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Quando arrivò il tubo di trasporto con gli agenti di GrayCris e la dottoressa Mensah io ero in un modulo di trasferimento, in attesa e pronta.
Le telecamere di sorveglianza dell’albergo mi mostrarono la squadra di GrayCris che usciva dal tubo sulla banchina mentre i passeggeri in attesa si disperdevano. I soggetti ostili indossavano abiti civili ma avevano le armi bene in vista; era ovvio che per loro non si trattasse di un’operazione sotto copertura, quindi significava che la polizia della stazione, come anche la sicurezza dell’albergo, era stata pagata per farli accedere.
E avevano con loro anche una SecUnit corazzata.
Si poteva ancora fare (il mio inaffidabile modulo di valutazione del rischio mi avrebbe probabilmente informata che andava tutto alla grande). Ci fu una pausa mentre la squadra incappava nel feed limitato dell’albergo e incaricava qualcuno di autorizzare il pagamento (immagino che si potesse anche corrompere il management dell’albergo per chiudere un occhio quando arrivavi con una SecUnit e armato fino ai denti per fare uno scambio di ostaggio – ma c’era un limite a tutto, e quel limite era l’accesso gratuito al feed riservato).
La stazione di transito dell’albergo era composta da tre livelli, con un livello aperto sopra la banchina dove si fermava il tubo e uno sotto. In quello sopra, al momento, c’era la proiezione olografica di una tempesta di fulmini, e in quello sotto un susseguirsi di installazioni artistiche viste dall’alto, o perlomeno questo era quel che diceva che stava facendo il feed.
Mi venne un’idea lì per lì, e la misi da parte per dopo.
I soggetti ostili portarono Mensah lungo la passerella della banchina e verso lo snodo del modulo di trasferimento. Mensah non pareva indossare manette o altro, ma quelli di GrayCris erano in sei, più la SecUnit. Due di loro si sganciarono e presero posizione nella stazione di transito. Così rimanevano quattro bersagli più la SecUnit – il mio bersaglio primario.
Le SecUnit che non hanno hackerato il proprio modulo di controllo, come ho fatto io, non sono in grado di hackerare feed e sistemi come so fare io. Be’, potrebbero provarci ma il loro modulo di controllo le punirebbe, il SecSystem o l’HubSystem farebbe rapporto e finirebbero con la memoria cancellata (perciò, se avete intenzione di hackerare il vostro modulo di controllo, dovete farlo bene e riuscirci al primo colpo). L’unità che GrayCris si era portata dietro era una macchina assassina del tutto elementare.
La SecUnit aveva il logo della Palisade sul pettorale. L’armatura era di un marchio proprietario – una configurazione diversa dalle corazze fornite dalla compagnia. Però non c’erano droni (GrayCris avrebbe fatto bene a pagare una mazzetta un po’ più cospicua per farci rientrare anche i droni).
Sì, pensai se fosse il caso di hackerarla. Non avevo mai hackerato un’altra SecUnit. Avevo hackerato una ComfortUnit, ma quella non aveva cercato di impedirmelo. Non potevo permettermi di fare esperimenti. Se ci avessi provato e non ci fossi riuscita, quella avrebbe segnalato la mia presenza e Mensah e gli altri ne avrebbero pagato le conseguenze.
Raggiunsero lo snodo e io ritardai l’arrivo del modulo di trasferimento per guadagnare un po’ di tempo. La SecUnit aveva avviato una scansione in cerca di armi addosso agli umani che erano nella stazione di transito e di attività feed su canali non autorizzati. Io ero troppo in profondità nel feed dell’albergo per essere individuata (se non fossi stata in grado di nascondere le attività del mio feed alle altre SecUnit, mi avrebbero rivenduta per i pezzi di ricambio un bel pezzo prima).
