essere altrettanto protetti. E magari, se avessi visto di nuovo quel posto, era possibile che s’innescasse una qualche scintilla nei miei tessuti neurali umani (non che fossi ansiosa di vederlo succedere). Sapevo che ART stava di nuovo facendo quel giochino in cui mi poneva domande di cui conosceva già la risposta per potermi incastrare e farmi ammettere cose che non volevo ammettere. Decisi di andare direttamente al sodo. «Che vuoi dire?»

Sarai identificata come SecUnit.

Ecco. Quello mi bruciava un poco. «Posso farmi passare per umana aumentata.» Gli umani aumentati sono considerai comunque umani. Non so se esistano umani aumentati che abbiano tanti di quegli impianti da somigliare a una SecUnit. Mi sembra improbabile che un umano possa volere tutti quegli impianti, o che più semplicemente possa sopravvivere al catastrofico danno che ne renderebbe necessaria l’installazione. Ma gli umani sono strani. A ogni modo, non avevo intenzione di lasciar vedere a chicchessia più di quanto non fosse necessario.

Hai l’aspetto di una SecUnit. Ti muovi come una SecUnit. Inviò una serie di immagini sul feed, mettendo a confronto un filmato che mi riprendeva mentre mi muovevo tra i suoi corridoi e le cabine con le registrazioni di vari membri dell’equipaggio all’interno degli stessi spazi. Mi ero rilassata, felice di essermene andata dall’anello di transito, ma non sembravo così rilassata. Sembravo una SecUnit che faceva il suo giro di ronda.

«Non ci ha fatto caso nessuno, sull’anello di transito» dissi io. Sapevo di aver corso un rischio. Ero arrivata fin lì soltanto perché gli umani e gli umani aumentati degli anelli di trasporto commerciale non vedevano mai una SecUnit se non sui feed d’intrattenimento o nei notiziari, dove ci mostravano perlopiù intente ad ammazzare gente, o già in pezzi. Se mi avesse visto qualcuno che aveva già lavorato a fianco di una SecUnit, era molto probabile che mi avrebbe riconosciuta per quel che ero.

ART tirò fuori un elenco di mappe. La Stazione Mineraria Q di RaviHyral era la terza luna, in ordine di grandezza, di un pianeta gassoso gigante. La mappa tridimensionale ruotava su se stessa, mettendo in risalto i vari impianti minerari, i centri logistici e il porto. C’era soltanto un porto. È probabile che in quegli impianti impieghino o abbiano impiegato delle SecUnit. Sarai notata dai supervisori umani che hanno lavorato con quelle SecUnit.

Quanto mi dava fastidio quando aveva ragione. «Non posso farci niente.»

Non puoi alterare la tua configurazione?

Percepivo il suo scetticismo attraverso il feed. «No, non posso. Vatti a guardare le specifiche delle SecUnit.»

Le SecUnit non vengono mai alterate? Scetticismo in aumento. Era ovvio che avesse già estratto e assimilato tutte le informazioni sulle SecUnit presenti nel suo database.

«No. I sexbot vengono alterati.» Perlomeno, quelli che avevo visto io erano stati alterati. Alcuni erano perlopiù Unità Standard con qualche cambiamento, altri erano radicalmente diversi. «Ma viene fatto nei centri di smistamento, nei cubicoli di riparazione. Per fare una cosa del genere avrei bisogno di un’area medica. Una baia completa, non una semplice infermeria.»

Io ho una baia medica completa. Ci si possono fare alterazioni, mi disse.

Vero. Ma anche una baia medica avanzata come quella di ART, in grado di operare senza assistenza migliaia di procedure sugli umani, non doveva disporre della programmazione necessaria all’alterazione fisica di una SecUnit. Sarei forse stata in grado di guidarlo durante l’operazione, ma c’era un grosso problema: se non fossi stata disattivata durante la loro implementazione, le alterazioni alle mie componenti organiche e non organiche avrebbero provocato una catastrofica perdita di funzionalità. «Teoricamente. Ma non posso far funzionare la baia medica mentre subisco alterazioni.»

Posso farlo io.

Non dissi niente. Ripresi a scorrere tra i file d’intrattenimento.

Perché non dici niente?

