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Dopo aver hackerato il mio modulo di controllo sarei potuta diventare un’efferata macchina assassina, poi però mi sono accorta che avevo accesso ai segnali combinati di tutti i canali di intrattenimento caricati sui satelliti aziendali. Da allora sono passate ben più di 35.000 ore o giù di lì, senza grandi efferatezze ma con tipo… Non saprei… Probabilmente poco meno di 35.000 ore tra film, serie tv, libri, giochi e musica. Come efferata macchina assassina ero un totale fallimento.
Continuavo però a fare il mio lavoro, stavolta con un nuovo contratto, e speravo che il dottor Volescu e la dottoressa Bharadwaj si spicciassero a portare a termine i loro rilievi per tornare presto all’habitat e gustarmi la trecentonovantasettesima puntata di Ascesa e declino di Sanctuary Moon.
Lo ammetto: ero piuttosto distratta. Fino a quel momento si era rivelato un incarico noioso, e stavo pensando di mettere in background il feed di allarme per provare ad accedere ai contenuti musicali del canale d’intrattenimento senza che l’HubSystem registrasse quell’attività insolita. Farlo in missione era più complicato che all’interno dell’habitat.
Quella zona di prospezione era una striscia brulla di cordone litoraneo, con basse colline pianeggianti e ondulate, un’erbaccia nera e verdastra che mi arrivava alle caviglie e piuttosto povera in termini di flora o fauna, eccezion fatta per alcune creature simili a uccelli di varie dimensioni e per dei paffuti organismi a fior d’acqua che, per quanto ne sapevamo, erano innocui. La costa era disseminata di grandi crateri spogli, e Bharadwaj e Volescu erano intenti a raccogliere campioni da uno di questi. Il pianeta aveva un anello che, dalla posizione in cui ci trovavamo, dominava l’orizzonte quando si guardava verso il mare. Io me ne stavo a guardare il cielo e a giocherellare mentalmente con il feed quando il fondo del cratere esplose.
Non persi tempo con la chiamata d’emergenza vocale. Cominciai a trasmettere in tempo reale le immagini della mia telecamera integrata alla dottoressa Mensah e saltai nel cratere. Mentre scendevo per la china sabbiosa, sentivo la dottoressa Mensah sul canale d’emergenza che già berciava a chissà chi di far partire subito l’hopper. Erano a una decina di chilometri da noi, al lavoro su un’altra parte dell’isola, per cui non potevano arrivare in tempo per aiutarci.
Ordini contrastanti intasarono i miei feed ma non ci badai. Quand’anche non avessi manomesso il modulo di controllo, il segnale di emergenza aveva la priorità – e anche quello era caotico, con l’HubSystem automatizzato che inviava richieste d’informazione e contemporaneamente cercava di trasmettermi dati che non mi erano ancora utili, mentre Mensah mi girava le coordinate telemetriche dall’hopper. Anche di quelle non avevo bisogno ma erano più facili da ignorare rispetto all’HubSystem, che esigeva risposte e al contempo pretendeva di fornirne.
Nel bel mezzo di tutto quel casino, toccai il fondo del cratere. Avevo delle armi a energia diretta impiantate in entrambe le braccia, ma quella che scelsi di usare era il cannone d’assalto agganciato alla schiena.
Il nemico che era appena emerso dal terreno aveva una bocca grande e grossa, per cui ritenevo giusto usare un’arma grande e grossa.
Strappai via Bharadwaj dalle fauci della bestia e mi ci ficcai dentro, scaricandogli l’arma in gola e poi verso l’alto, dove speravo si trovasse il cervello. Non sono sicura che le cose siano accadute in quell’ordine esatto; dovrei rivedere le immagini della mia telecamera… Sapevo solo che Bharadwaj ce l’avevo io, e non la bestia, che poi era scomparsa giù per il tunnel.