Mi collegai all’impianto di Mensah e inviai un ping al suo feed per metterne alla prova la sicurezza. I bersagli non reagirono in alcun modo, nemmeno il primario. Allora inviai: Salve, dottoressa Mensah. Sono io. Il suo petto si alzò con un respiro brusco e interruppe un movimento appena abbozzato con la testa. Era riuscita a contenere l’urgenza di guardarsi intorno. Un bersaglio le scoccò un’occhiata ma gli altri non ebbero reazioni di sorta. Cerchi di rispondermi senza subvocalizzazioni, aggiunsi.
Lei non rispose per 3,2 secondi, e per tutto quel tempo mi arrovellai se per caso non volesse parlare con me. Un’eventualità del genere avrebbe reso quel salvataggio due volte più imbarazzante.
Poi mi disse: Provami che sei tu. Dimmi come ti chiami.
Okay, non sarebbe stato così imbarazzante. Era un sollievo. Il fatto che si preoccupasse che qualcuno potesse provare a ingannarla con un’impostura nel suo feed mi fece anche capire quanto fosse grave la situazione. Sono Murderbot, dottoressa Mensah.
Quella conversazione era stata eliminata in maniera permanente, perciò nessuno ne sapeva niente se non i membri della squadra di PreservationAux. Sempre che non ne avessero parlato con nessuno. Cosa che Mensah pareva dare per scontata.
Lei mi rispose immediatamente. Cosa ci fai qui? Non eri stata catturata?
Dovevano averle detto così, perché nei notiziari non c’era niente del genere. La disinformazione, che equivale alla menzogna ma che, per chissà quale motivo, ha un nome diverso, è la tattica regina in situazioni di negoziazione/guerriglia intercorporativa (Sanctuary Moon ci aveva ricamato su un episodio intero). Sono qui per aiutarla, le dissi. Per portarla ai moli dove Pin-Lee, Ratthi e Gurathin la stanno aspettando con una navetta della compagnia. È pericoloso, ma meno pericoloso che restare lì dov’è. Mi autorizza a procedere? Lo so, lo so. In qualche modo, quella formalità mi era d’aiuto.
Sì, rispose lei senza pensarci due volte.
Le mandai una conferma di ricezione sul feed, che poi misi in background per potermi concentrare sulla mia relazione con il sistema di sicurezza dell’albergo e con il mio nuovo amichetto, MobSys. Controllai le mappe che mi ero procurata in precedenza. L’operazione doveva svolgersi in quella sezione, in uno degli snodi, perché, una volta entrato nella rete principale dell’albergo, il modulo di trasferimento si sarebbe mosso troppo in fretta. Quand’anche fossi riuscita a trovare le informazioni sulla direzione che aveva imboccato, non sarei mai riuscita a precederlo.
Dividere la mia attenzione tra tutti i feed delle telecamere di sorveglianza che tenevo sotto controllo era complicato, ma non più complicato di quanto non fosse dover dar retta a HubSystem, SecSystem, molteplici feed dei clienti e comandi vocali da parte di umani confusi e impazienti mentre ti godevi una serie. O almeno così mi dicevo io. Non sono sicura che sarei riuscita a farlo prima che tutto il lavoro su Milu mi ampliasse le capacità di elaborazione.
Se avessi combinato un casino… Non potevo combinare casini.
Selezionai quella che il MobSys mi confermava essere la destinazione più comune, la sezione del club dell’albergo. Il mio modulo cominciò a muoversi e, due secondi dopo la partenza, chiesi a MobSys di effettuare una fermata di emergenza e di restare immobili a uno snodo poco trafficato, senza però attivare nessun tipo di allarme all’attenzione di supervisori umani o robotizzati.
Il modulo si fermò con un sussulto. Parte del protocollo di emergenza prevede di reindirizzare qualsiasi modulo diretto verso la zona della chiamata di emergenza. Attraverso il MobSys sentii i moduli dell’intera struttura sgusciare in tutta sicurezza attraverso passaggi alternativi.
Uscii fuori dal modulo e scesi nello snodo. Era una banchina vuota con due corridoi che si allontanavano curvando. Mi accertai che le telecamere di sorveglianza continuassero a riprendere l’immagine di una banchina vuota per altri sei minuti. Poi tirai fuori il fucile dalla borsa, lo caricai e lo tenni in basso, lungo il fianco, rivolto all’indietro.
