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Lə accompagnai dapprima verso gli attracchi delle navette pubbliche, poi oltre quella sezione fino ai moli privati. ART aveva già controllato le tabelle orarie, individuando una navetta che faceva al caso nostro. Era privata, ma la frequenza di andirivieni dall’anello di transito suggeriva che appartenesse a un qualche imprenditore intento a offrire passaggi in cambio di moneta sonante.

Si rivelò essere un’ipotesi fondata: Rami, Maro e Tapan avrebbero potuto lasciare il porto senza farsi scansionare i voucher d’impiego. A quel punto sarebbe forse stato sicuro anche farlə salire su una navetta pubblica, fintanto che non si dichiarasse con troppo anticipo quale avrebbero preso. Un killware non poteva passare via feed per infettare una navetta; c’erano troppe protezioni. Chiunque avesse voluto ucciderci durante l’attracco aveva dovuto caricare il killware direttamente, attraverso una porta dati all’interno della cabina di pilotaggio della navetta.

Ma sono programmata per essere paranoica. Quella navetta privata aveva non soltanto il beneficio dell’anonimato, ma anche un pilota umano aumentato che sarebbe stato pronto a prendere i comandi se qualcosa avesse interferito con il bot di pilotaggio. In più c’era ART, che si stava già arruffianando il suddetto bot e avrebbe tenuto d’occhio la navetta durante il suo breve tragitto (dato che il concetto di ART di arruffianamento era più simile al bullismo, ero già dovuta intervenire una volta per rassicurare il bot di pilotaggio che quel cargo grande e grosso aveva promesso di non fargli del male).

«Non vieni con noi?» chiese Rami, in piedi nella piccola zona d’imbarco. I moli privati erano squallidi e piccoli, in confronto a quelli dell’Autorità Portuale, con grosse macchie sulle paratie di metallo e alcune delle luci nel soffitto roccioso rotte o molto fioche. Sulla passerella di transito sopra di noi circolavano umani e qualche bot, e io tenevo d’occhio entrambi gli accessi tramite le telecamere di sorveglianza. La navetta era già pronta nella sua baia e aveva il portellone aperto, con un piccolo umano aumentato che raccoglieva il denaro accanto alla rampa. Intanto altri sei passeggeri erano già saliti a bordo, e mi ci volle una gran dose di autocontrollo per non spingere a bordo lə mieə clienti.

«Devo ancora fare qualche ricerca, qui» dissi. «Tornerò all’anello di transito una volta che avrò finito.»

«Come facciamo a pagarti?» chiese Maro. «Voglio dire, siamo ancora in grado di permetterci i tuoi servizi, dopo… tutto quanto?» Dopo che hanno provato ad ammazzarci, aggiunse sul nostro feed privato.

«Controllerò il mio profilo sociale sul feed dell’anello» risposi, sentendomi particolarmente in gamba per essermi ricordata che esisteva. «Inviatemi un messaggio lì e vi rintraccerò non appena sarò tornata.»

«È solo che… Lo so che siamo…» Tapan si guardò intorno. Aveva un’espressione tesa e infelice, e con il linguaggio del corpo rasentava la disperazione. «Non possiamo restare qui ma non voglio nemmeno darmi per vinta. Il nostro lavoro…»

«Certe volte, anche se ti fanno un torto, non puoi farci nulla» le dissi. «Puoi solo sopravvivere agli eventi e andare avanti.»

Smisero di parlare e mi fissarono. La cosa mi rese nervosa e passai immediatamente alla visualizzazione tramite telecamere di sorveglianza, per poterci guardare dal lato. L’avevo detto con più enfasi di quanto non intendessi, ma era così che stavano le cose. Non capivo perché avesse avuto un tale impatto su di loro. Forse davo l’impressione di sapere ciò di cui stavo parlando. Forse per via dei due tentativi di omicidio.

Poi Maro annuì, incurvando le labbra in un’espressione cupa. Lei e Rami si guardarono e Rami annuì tristemente. Maro disse: «Dobbiamo tornare dagli altri e capire cosa fare, adesso. Cercare un altro ingaggio».

«Ricominceremo da zero» aggiunse Rami. «L’abbiamo fatto una volta, possiamo farlo di nuovo.»

Tapan sembrava sul punto di protestare ma era troppo depressa per discutere.