La dottoressa era priva di sensi e perdeva sangue attraverso la tuta da vistose ferite alla gamba destra e al fianco. Riagganciai l’arma all’imbragatura sulla schiena per poterla sollevare con entrambe le braccia. Avevo perso la corazza del braccio sinistro e buona parte della carne sottostante, ma le mie parti non-organiche erano tutte funzionanti. Dal modulo di controllo giunse un’altra stringa di comandi; io la misi in background senza preoccuparmi di decifrarla. In quel momento la priorità era sicuramente Bharadwaj, che non aveva parti non-organiche e non poteva essere riparata con la mia stessa facilità, e mi concentrai principalmente su ciò che il MedSystem stava cercando di comunicarmi attraverso il feed d’emergenza. Prima, però, dovevo tirarla fuori da quel cratere.
Nel frattempo, Volescu era rimasto raggomitolato tra le rocce dilaniate, in preda allo shock – non che non lo capissi. Ero molto meno vulnerabile di lui in quella situazione, e anche per me non era stata una passeggiata di salute. «Dottor Volescu, adesso dobbiamo andare» dissi io.
Lui non reagì. Il MedSystem suggeriva di iniettargli un sedativo e bla bla bla, ma io avevo una mano premuta sulla tuta della dottoressa Bharadwaj per impedire che si dissanguasse mentre con l’altra le sorreggevo il capo e, per quanto potessi impegnarmi, avevo sempre e soltanto due mani. Tirai indietro il casco in modo da mostrargli il mio viso umano. Poteva rivelarsi un errore, se il soggetto ostile fosse tornato per masticarmi un altro po’, perché delle parti organiche della mia testa non potevo proprio fare a meno. Impostai un tono di voce deciso, caloroso e gentile, e ripetei: «Dottor Volescu, andrà tutto bene, okay? Adesso però deve alzarsi e aiutarmi a trasportarla fuori di qui».
Funzionò. Volescu si alzò in piedi e barcollò verso di me, ancora tremante. Gli porsi il fianco buono e gli dissi: «Afferri il mio braccio, va bene? Si regga forte».
Lui riuscì a passarmi un braccio nell’incavo del gomito e io cominciai a risalire il cratere trascinandomelo dietro, tenendo Bharadwaj stretta al petto. Il respiro della dottoressa era affannoso e disperato, e dalla sua tuta non mi arrivava nessun dato. Avevo la tuta lacerata all’altezza del petto, quindi aumentai la temperatura corporea nella speranza che potesse servire a qualcosa. Il feed si era fatto silenzioso; Mensah era riuscita a usare la sua priorità di comando per disattivare tutti gli accessi al feed tranne il MedSystem e l’hopper, e tutto quel che riuscivo a sentire attraverso il canale audio erano gli altri che si zittivano febbrilmente a vicenda.
Il terreno lungo i bordi del cratere era composto da sabbia cedevole e soffice e ciottoli sciolti, ma non avevo subìto danni alle gambe e riuscii ad arrivare in cima con entrambi gli umani ancora in vita. Volescu fece per crollare a terra e io lo trascinai qualche metro più lontano dal bordo, nel caso in cui quell’affare là sotto avesse un raggio d’azione maggiore di quanto sembrava.
Non volevo mettere giù Bharadwaj perché una parte del mio addome aveva riportato danni gravi, e non ero certa di riuscire a sollevarla di nuovo da terra. Riguardai le riprese della mia telecamera e vidi che ero stata perforata da una zanna, o forse un fanone. Intendevo davvero fanone, o c’era un altro termine? Ai murderbot non forniscono moduli educativi decenti su argomenti che non riguardino l’assassinio, e pure quelli sono roba da due soldi. Stavo ancora cercando il termine appropriato nell’unità linguistica dell’HubSystem, quando l’hopper più piccolo ci atterrò poco distante. Richiusi il casco e oscurai la visiera mentre il mezzo si assestava sull’erba.