Dal feed della passerella vidi le immagini di Mensah e dei bersagli che salivano a bordo del loro modulo di trasferimento. Chiesi a MobSys la cortesia di deviare quel modulo fino al mio snodo per ricevere assistenza in quella situazione di emergenza. Mentre quello arrivava, mi portai nella zona di attesa e contattai nuovamente il feed della dottoressa Mensah. Dottoressa Mensah, al mio segnale la prego di volersi buttare a terra, nel modulo, di raggomitolarsi e di coprirsi la testa.
Le porte si aprirono scivolando di lato. I trasferimenti con quei moduli erano così veloci che speravo che gli umani sarebbero rimasti confusi per un paio di secondi, nell’illusione di aver raggiunto la destinazione desiderata. Usai quei due secondi per tagliare il loro collegamento con il feed dell’albergo, poi mi feci avanti come una normalissima, stupida umana che voleva salire a bordo del modulo di trasferimento, facendo attenzione a posizionarmi in un angolo morto per la SecUnit (gli agenti umani mi avevano facilitato la vita facendola restare in piedi sul lato sinistro del modulo invece che davanti, dove avrebbe dovuto essere).
Uno dei bersagli umani fece un passo verso di me (in maniera inutilmente aggressiva; ecco perché gli umani fanno talmente pena come agenti di sicurezza che nemmeno gli altri umani vogliono che siano loro a farlo). «Indietro!» abbaiò. «Questa è un’operazione di sicure…»
Diedi il segnale sul feed di Mensah e lei si gettò a terra. Avevo già il bersaglio gradasso-con-la-cittadina-apparentemente-disarmata a portata di mano. Feci fuoco sulla sua spalla con l’arma a raggio diretto che avevo integrata nel braccio, traendolo a me mentre si accasciava e tirandolo su per farmi da scudo.
Il Bersaglio Primario (l’altra SecUnit) era già in movimento e spinse da un lato due bersagli umani mentre alzava il fucile. Non poteva far fuoco per via del mio scudo umano, e così ebbi un secondo di vantaggio per sparare a bruciapelo tre proiettili perforanti anticarro nelle giunture del collo della sua corazza, poi giù sulle ginocchia (il giunto del collo era per uccidere, le articolazioni delle ginocchia servivano a farla cadere, altrimenti c’era il rischio che la corazza la tenesse in piedi).
Lasciai cadere il fucile perché avevo bisogno di entrambe le mani e scaraventai il mio scudo umano addosso ai due bersagli dalla parte opposta del modulo, con forza sufficiente da sbatterli addosso alla parete. Il quarto bersaglio mi sparò, ma la sua arma a energia diretta produceva un raggio calibrato per mettere fuori combattimento un umano (un umano in salute, perlomeno) senza ammazzarlo. Non fece altro che infastidirmi. Afferrai il braccio della donna e la tirai a me, la girai in modo che la sua arma fosse puntata verso gli altri due bersagli che ancora cercavano di rialzarsi, e le feci far fuoco cinque volte. Quelli crollarono a terra, io le spezzai il braccio (era abbastanza rapida da rappresentare una potenziale minaccia futura) e poi le premetti l’arteria per farle perdere i sensi.
Mentre l’accompagnavo a terra, Mensah si alzò in piedi e barcollò. Credo che fosse stata colpita da uno stivale. «Andiamo» le dissi.
Mensah trasse un respiro profondo e scavalcò i corpi in preda agli spasmi, poi aggirò la SecUnit a terra. Raccolsi il mio fucile e la seguii (non volevo rischiare di prendere il fucile dell’altra SecUnit. Poteva contenere un tracciatore. E comunque, il mio entrava meglio nella sacca). Feci rotolare la SecUnit all’interno del modulo e chiesi a MobSys di tenerlo chiuso finché non avesse eseguito un ciclo diagnostico completo.