Ormai conoscevo abbastanza bene ART da sapere che non mi avrebbe lasciata in pace, per cui glielo dissi chiaro e tondo: «Vuoi che mi fidi di te al punto da farti alterare la mia configurazione mentre sono inattiva? Completamente indifesa?».

Ebbe la faccia tosta di mostrarsi risentito. Assisto il mio equipaggio in molte procedure.

Mi alzai, camminai avanti e indietro, fissai la paratia per due minuti buoni, poi eseguii una diagnostica. Alla fine dissi: «Perché vuoi aiutarmi?».

Sono abituato ad assistere il mio equipaggio con analisi di dati su larga scala e numerosi altri esperimenti. Quando sono in modalità di trasporto, trovo frustrante lasciare che le mie capacità restino inutilizzate. Risolvere i tuoi problemi è un interessante esercizio di pensiero laterale.

«Quindi saresti annoiato? E io sarei il giochino migliore che ti è capitato per le mani?» Quando ero nell’inventario della compagnia, avrei dato qualsiasi cosa per ventuno cicli di tempo libero senza nessuno che mi controllava. Non potevo compatire ART. «Se ti annoi tanto, guardati le serie che ti ho dato.»

Sono cosciente che, per te, la posta in gioco sia la tua sopravvivenza come Unità ribelle.

Feci per correggerlo, poi mi bloccai. Non mi vedevo come una ribelle. Avevo hackerato il mio modulo di controllo pur continuando a obbedire agli ordini – o, perlomeno, alla maggior parte degli ordini. Non ero fuggita dalla compagnia; era stata la dottoressa Mensah a comprarmi, legalmente. E, benché avessi lasciato l’albergo senza il suo permesso, d’altro canto lei non mi aveva nemmeno esplicitamente vietato di farlo (sì, lo so che quest’ultima considerazione è un po’ tirata per i capelli).

Le unità ribelli uccidevano i loro clienti umani e umani aumentati. Io… Io l’avevo fatto, una volta. Ma non volontariamente.

Dovevo scoprire se fosse stato un gesto volontario o no.

«La mia sopravvivenza non è in pericolo, se continuo a viaggiare a bordo di navi di trasporto vuote.» E avessi imparato a evitare quelle più stronze, che si divertivano a minacciarmi, a mettere in discussione tutte le mie scelte e a cercare di convincermi a entrare nella baia medica per poter praticare un po’ di chirurgia sperimentale sul mio corpo.

È tutto qui, quello che vuoi? Non vuoi tornare dalla tua squadra?

«Non ho una squadra» replicai, spazientita.

Lui m’inviò un’immagine dal notiziario che gli avevo dato – la foto di gruppo di PreservationAux. Erano tutti in uniforme grigia, sorridenti, in posa per un ritratto di gruppo scattato all’inizio del contratto. Non è questa, la tua squadra?

Non seppi come rispondere.

Avevo passato migliaia di ore a guardare o a leggere di gruppi di umani inventati, e mi piacevano. Poi ero finita con un gruppo di umani veri da proteggere, che mi piacevano, e poi qualcosa aveva provato a farli fuori e, mentre li proteggevo, avevo dovuto rivelare che avevo manomesso il mio modulo di controllo. Per cui alla fine me n’ero andata (sì, lo so; le cose erano un po’ più complicate di così).

Cercai di pensare al motivo per cui non volessi modificare la mia configurazione, anche se sarebbe servito a proteggermi. Forse perché era una cosa che gli umani facevano ai sexbot. Io ero un murderbot, dovevo avere standard più elevati…

Non volevo sembrare ancora più umana. Una volta vista la mia faccia umana, nonostante avessi ancora la corazza indosso, i miei clienti di PreservationAux avevano scelto di trattarmi come una persona – e di farmi viaggiare nella sezione riservata all’equipaggio dell’hopper, di farmi partecipare alle loro riunioni strategiche, di parlare con me; dei miei sentimenti. Non potevo sopportarlo.

Ma non avevo più la corazza. La mia nuova armatura doveva essere il mio aspetto, la mia capacità di farmi passare per un’umana aumentata. Che senso aveva, se non potevo muovermi tra gli umani che avevano familiarità con le SecUnit?