Disponevamo di due hopper classici: uno di grandi dimensioni, per le emergenze, e quel piccoletto lì che ci trasportava nelle varie zone di prospezione. Aveva tre scomparti: uno più spazioso al centro, per l’equipaggio umano, e due compartimenti laterali più piccoli, per il carico, le provviste e me. Ai controlli c’era Mensah. M’incamminai verso l’hopper, più lentamente di quanto avrei voluto per non lasciare indietro Volescu. Mentre la passerella cominciava ad abbassarsi, dal modulo saltarono fuori Pin-Lee e Arada; io passai al canale audio e dissi: «Dottoressa Mensah, non posso lasciare la presa sulla sua tuta».
Le ci volle un momento per capire quel che intendevo. Poi disse, con urgenza: «Va bene, portala su in cabina equipaggio».
Ai murderbot non viene permesso di viaggiare insieme agli umani, e per entrare avevo bisogno di un’autorizzazione esplicita. Con il mio modulo di controllo manomesso non c’era nulla che m’impedisse di entrare, ma era piuttosto importante non far sapere a nessuno che ero libera, in particolar modo a quelli che avevano in mano il mio contratto – per evitare che distruggessero le mie componenti organiche e smembrassero il resto per farne parti di ricambio, tanto per dirne una.
Trasportai Bharadwaj su per la rampa fino in cabina, dove Overse e Ratthi stavano sganciando in tutta fretta i sedili per farci spazio. Avevano il casco abbassato e il cappuccio tirato indietro, e vidi le loro espressioni orripilate quando si accorsero di ciò che era rimasto del mio torace attraverso la tuta lacerata. Fui felice di aver richiuso il casco.
Ecco perché, in tutta sincerità, preferisco viaggiare con il carico. Quando metti umani e umani aumentati a stretto contatto con un murderbot la situazione crea sempre un certo disagio. O almeno, per me è sempre un disagio. Mi sedetti sul ponte con Bharadwaj tra le braccia mentre Pin-Lee e Arada trascinavano Volescu all’interno.
Avevamo abbandonato due casse di strumentazione e un paio di attrezzi sul campo; erano rimasti lì tra l’erba, dove Bharadwaj e Volescu avevano lavorato prima di scendere nel cratere a raccogliere campioni. Di norma avrei dovuto aiutare a trasportarli dentro, ma il MedSystem, che monitorava le condizioni di Bharadwaj attraverso quel che rimaneva della sua tuta, segnalava chiaro e tondo che lasciarla andare sarebbe stata una pessima idea. Nessuno però disse nulla della strumentazione. Lasciarsi alle spalle oggetti di facile sostituzione può sembrare una scelta ovvia, in caso di emergenza, ma mi erano capitati incarichi in cui il cliente mi aveva ordinato di lasciar perdere l’umano sanguinante per andare a recuperare la roba.
In quell’incarico, fu il dottor Ratthi a balzare in piedi e dire: «Vado a recuperare le casse!».
Io gridai: «No!», cosa che non sarei autorizzata a fare. Si suppone che debba rivolgermi sempre in maniera rispettosa ai clienti, anche quando stanno per ammazzarsi in modo stupido. L’HubSystem avrebbe potuto rilevare l’episodio, attivando un’istanza punitiva tramite il modulo di controllo. Se non fosse stato hackerato. Da me.
Fortunatamente, anche gli altri umani gridarono «No!» nello stesso istante, e Pin-Lee aggiunse: «Ma porca puttana, Ratthi!».
Ratthi si schermì: «Ah, già, non c’è tempo. Scusate!», e attivò la sequenza di chiusura rapida del portellone.
E così non perdemmo la rampa quando il nemico spuntò da sotto, con le fauci piene di zanne, o pseudopodi, o quello che erano, divorando il terreno stesso. Le telecamere dell’hopper catturarono un bel primo piano della bestia, che il sistema ebbe cura d’inviare ai feed di tutto l’equipaggio. Gli umani lanciarono un grido di paura.
Mensah ci fece staccare da terra così bruscamente che per poco non mi piegai in due, e tutti quelli che non erano già sul pavimento ci finirono schiacciati.
Nel silenzio che seguì, mentre tutti tiravano un sospiro di sollievo, Pin-Lee disse: «Ratthi, se ti fai ammazzare…».