Vollero salutarmi e ringraziarmi profusamente, e io lə sospinsi lungo la rampa mentre continuavano a farlo; poi vidi Rami pagare il passaggio con una carta valuta che l’assistente di volo premette su un’interfaccia. Finalmente furono a bordo.

Il portellone si richiuse e il feed della navetta segnalò come concluse le formalità d’imbarco, rimanendo in attesa dell’autorizzazione a sganciarsi. Io tornai all’ingresso e mi diressi verso la passerella di transito. Dovevo prendere un tubo fino alla zona in cui avevano fatto la deviazione e cominciare a cercare Ganaka Pit. Il fatto che lə mieə clienti fossero tornatə in salvo era un sollievo; ma ritrovarmi da sola era strano – lavorare solo per me stessa…

Andai all’ingresso del tubo e salii a bordo della prima capsula disponibile. Ogni capsula conteneva posti a sedere per venti persone, più una sbarra sul soffitto a cui potersi reggere. All’interno della cabina la gravità era regolata per compensare il movimento della capsula. Mi sedetti assieme agli altri sette umani che erano già a bordo. La navetta è partita, m’informò ART. Terrò d’occhio il tuo feed, ma gran parte della mia attenzione sarà sulla navetta.

Trasmisi il mio assenso. Stavo cercando di identificare il motivo per cui mi sentivo così a disagio. Ero intrappolata in uno spazio limitato insieme ad altri umani – vero. Mi mancavano i miei droni – vero. La mia Astronave Rompipalle di Trasporto era troppo impegnata per potermi lamentare con lei – vero. Avevo bisogno di concentrarmi su quello che stavo facendo, per cui non potevo guardare le mie serie – vero. Ma non era soltanto questo. Non avevo fatto un buon lavoro per lə mieə clienti. Avevo avuto l’opportunità di farlo e avevo fallito. In quanto SecUnit, di norma ero responsabile dell’incolumità dei miei clienti ma non avevo l’autorità di prendere l’iniziativa se non per dare suggerimenti e cercare di usare le regolazioni della compagnia integrate nel SecSystem per contrastare la stupidità suicida degli umani e i loro impulsi omicidi. Stavolta invece avevo avuto sia la responsabilità, sia l’autorità, e avevo comunque fallito.

Dissi a me stessa che in fondo erano vivə, pur non avendo recuperato i loro file – cosa che non faceva parte del lavoro per cui ero stata assoldata. Non mi fu d’aiuto.

Scesi dal tubo alla fine del circuito. Era un groviglio di tunnel che, secondo la mappa, portavano a vari altri tubi privati per le cave più distanti. Soltanto pochi umani scesero con me, e si diressero in fondo al tunnel verso l’interscambio più vicino. Io imboccai la direzione opposta.

Passai l’ora successiva a hackerare telecamere e barriere di sicurezza, a scivolare dentro e fuori tunnel completati a metà, molti dei quali recavano cartelli di allarme per la qualità dell’aria. Finalmente ne individuai uno che mostrava vecchie tracce di uso come accesso minerario. Era sufficientemente grande da permettere il passaggio dei bot trasportatori più grossi, e le luci e le telecamere al suo interno erano spente. Mentre mi addentravo al suo interno, scavalcando detriti rocciosi e metallici, percepii il feed pubblico che si perdeva.

Mi fermai e controllai il canale di comunicazione con ART ma trovai solo rumore bianco. Non pensavo che si trattasse di un tentativo deliberato di isolare i miei collegamenti con il resto dell’impianto; avevo già sperimentato quel genere di situazione, e stavolta sembrava diverso. Penso che quel tunnel fosse così in profondità che il canale audio e il feed avevano bisogno di ripetitori di segnale per raggiungere la superficie, e quelli del sito non erano più in funzione. Qualcosa, più avanti, era ancora alimentato, perché il mio feed rilevava delle luci intermittenti – segnali di pericolo automatizzati. Continuai ad avanzare.

Dovetti forzare un’altra barriera di sicurezza ma trovai l’accesso merci per un tubo di trasporto e riuscii ad aprirne la porta scorrevole. All’interno c’era ancora un piccolo tubo passeggeri. Non veniva usato da tempo, quanto bastava da permettere all’acqua e ai rifiuti sparsi sulla moquette di combinarsi, generando un composto scivoloso. Avanzai fino al compartimento di testa, dove si trovavano i controlli manuali d’emergenza. C’era ancora un po’ di carica nelle batterie, anche se non molta. Era stato lasciato lì, dimenticato, a morire lentamente nell’oscurità mentre le ore scorrevano via una dopo l’altra.