Eppure mi sembrava tutto così inutile, e sentii arrivare un’altra ondata d’indifferenza. Perché preoccuparmene? Gli umani mi piacevano; mi piaceva guardarli sul feed d’intrattenimento dove non potevano interagire con me. Al sicuro. Per me e per loro.

Se fossi tornata a Preservation con la dottoressa Mensah e gli altri, lei avrebbe potuto garantire la mia incolumità; ma io ero in grado di garantire la sua incolumità da me?

A ogni modo, alterare la mia configurazione fisica mi pareva una mossa drastica. Ma anche hackerare il mio modulo di controllo lo era stato. E anche lasciare la dottoressa Mensah.

Non capisco perché sia tanto difficile deciderti, disse ART, quasi lamentoso.

Non lo capivo neanche io, ma non avevo intenzione di ammetterlo.

Mi ci vollero due cicli per pensarci su. Non ne parlai più con ART, né parlammo di altro, ma continuammo a guardare file multimediali insieme e il bot aveva dato prova di un autocontrollo che non pensavo possedesse, senza cercare d’innescare ulteriori discussioni.

Sapevo di essere stata fortunata, fino a quel momento. Avevo studiato gli esseri umani in parecchi video mentre ero a bordo della nave che avevo usato per lasciare Port FreeCommerce, confrontandoli con i miei modi di essere e cercando di isolare i fattori che potevano farmi identificare come SecUnit. Il comportamento più facilmente individuabile era il movimento incessante. Umani e umani aumentati passano il peso da una gamba all’altra quando stanno in piedi, reagiscono a suoni improvvisi e luci forti, si grattano, si sistemano i capelli, si guardano nelle tasche o nelle borse per controllare la presenza di cose che sanno già essere lì.

Le SecUnit non si muovono. Per impostazione predefinita, noi restiamo in piedi immobili e fissiamo ciò a cui stiamo facendo la guardia. Questo è in parte dovuto al fatto che le nostre parti non organiche non hanno bisogno di movimento come le parti organiche. Più che altro, però, è perché non vogliamo attirare l’attenzione. Un movimento insolito potrebbe far pensare a un umano che c’è qualcosa che non va, provocando ulteriori controlli. E, se ti è capitato un brutto contratto, potrebbe spingere il suddetto umano a ordinare all’HubSystem di usare il tuo modulo di controllo per immobilizzarti.

Dopo aver studiato i movimenti umani avevo scritto qualche riga di codice che, di tanto in tanto, avrebbe stimolato nel mio corpo una serie di movimenti casuali nei momenti in cui restavo immobile; che avrebbe modificato la mia respirazione in reazione ai cambiamenti della qualità dell’aria; che avrebbe variato la mia velocità di camminata, assicurandosi che reagissi fisicamente agli stimoli esterni anziché limitarmi a scansionarli e a prenderne nota. Quel codice mi aveva permesso di attraversare indenne il secondo anello di transito. Ma sarebbe bastato su un anello o un impianto frequentato da umani a cui capitava spesso di vedere o di lavorare con una SecUnit?

Apportai qualche modifica al codice e chiesi ad ART di registrarmi di nuovo mentre mi muovevo tra i suoi corridoi e compartimenti. Cercai di somigliare il più possibile a un’umana. Ero abituata a sentirmi a disagio in compagnia degli umani, per cui presi quella sensazione e cercai di esprimerla nei miei atteggiamenti fisici. Mi sembrava di esserci riuscita piuttosto bene, finché non guardai le registrazioni e le confrontai con i video dell’equipaggio di ART e le mie registrazioni di altre SecUnit…

Ma chi volevo prendere in giro?

La modifica dei movimenti mi faceva apparire più umana ma le mie proporzioni erano esattamente uguali a quelle di tutte le altre SecUnit. Poteva bastare a ingannare chi non mi stava cercando, dal momento che gli umani tendono a ignorare i comportamenti non standard negli spazi pubblici di passaggio. Chiunque fosse stato alla mia ricerca, però, o avesse temuto la presenza di una possibile SecUnit ribelle, non si sarebbe fatto ingannare, e una semplice scansione calibrata su dimensioni, altezza e peso sarebbe bastata a individuarmi.