Dopodiché, feci accomodare Mensah nel mio modulo e impostai una nuova destinazione. Dopo aver ricaricato il fucile e averlo riposto nella sacca, chiesi al modulo di aspettare mentre controllavo di nuovo la telecamera di sorveglianza della lobby di transito. Sì, i due bersagli GrayCris erano ancora lì, anche se parevano entrambi preoccupati e si parlavano via feed. Insieme a loro, in attesa, c’erano altri nove umani non bersagli divisi in due gruppetti sfilacciati.
Com’era quell’idea che avevo avuto? Ah, eccola lì, proprio dove l’avevo archiviata.
«Devo eliminare due bersagli attivi sulla banchina di transito del tubo» dissi. «Quando arriviamo lì, scenda dal modulo, si sposti dall’accesso e mi aspetti.» Non ero ancora riuscita a guardarla in faccia, nemmeno attraverso la telecamera del modulo.
«Ricevuto» disse lei.
Lasciai che il modulo arrivasse alla banchina e, mentre le porte si aprivano, diedi istruzione a MobSys, che controllava anche le decorazioni attive dell’albergo, di far scendere la tempesta olografica all’altezza della banchina.
Uscii dal modulo tra una cortina di nubi viola scuro, fulmini, pioggia simulata, le grida e le risate sorprese dei passeggeri in attesa. La visibilità era scesa al quindici per cento ma il mio rilevatore trovò i due bersagli armati. Raggiunsi Bersaglio Uno, bloccai il suo feed ed emisi una scarica per tramortirlo con l’arma a raggio diretto nel mio braccio destro.
Lo presi al volo mentre cadeva e feci una torsione per scaraventarlo nel modulo. Bersaglio Due aveva capito che stava succedendo qualcosa (probabilmente nel momento in cui aveva perso contatto con Bersaglio Uno) e dovetti abbassarmi di lato e atterrarlo con una spazzata. Quello rovinò sulla banchina e mi chinai per colpirlo alla testa quel tanto che bastava da rendere vano ogni tentativo di resistenza.
Trascinai Bersaglio Due al modulo, dove il corpo inerte di Bersaglio Uno stava ancora sussultando. Quando la porta del modulo si richiuse lo feci dirigere al livello del club, gli ordinai di bloccarsi là sotto e inviai una notifica alla manutenzione dell’albergo. Poi permisi a MobSys, che si stava spazientendo, di riportare la tempesta di fulmini alla posizione predefinita.
Gli altri umani e umani aumentati sulla banchina sembravano confusi e sollevati; alcuni esprimevano disappunto. Nessuno di loro si comportava come se avesse appena visto una SecUnit far fuori due agenti della sicurezza corporativi. Feci un cenno con il capo a Mensah e ci dirigemmo nella zona di attesa. Avevo già eliminato ogni traccia di noi dalla telecamera della banchina, ma non sarebbe servito a depistare a lungo i nostri inseguitori.
Guidai Mensah in fondo alla banchina, dove si sarebbe fermata a caricare l’ultima capsula del tubo. La telecamera della banchina mi confermò che il mio tentativo di sembrare naturale stava andando alla grande (cosa che sorprese anche me). Mensah aveva il pieno controllo della sua espressione, le spalle rilassate. I suoi abiti, un lungo caffetano sopra un paio di pantaloni, parevano un po’ più stropicciati del normale, ma non abbastanza da attirare l’attenzione. Sul feed comune mi chiese: Hai detto che gli altri sono qui con una navetta della compagnia? La compagnia ti sta aiutando?
No, risposi. GrayCris ha corrotto la stazione per tenere fuori la compagnia. Pin-Lee, Ratthi e Gurathin sono sbarcati lo stesso.
Il tubo scivolò nella stazione e salimmo a bordo della capsula vuota in fondo alla fila (quello era un colpo di fortuna anche se, mentre aspettavamo nella lobby, avevo svolto una rapida analisi dell’attività del tubo di quella banchina, che durante il ciclo diurno non era particolarmente attiva. Non faceva infatti parte del circuito principale ma era un percorso alternativo pagato dall’albergo).