«Saresti molto offesa con me, lo so.» Ratthi si lasciò scivolare lungo la parete e le fece un cenno tentennante.
«È un ordine, Ratthi. Non farti ammazzare» disse Mensah dalla postazione di pilotaggio. Sembrava serena; io però ho accesso prioritario alla rete di sicurezza e, dal MedSystem, vedevo il suo battito cardiaco che accelerava.
Arada tirò fuori il kit di emergenza medica per bloccare l’emorragia e tentare di stabilizzare Bharadwaj. Io cercai di rendermi il più possibile simile a uno strumento, premendo sulle ferite nei punti che mi venivano indicati e aumentando la mia temperatura corporea difettosa nel tentativo di tenerla al caldo. Tenni la testa abbassata per non vederli mentre mi fissavano.
AFFIDABILITÀ DI SISTEMA AL 60%, IN DIMINUZIONE.
Il nostro habitat era un modello piuttosto standard: sette calotte interconnesse edificate su uno spazio relativamente pianeggiante poco sopra una stretta valle fluviale, con i sistemi di riciclaggio e i generatori di energia collegati su un fianco. Avevamo un sistema ambientale ma nessun portellone pressurizzato, dal momento che l’atmosfera del pianeta era respirabile benché, alla lunga, non particolarmente salutare per gli umani – non sapevo bene per quale motivo; era una delle cose a cui non avevo l’obbligo contrattuale di interessarmi.
Avevamo scelto quel posto perché era nel centro esatto della zona di prospezione e, benché vi fossero alberi sparsi per tutta la piana, ogni tronco era alto quindici metri o più e particolarmente scheletrico, con un unico strato di fogliame largo, per cui era difficile che un soggetto in avvicinamento potesse usarli come copertura. Ovviamente, tale strategia non teneva in considerazione la possibilità che l’avvicinamento avvenisse per via sotterranea.
L’habitat disponeva di portelloni di sicurezza ma l’HubSystem mi comunicò che l’accesso principale era già aperto al momento dell’atterraggio con l’hopper. Il dottor Gurathin aveva preparato una barella flottante e la guidò fuori, verso di noi. Overse e Arada erano riusciti a stabilizzare Bharadwaj, per cui potei adagiarla sul lettino e seguire gli altri all’interno dell’habitat.
Gli umani si diressero verso l’infermeria e io mi fermai per inviare all’hopper istruzioni di chiudersi ermeticamente, poi serrai le porte esterne. Istruii i droni di allargare il perimetro via feed, per poter avere un maggior preavviso qualora qualcosa di grosso fosse venuto ad attaccarci. Impostai anche delle soglie di monitoraggio sui sensori sismici affinché mi allertassero in caso di anomalia, nel caso in cui quell’ipotetico qualcosa di grosso avesse deciso di passare per via sotterranea.
Dopo aver messo l’habitat in sicurezza, tornai a quella che veniva chiamata la sala tattica della Sicurezza – il luogo in cui venivano stipate armi, munizioni, allarmi perimetrali, droni e tutte le altre attrezzature di sicurezza, me inclusa. Mi spogliai di quel che era rimasto della corazza e, su consiglio del MedSystem, mi spruzzai del cicatrizzante su tutto il fianco danneggiato. Non che me ne andassi in giro gocciolando sangue, perché le mie vene e arterie si sigillano automaticamente, ma non era comunque un bello spettacolo. E faceva male, anche se il cicatrizzante anestetizzava un po’ il dolore. Avevo già impostato un blocco di sicurezza di otto ore tramite l’HubSystem, per cui nessuno sarebbe potuto uscire senza di me, poi mi misi fuori servizio. Controllai il feed principale ma nessuno pareva avere obiezioni.