Era la scelta logica, la scelta ovvia; eppure avrei comunque preferito strapparmi la pelle umana di dosso piuttosto che fare una cosa del genere.

Ma dovevo farlo.

Dopo una lunga discussione, concordammo sul fatto che la modifica più semplice ed efficace sarebbe stata togliere due centimetri di lunghezza tanto alle gambe, quanto alle braccia. Non sembrerà un gran cambiamento, ma significava che le mie proporzioni fisiche non avrebbero più coinciso con quelle delle Unità Standard. Avrebbe influito sul mio modo di camminare, sui miei movimenti. Aveva senso, e a me andava bene.

Poi ART disse che dovevamo anche cambiare il codice di controllo delle mie parti organiche per consentire la crescita dei peli.

La mia prima reazione fu: col cazzo. Avevo già i capelli in testa e le sopracciglia; era un elemento di configurazione che le SecUnit avevano in comune con i sexbot, benché il codice che li controllava mantenesse i capelli corti per impedire che interferissero con la corazza. Il concetto alla base dei costrutti è farci sembrare umani, per non mettere a disagio i clienti con il nostro aspetto (avrei potuto dire alla compagnia che il fatto che le SecUnit siano terrificanti macchine assassine rende gli umani nervosi a prescindere dal nostro aspetto, ma nessuno mi dà mai retta). Il resto del mio corpo però era completamente privo di peli.

Dissi ad ART che stavo bene come stavo, e che altri peli avrebbero soltanto attirato attenzioni indesiderate. Mi rispose che intendeva la peluria sottile e irregolare che gli umani avevano su alcune parti della loro pelle. ART aveva svolto delle analisi, compilando una lista di caratteristiche biologiche che gli umani avrebbero potuto notare a un livello subliminale. La peluria era l’unica caratteristica che potevamo creare modificando il mio codice, e ART sottolineò che avrebbe conferito ai giunti tra le parti organiche e inorganiche delle braccia, delle gambe, del petto e della schiena un aspetto più simile a degli innesti, ossia quelle parti inorganiche che gli umani si fanno impiantare per ragioni mediche o altro. Io gli feci notare che molti umani o umani aumentati si facevano rimuovere i peli dal corpo per questioni igieniche o cosmetiche – e perché, in fondo, a chi diavolo piace avere dei peli addosso? ART ribatté che gli umani non dovevano preoccuparsi di essere presi per delle SecUnit, per cui con i loro corpi potevano fare quel che gli pareva.

Io avrei voluto continuare a discutere, pur di non essere d’accordo con niente di ciò che diceva ART in quel momento; ma sembrava un’alterazione minima in confronto alla rimozione di due centimetri di ossa sintetiche e metallo dalle braccia e dalle gambe, e alla modifica del codice per la crescita delle mie parti organiche intorno a quei punti.

ART aveva un piano alternativo, più drastico, che prevedeva l’impianto di un apparato sessuale, ma io gli dissi che era escluso. Non avevo componenti legati all’attività sessuale e mi piaceva così. Avevo visto gli umani fare sesso sui canali d’intrattenimento e durante le missioni, quando mi si richiedeva di registrare tutto ciò che dicevano e facevano i miei clienti. No, grazie, proprio no. No davvero.

Gli chiesi però di fare un’alterazione alla porta dati che avevo sulla nuca. Era un punto vulnerabile e non volevo perdere l’occasione di porvi rimedio.

Una volta concordata l’operazione, mi ritrovai di fronte al tavolo operatorio. Il MedSystem aveva appena finito di sterilizzarsi e di prepararsi, e c’era un forte odore di antibatterico nell’aria che mi riportava alla mente tutte le volte che avevo trasportato un cliente ferito in una sala simile. Pensai a tutto ciò che poteva andare storto e alle cose orribili che avrebbe potuto farmi ART, se solo avesse voluto.

Come mai questa attesa? È rimasto qualche procedimento preliminare da completare?, mi chiese ART.

Non avevo motivo di fidarmi di lui, se non per il fatto che continuava a voler guardare file multimediali che parlavano di umani a bordo di astronavi e che si agitava quando la violenza diventava troppo realistica.

Sospirai, mi tolsi i vestiti e mi sdraiai sul tavolo operatorio.