Mentre le porte del tubo si richiudevano, la telecamera di sorveglianza della banchina mostrò una serie di sportelli di moduli di trasferimento che si aprivano e tre umani con le divise della sicurezza dell’albergo che correvano fuori. Ah, merda. Così la mia tabella di marcia andava in fumo.
Avevo già il controllo della telecamera nella capsula del tubo, e scivolai più a fondo, nel feed di controllo di tutto il tubo. «C’è un cambio di programma» dissi a Mensah. «Sanno dove siamo.»
Lei annuì con espressione tesa.
Quello era un percorso diretto fino al porto e a noi serviva una fermata intermedia prima che GrayCris riuscisse a persuadere le forze di sicurezza della stazione a fermarci. La mappa indicava che il tubo si stava avvicinando alla banchina di un edificio adibito a uffici. Da un rapido controllo della telecamera di sorveglianza locale vidi che la banchina era vuota – il che aveva senso, visto che non aveva in programma nessuna fermata di tubi per altri trentatré minuti. Dovevo fare in fretta perché quel tubo sarebbe dovuto confluire nel circuito principale non molto dopo gli uffici, e aveva una finestra temporale molto stretta (se avessi provocato un disastro rallentando il tubo troppo a lungo avrei non soltanto incoraggiato le forze di sicurezza della stazione ad agire contro di noi, ma sarebbe anche stata una brutta cosa da fare). Inviai a Mensah un’allerta sul suo feed – stava succedendo tutto così in fretta che non avevo il tempo di verbalizzarlo a me stessa, figuriamoci dirle quel che stavo facendo – e le passai un braccio intorno alla vita. Lei mi si aggrappò alla giacca e affondò la testa sulla mia spalla. Io le protessi la testa con il braccio libero. Poi inviai il comando di rallentamento.
La capsula diminuì la velocità all’ingresso della stazione e io mi stavo già muovendo mentre inviavo alle porte un segnale di apertura di emergenza. Lo sportello del tubo si aprì in tempo; quello della banchina no. Per fortuna lo intruppai soltanto di striscio e alterò di poco la mia traiettoria mentre rotolavo sul pavimento della banchina.
La capsula aveva già richiuso le porte e ripreso l’accelerazione necessaria a rientrare nella finestra di inserimento. Cancellai me e la dottoressa da ogni registrazione, cancellai tutti i buffer e i registri temporanei, e rimossi l’incidente dall’unità di memoria della capsula.
Riuscii a interrompere il rotolamento con Mensah sopra di me, ma non doveva comunque essere stato comodo per lei. L’ultima volta che avevamo fatto una cosa del genere ero in armatura ed eravamo saltate giù da un precipizio, mentre lì il pavimento era di liscia pietra sintetica e non c’erano cose che ci esplodevano tutto intorno. Per cui, voglio dire, così era meglio. Immagino. La staccai da me, mi tirai in piedi e l’aiutai ad alzarsi.
Lei mi scansò. «Sto bene.»
Io la lasciai andare cautamente ma rimase in piedi. Estrassi una mappa dal feed dell’edificio per cercare qualche opzione di trasporto. A-ha! Ce n’era una buona.
Ci allontanammo dalla banchina giù per la passerella fino ai moduli di trasferimento dell’edificio, usando i miei codici per cancellarci dalle riprese delle telecamere di sorveglianza. Giunti allo snodo, salimmo a bordo del primo modulo in arrivo; gli ordinai di ignorare il protocollo preimpostato e di portarci fino al livello dei servizi di manutenzione, che sulla mappa compariva come piano riservato e non era tra le opzioni di destinazione del modulo.
Scendemmo in uno spazio dai soffitti bassi e, una volta che il modulo ebbe richiuso lo sportello alle nostre spalle, completamente buio. Io riuscivo a vedere grazie agli infrarossi e usai il mio rilevatore per creare una mappa fisica dei luoghi. Mensah non vedeva niente. Si aggrappò alla mia giacca e si mise dietro di me, lasciandosi guidare.