Non che mi sentissi particolarmente macabra o altro, eh.

Controllai che non ci fosse ancora qualche blocco di sicurezza attivo, poi lo accesi. Il veicolo tornò in vita con un gemito, si alzò da terra e si avviò lungo il tunnel nell’oscurità, seguendo l’ultimo percorso programmato. Mi sedetti su una panca e aspettai.

Alla fine, il rilevatore del tubo individuò un ostacolo più avanti ed emise un segnale di allarme. Intanto io avevo in pausa cinque episodi di serie diverse, due commedie, un libro sull’esplorazione dei resti alieni di Corporation Rim e una gara di arte multipla da Belal Tertiary Eleven nella lista di cose da vedere, ma stavo guardando l’episodio 206 di Sanctuary Moon, che avevo già visto ventisette volte. Sì, ero un po’ nervosa. Quando il tubo cominciò a rallentare mi alzai in piedi.

Una striscia di luci brillava lungo una barricata di metallo. Erano stati spruzzati dei marcatori fluorescenti che inviavano stringhe di allerta sul mio feed. Pericolo radioattivo, pericolo di caduta massi, pericolo tossico biologico. Feci aprire il portellone di emergenza e saltai giù, sul terreno bitorzoluto. Avevo attivato la scansione per individuare tracce di energia e regolai la vista per riuscire a vedere oltre i marcatori di vernice fluorescente. Tre metri più in là c’era un passaggio, un punto più scuro nel metallo. Era stretto ma non dovetti nemmeno dislocarmi le articolazioni per attraversarlo.

Proseguii a piedi lungo il tunnel fino alla piattaforma che era stata parte dell’accesso per i passeggeri. Più in fondo c’era una doppia porta alta dieci metri, abbastanza grande da consentire il passaggio di veicoli e grandi robot trasportatori, e dei carichi di materiali grezzi. L’accesso per i passeggeri aveva una rampa di carico e scarico ancora aperta e la usai per issarmi sulla piattaforma. Ogni cosa era coperta da un velo di polvere umida che non mostrava tracce recenti. Sulla piattaforma erano ancora impilate le casse sigillate di una consegna di provviste, con i loghi dei vari appaltatori stampati sui lati. Accanto alle casse giaceva un respiratore rotto. Le mie parti umane stavano sperimentando un formicolio gelido per niente piacevole. Quel posto era inquietante. Ricordai a me stessa che la cosa più terribile che era successa lì, probabilmente, ero stata io.

Chissà perché, quel pensiero non mi fu d’aiuto.

Non c’era carica sufficiente per smuovere le porte ma lo sblocco manuale per il portellone dei passeggeri funzionava ancora. Nei corridoi non c’erano nemmeno luci funzionanti ma le pareti erano segnate con marcatori luminosi per guidare il personale in caso di guasto generale. Alcuni erano sbiaditi col tempo, altri emettevano una debole luminescenza. La mancanza di qualsiasi altra attività in feed a parte la vernice di allarme era vagamente disturbante; continuavo a pensare all’habitat di DeltFall ed ero contenta di aver fatto eseguire ad ART quelle modifiche alla mia porta dati.

Seguii il corridoio fino allo snodo centrale dell’impianto. Era un’ampia zona a cupola, buia a parte i marcatori che sbiadivano sul pavimento. Non c’erano resti umani, ovviamente, ma tutto intorno erano sparsi detriti, attrezzi di lavoro, schegge di plastica rotta accanto al pezzo di un braccio di un robot trasportatore. Diversi corridoi si dipartivano in ogni direzione, come grotte scure. Non avevo l’impressione di essere già stata lì, nessuna sensazione di familiarità. Identificai i passaggi che portavano alla cava, poi i corridoi che andavano verso gli alloggi e gli uffici. Da lì si giungeva al deposito degli equipaggiamenti.

Gli sblocchi d’emergenza delle porte sigillate in caso d’interruzione di corrente avevano aperto tutto ma chi era passato a dare una pulita, chiunque fosse stato, aveva richiuso i portelloni e dovetti spostarli a mano uno per uno. Trovai la sala tattica oltre le baie tecniche di manutenzione per i robot trasportatori. Entrai al suo interno e mi bloccai. Nella penombra, tra le rastrelliere vuote e i pannelli mancanti sul pavimento nel punto in cui si trovava il riciclatore, c’erano delle sagome familiari. I cubicoli erano ancora lì.