Mi sentivo congelare, perché i miei controlli termometrici avevano ceduto durante il rientro e la tuta epidermica sotto la corazza era a pezzi. Ne avevo un paio di ricambio, ma indossarne una in quel momento non sarebbe stato né pratico né facile. L’unico altro ricambio che avevo era un’uniforme che non avevo ancora messo, e pensavo di non riuscire a infilarmi nemmeno quella (l’uniforme non mi era servita perché non avevo effettuato pattugliamenti all’interno dell’habitat; nessuno me l’aveva chiesto dal momento che erano soltanto in otto, e tutti amici tra loro; sarebbe stato uno stupido spreco di risorse – ossia di me). Rovistai con una mano all’interno della cassetta deposito finché non trovai il kit medico per umani che mi era concesso usare in caso di emergenza; l’aprii e tirai fuori la coperta termica. Mi ci avvolsi ben bene, poi mi arrampicai sulla brandina di plastica rigida del mio cubicolo. Mentre si accendeva una luce bianca, lasciai che la porta si richiudesse da sé.
Non faceva granché più caldo, lì dentro, ma perlomeno era accogliente. Mi collegai per il rifornimento e le procedure di riparazione, poi mi appoggiai alla parete e rabbrividii. Il MedSystem m’informò sollecito che la mia affidabilità di sistema era al cinquantotto per cento, in diminuzione, il che non era una sorpresa. Otto ore sarebbero sicuramente bastate per rimettermi in sesto e probabilmente far ricrescere la maggior parte delle mie componenti organiche danneggiate, ma al cinquantotto per cento di operatività dubitavo di poter svolgere qualsiasi tipo di analisi, nel frattempo. Impostai quindi tutti i feed di sicurezza in modalità allarme, nel caso in cui qualcosa avesse provato a mangiarsi l’habitat, e cominciai a setacciare l’archivio di video e musica che avevo scaricato dal feed d’intrattenimento. Il dolore era troppo intenso per riuscire a seguire il filo di una storia, ma quel sottofondo amichevole mi avrebbe tenuto compagnia.
Poi qualcuno bussò alla porta del cubicolo.
Io la fissai allibita e persi il filo dei miei dati così ben ordinati. Come un’idiota, risposi: «Ehm, sì?».
La dottoressa Mensah aprì la porta e sbirciò all’interno. Non sono brava a indovinare l’età degli umani, nonostante tutto l’intrattenimento visivo che consumo. La gente, nelle serie, di solito non somiglia granché alla gente nella vita reale, perlomeno non nei programmi migliori. Mensah aveva la pelle scura e i capelli castano chiaro, tagliati molto corti, e immagino che non dovesse essere giovane, altrimenti non sarebbe stata al comando. «Stai bene?» mi chiese. «Ho visto il tuo rapporto di stato.»
«Uhm…» A quel punto mi resi conto che non avrei dovuto rispondere, fingendo di essere in stasi. Mi tirai la coperta al petto, sperando che non avesse visto i pezzi mancanti. Senza la corazza a tenere tutto insieme, la situazione era decisamente peggiore. «Bene, sì.»
Lo ammetto: con gli umani in carne e ossa sono a disagio. Non è paranoia per il mio modulo di controllo hackerato, e non è colpa loro; sono proprio io. So di essere una terrificante macchina assassina, lo sanno loro, e la cosa ci rende tutti nervosi – il che mi rende ancora più nervosa. Inoltre, se non indosso la corazza vuol dire che ho subìto dei danni e che una delle mie parti organiche potrebbe staccarsi e spiaccicarsi a terra in qualsiasi momento; a nessuno farebbe piacere assistere a uno spettacolo del genere.
«Bene?» Si accigliò. «Il rapporto dice che hai perso il venti per cento della tua massa corporea.»
«Ricrescerà» risposi io. So bene che agli occhi di un umano potevo sembrare in punto di morte. Per un umano, le mie ferite erano l’equivalente della perdita di un arto o due, più gran parte della dotazione ematica.