La circolazione e la qualità dell’aria non erano un granché ma, perlomeno, c’era dell’aria. Individuai un percorso tra robot trasportatori e di manutenzione momentaneamente inattivi, fino a una rampa aperta che scendeva verso il basso. Incontrammo due cambiamenti di gravità; uno graduale, e un secondo meno graduale, quando la parete di destra divenne di colpo il pavimento.
Eravamo diretti verso una diramazione di un condotto di accesso principale; uno spazio per la movimentazione delle merci da e per il porto e tra i vari livelli della stazione, che fungeva anche da sistema di accesso e trasporto per i robot e le squadre meccaniche della stazione. C’erano strisce luminose di emergenza e un sacco di vernice segnaletica che emettevano sprazzi di luce e segnali feed, perlopiù istruzioni temporanee e guide per i lavoratori umani e robotizzati. Mensah allentò la stretta sulla mia giacca e, dal suo respiro, capii che per lei quelle luci erano un sollievo.
Ci incamminammo in senso contrario a una forte corrente d’aria che proveniva dal condotto di accesso principale. Rilevai delle voci umane sul canale audio, non lontano da noi. Dall’attività sul feed c’era molto traffico a più o meno duecento metri sulla nostra destra, verso la piazza pubblica e gli alberghi. Nessuna di quelle attività aveva l’aria di un’operazione di emergenza o di sicurezza, ma semplice lavoro di supporto ai sistemi. Sei passi più in là la rampa raggiungeva il condotto principale: una caverna buia, illuminata soltanto dai segnalatori di navigazione a bassa intensità. C’erano cose che sfrecciavano silenziose nella penombra, perlopiù piattaforme di sollevamento e trasportatori automatizzati provenienti o di ritorno dai depositi merci del porto.
Non che mancassero le squadre di sorveglianza, dal momento che, se volevi rubare un carico o fare qualcosa di poco simpatico alla struttura di una compagnia concorrente sulla stazione, quello era il posto in cui venire. Avevo attivato la deflessione delle scansioni anti-armamenti e dei rilevatori di energia, e avevamo poco più di cinque minuti prima del passaggio di una nuova squadriglia di droni di pattugliamento.
Mensah aveva di nuovo afferrato la mia giacca; forse era nervosa per l’altezza e la profondità del condotto principale. Nonostante la gravità ridotta, neanch’io ne ero entusiasta. Nel frattempo cercai un vettore libero e ne trovai uno più su, verso l’area attiva. Lo attirai fuori dal gregge e gli dissi di venire da noi.
Due minuti dopo, quello scivolò silenziosamente fino al passaggio dov’eravamo noi; era una struttura tozza che veniva usata per trasportare i meccanici della stazione, i loro robot e l’equipaggiamento. Salimmo a bordo e feci richiudere le porte prima di permettergli di accendere le luci interne. Controllai il suo sistema di mappatura e lo diressi verso il porto.
Mensah barcollò alla partenza e mi afferrò un braccio sopra il portello dell’arma, stringendolo quanto bastava a far percepire il suo tocco alla parte organica. Il suo battito accelerato pareva normale, in quelle circostanze, ma continuava a non lasciarmi andare. «Sta bene?» le chiesi. Che l’avessero torturata? Ogni direttiva del mio modulo di assistenza medico-psicologica rimandava all’accesso a un MedSystem per ricevere le indicazioni sul da farsi (i moduli educativi forniti dalla mia compagnia erano una merda, non so se ve l’ho mai accennato…).
Lei scosse la testa. «Sto bene. Sono solo… Molto contenta di rivederti.»
Aveva ancora l’aria un po’ instabile. Il suo aspetto era sempre quello: pelle scura, capelli castano chiaro, tagliati corti. Aveva di sicuro più rughe intorno agli occhi, un dettaglio che confermai confrontandolo con le registrazioni precedenti che avevo di lei. E mi accorsi che la stavo guardando.