Ce n’erano dieci, allineati lungo la parete lontana; grandi scatole bianche e lisce, con i marcatori che brillavano fiochi sulle superfici graffiate. Non capivo perché la mia affidabilità di sistema stesse crollando, perché fosse diventato così difficile muovermi. Poi mi resi conto che era perché pensavo che le altre fossero ancora lì dentro.

Era un pensiero del tutto irrazionale, che avrebbe confermato la brutta opinione di ART nei confronti delle facoltà mentali dei costrutti. Non avrebbero mai lasciato lì le SecUnit. Eravamo troppo costose, troppo pericolose per essere abbandonate. Se io non ero rinchiusa in uno di quei cubicoli, intenta a sognare con la parte organica del mio cervello mentre il resto del corpo era inerte e impotente, allora non dovevano esserci nemmeno le altre.

Fu comunque difficile trovare la forza per attraversare la sala e aprire la prima porta.

La brandina di plastica all’interno era vuota, la corrente da tempo staccata. Aprii ogni cubicolo ma erano tutti nella stessa condizione.

Uscii dall’ultimo cubicolo. Avrei voluto nascondermi il viso tra le mani, accovacciarmi a terra e scivolare tra i miei file multimediali ma non lo feci. Dopo dodici lunghi secondi, quell’intensa sensazione si dissolse.

Non sapevo nemmeno perché fossi venuta lì. Dovevo cercare le unità di memoria fisica, i registri lasciati sul posto. Controllai gli armadietti delle armi per vedere se fosse rimasto qualcosa di utile, come un pacchetto di droni, ma erano tutti vuoti. Uno scontro a fuoco aveva lasciato cicatrici annerite sulla parete e, accanto a uno dei cubicoli, c’era un piccolo cratere causato dall’impatto di un proiettile esplosivo. Poi tornai verso gli uffici.

Trovai il centro di controllo dell’impianto. Schermi rotti ovunque, sedie rovesciate, interfacce frantumate sul pavimento; sulla consolle, intatta, c’era ancora una tazza di plastica che aspettava di essere usata. Gli umani non sono in grado di lavorare completamente all’interno del feed con input multipli, come facciamo io e i bot come ART. Alcuni umani hanno interfacce impiantate che glielo consentono, ma non tutti gli umani sono disposti a farsi infilare della roba nel cervello – vai a capire perché –, per cui hanno bisogno di queste superfici su cui poter proiettare immagini per il lavoro di gruppo. E i dischi di memoria dovevano essere lì da qualche parte.

Scelsi una postazione, rimisi a posto una sedia e tirai fuori il piccolo kit di attrezzi che avevo preso in prestito dal magazzino dell’equipaggio di ART e che mi ero portata appresso nella grande tasca laterale dei pantaloni (le armature non hanno tasche – un punto a favore dei comuni abiti umani). Avevo bisogno di una fonte di energia per rendere nuovamente operativa la postazione, ma per fortuna avevo me stessa.

Usai gli attrezzi per aprire una porta sull’arma a impulso che avevo nell’avambraccio destro. Farlo con una mano sola era complicato ma avevo passato di peggio. Usai un pezzo di cavo per connettermi alla presa d’emergenza della consolle, poi la postazione emise un ronzio sordo mentre si accendeva. Non potevo aprire il feed per controllarlo direttamente ma allungai una mano nella proiezione scintillante e ripescai le chiavi di accesso per l’unità di memoria del sistema di sicurezza. Come mi aspettavo, era stato cancellato.

Cominciai a controllare tutte le altre unità, qualora non fossero stati i tecnici della compagnia a cancellare il SecSystem. La compagnia vuole che si registri sempre tutto – il lavoro svolto nei feed, le conversazioni, tutto – per poi poter depredare i dati. Molte di quelle informazioni si rivelano inutili e vengono cancellate, ma il SecSystem deve conservarle fino all’arrivo dei bot per la raccolta dati, per cui capita spesso che il SecSystem rubi un po’ di spazio di memoria inutilizzato agli altri sistemi.