«Lo so, però…» Mi scrutò per un lungo istante, talmente lungo che ebbi il tempo di sbirciare sul feed della mensa, dove i membri del gruppo rimasti illesi si erano ritrovati a parlare intorno al tavolo. Stavano discutendo la possibilità che ci fosse altra fauna sotterranea, lamentando la mancanza di alcolici. Tutto nella norma. Mensah continuò: «Sei stata davvero brava con il dottor Volescu. Non credo che gli altri si siano resi conto… Sono rimasti molto impressionati».
«Tranquillizzare le vittime fa parte delle istruzioni di emergenza medica.» Mi strinsi addosso la coperta per evitare che si vedesse qualcosa di brutto. Sentivo colare qualcosa più in basso.
«Sì, ma il MedSystem dava priorità a Bharadwaj e non aveva controllato i segni vitali di Volescu. Non aveva preso in considerazione lo shock di quella situazione e si aspettava che fosse in grado di abbandonare autonomamente il campo.»
Dal feed risultava chiaro che gli altri avessero rivisto le riprese della telecamera di Volescu. Stavano dicendo cose tipo: “Non sapevo nemmeno che avesse una faccia”. Ero rimasta in armatura fin dall’arrivo e non avevo mai aperto il casco quando ero insieme a loro. Non c’era un motivo specifico. L’unica parte di me che potevano aver visto era la mia nuca, ossia una generica nuca umana. Ma loro non volevano parlare con me, e io di certo non volevo parlare con loro; in servizio mi avrebbe distratto, e fuori servizio… Non ci volevo parlare. Mensah mi aveva visto quando aveva firmato il contratto di noleggio. Ma mi aveva a malapena degnata di un’occhiata e io l’avevo a malapena degnata di uno sguardo, perché, ripeto: murderbot + umani in carne e ossa = disagio. Restare sempre in armatura previene ogni interazione non necessaria.
«Fa parte del mio incarico» dissi, «non dar retta agli input di sistema quando sono… sbagliati.» Ecco a cosa servono le SecUnit ibride, o Unità di Sicurezza dotate di componenti organiche.
Ma lei lo sapeva già. Prima di accettare la mia presenza, aveva inoltrato una decina di proteste nel tentativo di non essere costretta a imbarcarmi. Non gliene facevo una colpa. Non mi sarei voluta nemmeno io.
Sul serio, non so perché non le abbia semplicemente detto “Non c’è di che” e “Per favore, esci dal mio cubicolo così posso starmene seduta a perdere fluidi in santa pace”.
«E va bene» disse lei, e rimase a guardarmi per quelli che, oggettivamente, sapevo essere 2,4 secondi ma che soggettivamente parevano almeno una ventina di insopportabili minuti. «Ci vediamo tra otto ore. Se dovesse servirti qualcosa prima di allora, mandami un avviso sul feed, per favore.» Fece un passo indietro e lasciò che la porta si richiudesse.
Mi chiesi cosa fosse stato a meravigliarli tanto e ripescai la registrazione dell’incidente. Okay… Wow. Avevo parlato a Volescu durante tutta la risalita lungo il cratere. La mia attenzione era principalmente rivolta alla traiettoria dell’hopper, a Bharadwaj – che non perdesse troppo sangue – e a ciò che sarebbe potuto sbucare da quel cratere per un secondo tentativo di attacco; in sostanza, non facevo caso a quel che dicevo. Gli avevo chiesto se aveva dei figli. Sbalorditivo. Forse avevo guardato troppe serie (sì, aveva dei figli. Era in un matrimonio a quattro e ne aveva sette, tutti quanti a casa con i suoi coniugi).
Avevo i livelli troppo alti per un periodo di riposo, per cui decisi che potevo approfittarne per guardare anche le altre registrazioni. Poi trovai qualcosa di strano. C’era un ordine di “annullamento” nella stringa di comando dell’HubSystem – quello che gestiva, o che credeva di gestire, il mio modulo di controllo. Doveva essere un errore. Ma non aveva importanza, perché quando il MedSystem aveva la priorità…
AFFIDABILITÀ DI SISTEMA AL 39%, AVVIAMENTO STASI PER RIPARAZIONE D’EMERGENZA.