Nelle serie vedevo che gli umani si davano sempre conforto a vicenda in momenti del genere. Non avevo mai voluto una cosa del genere, e continuavo a non volerla (toccarli nel dare assistenza, far da scudo agli umani in caso di esplosione e via dicendo sono cose diverse). Ma ero l’unica presente, in quel frangente, per cui mi feci coraggio e acconsentii al sacrificio supremo. «Uhm… Può abbracciarmi, se ne sente il bisogno.»
Lei cominciò a ridere, poi la sua faccia fece una cosa complicata e mi abbracciò. Io feci salire la temperatura nel petto e mi dissi che era come un’operazione di primo soccorso.
Però… Non era così tremendo, in fondo. Era un po’ come quando Tapan si era addormentata accanto a me nella stanzetta del motel, o quando Abene mi si era appoggiata addosso dopo che l’avevo salvata; era strano, ma non così terribile come avrei pensato.
Lei si scostò di un passo e si strofinò la faccia, come infastidita dalla sua stessa reazione. Alzò lo sguardo verso di me. «Sei stata tu, sulla piattaforma di terraformazione di GrayCris.»
Dovevano averla interrogata sulla faccenda. «È stato un incidente» mi giustificai.
Lei annuì. «Quale parte è stata un incidente?»
«Quasi tutte.»
Lei aggrottò la fronte. «Hai detto loro che ti mandavo io?»
«No. Ho impersonato la mia cliente. Una cliente immaginaria. Che ho impersonato io.» Mi ritrovai impigliata in quella spirale per un istante. «Da quando ho lasciato Port FreeCommerce, ho impersonato con successo una consulente umana aumentata per la sicurezza con due diversi gruppi di umani. Su Milu avevo intenzione di fare lo stesso ma sono stata identificata come SecUnit, per cui ho detto loro che ero sotto il controllo di una cliente remota, sempre consulente per la sicurezza.» Impersonare era una parola strana, soprattutto in quel contesto (l’avevo appena notato. Im-persona-re. Strano).
«Capisco. Perché sei andata su Milu?»
«Ho visto una storia su Milu in un notiziario. Volevo trovare elementi che corroborassero le prove delle attività illegali svolte da GrayCris e poi inviarteli.» Suonava bene. Non che non fosse vero, ma avevo avuto parecchie motivazioni in conflitto tra di loro e quella era l’unica che aveva senso, perlomeno ai miei occhi.
Lei fece un lungo respiro e si premette le mani sul viso per 5,3 secondi. «Me lo ricorderò, la prossima volta che rilascio un’intervista improvvisata.» Alzò di nuovo lo sguardo. «Hai trovato le prove?»
«Sì. Ma quando sono tornata su HaveRatton c’era già una squadra di sicurezza della Palisade ad aspettarmi. Poi ho visto sul feed notiziario di Port FreeCommerce che lei era scomparsa.» E aggiunsi: «Ho spedito le informazioni a casa sua, a Preservation».
Lei annuì. «Capisco. Bene.» Esitò. «I dirigenti di GrayCris che mi hanno interrogata hanno detto che hai distrutto alcuni robot da combattimento…»
«Tre.»
Lei inspirò bruscamente. «Bene.»
Non sapevo davvero cos’avrei detto, dopo, finché non mi uscì di bocca: «Me ne sono andata».
Lei mi guardava dritta in faccia, e all’improvviso non riuscii più a guardarla negli occhi. «Già» disse. «Ho gestito malissimo quella situazione. Ti chiedo scusa.»
«Okay.» Rischiavo davvero di dovermene restare lì impalata a fissare la parete. ART e Tapan si erano entrambi scusati con me, per cui non è che fosse un fatto inedito. Io però continuavo a non sapere come rispondere. «Pin-Lee dice che si è preoccupata, dottoressa.»
«Lo ero. Temevo che potessero catturarti prima che riuscissi a lasciare Corporation Rim.» La sua voce celava un sorriso. «Avrei dovuto avere più fiducia in te.»
«Non sono sicura che andrei molto lontano» dissi. Il mio controllo mappe in background m’inviò un’allerta, e fu un sollievo. Avevo esaurito le emozioni che ero in grado di gestire. «Stiamo arrivando al porto.»