Ed eccoli là, infatti: i file erano stati salvati nello spazio di archiviazione del MedSystem dedicato ai download delle procedure d’emergenza (se il MedSystem avesse improvvisamente avuto bisogno di scaricare una procedura d’emergenza per un paziente, in genere il SecSystem avrebbe tirato via i file per metterli da un’altra parte; a volte, però, non arrivava in tempo e si perdevano interi spezzoni di dati registrati. Se sei una SecUnit e ti piacciono i tuoi clienti, e vuoi tenere la compagnia all’oscuro di qualcosa che hanno fatto o detto – o che tu hai fatto o detto –, questo è uno dei molti modi in cui si possono far scomparire i file in maniera accidentale).

Il SecSystem doveva aver spostato i file appena prima del blackout. C’era un sacco di materiale; scavalcai conversazioni casuali e informazioni sulle operazioni minerarie fino ad arrivare alla fine, poi tornai un poco indietro. Sul feed, due tecnici umani parlavano di un’anomalia, di un codice che non sembrava appartenere a nessun sistema in particolare, ma che era stato comunque installato lì. Stavano cercando di stabilire da dove fosse spuntato e ipotizzavano, con abbondanza di turpiloquio, che l’impianto fosse stato infettato da malware. Un tecnico diceva che avrebbe avvertito il supervisore, che dovevano isolare il SecSystem, e la conversazione s’interrompeva lì, troncando l’ultima parola.

Non era quel che mi aspettavo. Avevo dato per scontato che fosse stato un guasto del mio modulo di controllo a provocare il massacro che la compagnia aveva eufemisticamente definito “incidente”. Ma, in tal caso, come avevo fatto a far fuori altre nove SecUnit, più tutti i robot e gli umani armati che presumibilmente avevano cercato di fermarmi? Mi pareva improbabile. Se le altre SecUnit avevano avuto lo stesso guasto, il problema doveva provenire da una fonte esterna.

Salvai la conversazione nel mio spazio di archiviazione, controllai negli altri sistemi in cerca di qualche file abbandonato ma non trovai niente, poi mi scollegai dalla consolle.

La sala tattica era stata spolpata fino all’osso ma c’erano altri posti in cui cercare. Mi spinsi via dalla consolle.

Mentre attraversavo l’altra porta, notai i fori d’impatto sulla parete, le macchie sul pavimento. Qualcuno – qualcosa – capace di sopportare un quantitativo ingente di danni fisici aveva tentato un’ultima linea di resistenza in quel punto, a difesa del centro di controllo. Allora, forse, non tutte le SecUnit erano state sabotate.

Nel corridoio accanto agli alloggi del personale trovai l’altra sala tattica, quella delle ComfortUnit.

All’interno c’erano quattro sagome che erano chiaramente cubicoli, benché più piccoli.

Tutte le porte erano aperte, i lettini di plastica vuoti. In un angolo c’era spazio per un riciclatore ma nessuna rastrelliera per le armi, e gli armadietti erano tutti diversi.

Rimasi in piedi al centro della stanza. I cubicoli dei murderbot che avevo trovato erano chiusi, non in uso. Il che significava che nessuna delle SecUnit era stata danneggiata e che dovevano essere state tutte di pattuglia, di guardia oppure in sala tattica, probabilmente impalate sul posto a far finta di non guardarsi l’un l’altra. Ma i cubicoli dei sexbot erano aperti, il che significava che erano al loro interno quando era capitata l’emergenza e c’era stato il blackout. Senza corrente è possibile aprire manualmente un cubicolo dall’interno, ma non richiuderlo.

Significava che si erano dispiegate durante l’“incidente”.

Usai di nuovo la carica dell’arma che avevo nel braccio per dare corrente all’unità di memoria di emergenza del primo cubicolo. Non avevo energia a sufficienza per dare corrente a tutto il cubicolo ma la scatola d’immagazzinamento dati serve a conservare traccia degli errori e degli spegnimenti quando qualcosa va storto durante le riparazioni (ci si possono fare un sacco di altre cose, se hai hackerato il tuo modulo di controllo – tipo usarla per conservare i tuoi file multimediali cosicché i tecnici umani non possano scoprirli). Il SecSystem poteva averla usata prima dell’errore fatale.

Era stata usata, sì, ma dalla ComfortUnit, per scaricare i propri dati durante l’incidente.

Erano pieni di lacune e difficili da mettere in ordine, finché non mi resi conto che le ComfortUnit stavano comunicando tra loro.

Rimasi lì per cinque ore e trentatré minuti, a rimettere in ordine i frammenti di dati.

Era stato scaricato un codice per le ComfortUnit da un altro impianto minerario, apparentemente una patch acquistata da un fornitore di terze parti. Le ComfortUnit l’avevano tutte segnalato come non conforme e sottoposto a revisione da parte del SecSystem e del sistemista umano, ma i tecnici che l’avevano scaricato avevano dato comunque l’indicazione di installarlo. Era saltato fuori che si trattava di un malware ben mascherato. Non aveva toccato le ComfortUnit ma aveva, in compenso, usato i loro feed per aggredire il SecSystem e infettarlo. Il SecSystem aveva a sua volta infettato le SecUnit, i bot e i droni, e ogni cosa capace di movimento autonomo all’interno dell’impianto aveva perso la testa.

Tra il tumulto, gli spari e le grida degli umani in sottofondo, le ComfortUnit erano riuscite ad analizzare il malware e a scoprire che sarebbe dovuto passare da loro ai robot trasportatori, per spegnerli. La cosa avrebbe dovuto intralciare le operazioni per consentire agli altri impianti minerari di far giungere per primi i loro carichi alle navi cargo. Si era trattato di un tentativo di sabotaggio, non di omicidio di massa. E invece era stato un massacro.

Gli umani erano riusciti a trasmettere l’allarme al porto ma era chiaro che gli aiuti non sarebbero arrivati in tempo. Le ComfortUnit avevano notato che le SecUnit non agivano di concerto e si attaccavano l’una con l’altra, mentre i robot si schiantavano a caso su qualsiasi cosa si muovesse. Avevano quindi deciso che resettare il SecSystem e riportarlo alle impostazioni di fabbrica via interfaccia manuale fosse la cosa migliore da fare.

Le ComfortUnit sono fisicamente più possenti di un umano, ma non di una SecUnit o di un robot. Non hanno armi integrate e, pur potendo imbracciare un’arma a proiettile o a energia diretta e usarla, non avevano moduli formativi sul funzionamento di quelle armi. Potevano prenderne una, provare a mirare, premere il grilletto e sperare che la sicura fosse disinserita.

I download dei feed s’interrompevano uno dopo l’altro. Una unità aveva segnalato che avrebbe provato a distrarre le SecUnit, e le altre tre ComfortUnit avevano acconsentito. Una aveva udito delle grida provenire dal centro di controllo e si era diretta lì per cercare di salvare gli umani intrappolati, e le altre due avevano acconsentito. Una era rimasta all’ingresso di un corridoio per cercare di guadagnare il tempo necessario a raggiungere il SecSystem, e l’altra aveva acconsentito. L’ultima aveva riportato di aver raggiunto il SecSystem, poi più niente.

Registrai un’allerta di livello di carica ridotto dal mio sistema e mi resi conto di quanto tempo avessi passato lì dentro. Mi scollegai dal cubicolo e lasciai la stanza. Nell’uscire, intruppai sullo stipite della porta e sulla parete.

Doveva esserci stato un qualche accordo sottobanco; forse l’impianto che aveva inviato il malware aveva risarcito danni e collaterali, che potevano essere stati talmente ingenti da giustificare il fallimento della società appaltatrice e l’interruzione delle attività. Magari la compagnia aveva pensato che fosse una punizione sufficiente.

Tornai al tubo, risalii a bordo e avviai un ciclo di ricarica. Una volta raggiunto un livello sufficiente, feci ripartire l’episodio 206 di Sanctuary Moon.

Il tubo esaurì le batterie e si spense poco prima dell’arrivo ma, fortunatamente, a quel punto ero tornata al novantasette per cento di carica. Scesi dalla capsula e percorsi il resto del cunicolo a passo di corsa. Correre, per me, non è faticoso come per un umano, ma comunque raggiunsi l’accesso sigillato cinquantotto minuti più tardi di quanto non avrei fatto a bordo del tubo.

Era stato un lungo ciclo del cazzo, ed ero più che pronta a lasciarmelo alle spalle. Avevo una gran voglia di andarmene da quella miniera, probabilmente tanto quanto la prima volta che ci ero stata.

Dopo aver riattraversato la barriera di sicurezza, mentre risalivo per il tunnel agganciai di nuovo il feed. Mandai un colpetto ad ART per fargli sapere che ero tornata.

Abbiamo un problema, mi disse lui.