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Attraversammo in volo la notte, mentre gli umani effettuavano rilevamenti e discutevano dei nuovi territori oltre la nostra zona di perlustrazione. Per loro era molto interessante vedere cosa ci fosse, lì, ora che sapevamo che la nostra mappa non era del tutto attendibile.
Mensah assegnò turni di guardia a ciascuno, me inclusa. Era una novità nient’affatto sgradita, dal momento che significava che disponevo di periodi di tempo in cui non avrei dovuto per forza rimanere all’erta e non avrei dovuto fingere attenzione. Mensah, Pin-Lee e Overse si davano il cambio come pilota e copilota, per cui non dovevo preoccuparmi più di tanto che il pilota automatico cercasse di farci fuori e potevo mettermi in stand-by per godermi le serie che avevo in memoria.
Eravamo in volo da un po’ e Mensah era ancora ai controlli, con Pin-Lee in veste di copilota, quando Ratthi si voltò verso di me: «Abbiamo sentito dire… Ci è parso di capire che le Unità Emulative Robotiche Antropomorfe siano… parzialmente costruite con materiale clonato, è vero?».
Con riluttanza, misi in pausa il programma che stavo guardando. Quella conversazione rischiava di prendere una piega che non mi piaceva. Era tutto scritto nell’archivio informativo di base, oltre che nella brochure aziendale che forniva le specifiche di ogni tipo di unità impiegata. Cosa che lui sapeva bene, essendo uno scienziato e via dicendo. E non era il tipo di umano che chiedeva le cose quando poteva andare a studiarsele per conto suo sul feed generale. «È così» dissi, facendo molta attenzione a mantenere il solito tono impassibile.
Ratthi pareva turbato. «Ma di certo… È chiaro che provi delle emozioni…»
Trasalii. Non riuscii a impedirmelo.
Overse era impegnata ad analizzare i dati ricevuti sul feed. Alzò gli occhi, accigliandosi. «Ratthi, che stai facendo?»
Ratthi si agitò, imbarazzato. «So che Mensah ci ha chiesto di non farlo, però…» M’indicò con una mano. «Insomma, l’hai vista anche tu.»
Overse mise da parte la sua interfaccia. «La stai facendo innervosire» disse, a denti stretti.
«È proprio questo il punto!» esclamò lui, gesticolando frustrato. «È una pratica disgustosa, orribile… È schiavismo! Non è una macchina, non più di quanto Gurathin non sia un…»
Esasperata, Overse lo interruppe: «Credi che non lo sappia?».
Dovrei lasciare che i clienti mi dicano e mi facciano qualsiasi cosa vogliano e, con un modulo di controllo intatto, normalmente non avrei scelta. Non dovrei nemmeno fare la spia sui miei clienti con nessuno, a parte la compagnia, ma in quel caso l’alternativa era il suicidio. Inviai la conversazione sul feed di Mensah.
Dal cockpit, lei gridò: «Ratthi! Che avevamo detto?».
Scivolai giù dal sedile e andai sul retro dell’hopper, il più lontano possibile, voltandomi verso l’armadietto delle scorte e i gabinetti. Fu un errore; non era una cosa normale da fare, per una SecUnit con un modulo di controllo intatto, ma loro non ci fecero caso.
«Vado a scusarmi, allora» disse Ratthi.
«No, lasciala in pace e basta» gli disse Mensah.
«Peggioreresti soltanto le cose» aggiunse Overse.
Io rimasi lì in piedi finché le cose non si calmarono e tornò nuovamente il silenzio, poi mi accomodai su un sedile nel retro e feci ripartire la serie che stavo guardando.
Quando percepii il feed che si scollegava era notte fonda.
In quel momento non lo stavo usando, ma avevo depriorizzato i feed del SecSystem dei droni e delle telecamere interne, e di tanto in tanto accedevo per assicurarmi che fosse tutto a posto. Gli umani che avevamo lasciato nell’habitat erano più attivi di quanto non fossero solitamente a quell’ora, probabilmente in ansia per ciò che avremmo scoperto a DeltFall. Ogni tanto sentivo i passi di Arada, anche se Volescu russava a intermittenza nella sua cuccetta. Bharadwaj era riuscita a tornare ai suoi alloggi ma era irrequieta e intenta a ripassare le sue impressioni annotate in fase di perlustrazione e caricate sul feed. Gurathin era in sala comune, armeggiava col suo sistema personale. Mi chiesi cosa stesse facendo, e avevo appena iniziato a intrufolarmi cautamente nell’HubSystem per scoprirlo. Quando il feed si disconnesse fu come se qualcuno avesse dato uno schiaffo alla parte organica del mio cervello.
Mi rizzai a sedere e dissi: «La linea con il satellite è andata».
A parte Pin-Lee, che era ai comandi, gli altri presero tutti le loro interfacce. Vidi le loro espressioni nel momento in cui percepirono quel silenzio. Mensah si alzò dal sedile e venne sul fondo della cabina. «Sicura che sia il satellite?»
«Sicura» le risposi. «Sto inviando un ping ma non c’è risposta.»
La nostra rete locale si appoggiava al sistema dell’hopper, per cui potevamo continuare a comunicare attraverso di essa oltre che sul canale vocale, e condividere informazioni tra di noi. Non disponevamo però della mole di dati che avremmo avuto se fossimo rimasti collegati all’HubSystem. Eravamo sufficientemente lontani da aver bisogno che il satellite di comunicazione fungesse da ripetitore. Ratthi si collegò alla rete dell’hopper e cominciò a controllare le scansioni. Non c’era nient’altro che cielo aperto; io le avevo sì depriorizzate, ma avevo anche impostato una notifica qualora avessero rilevato un picco di energia o un qualche vistoso segno vitale. Ratthi disse: «Ho appena avvertito un brivido. Qualcuno di voi ha sentito niente?».
«Qualcosa, sì» ammise Overse. «È una strana coincidenza, vero?»
«Quel dannato satellite funziona a singhiozzo da quando siamo arrivati» commentò Pin-Lee dalla postazione di pilotaggio. «Solo che di solito non ci serve per comunicare.» Aveva ragione. Tra i miei compiti c’era il controllo periodico dei loro registri personali per verificare che non avessero in mente di truffare la compagnia, di ammazzarsi l’un l’altro o cose del genere, e l’ultima volta che avevo visto il registro di Pin-Lee avevo notato che stava monitorando i problemi del satellite, cercando di capire se ci fosse uno schema ricorrente. Era una delle molte cose di cui non mi preoccupavo perché il feed d’intrattenimento veniva aggiornato solo occasionalmente, e io lo scaricavo a blocchi nella memoria interna.
Ratthi scosse la testa. «Questa però è la prima volta che ci siamo allontanati tanto dall’habitat da averne bisogno per mantenere attive le comunicazioni. Mi pare strano, e per niente positivo.»
Mensah li guardò a uno a uno. «Qualcuno vuole fare marcia indietro?»
Io, ma non avevo voce in capitolo. Gli altri rimasero seduti in silenzio per un momento, poi Overse disse: «Come ci sentiremmo se saltasse fuori che DeltFall aveva davvero bisogno di aiuto e noi non siamo andati?».
«Se abbiamo l’occasione di salvare delle vite, dobbiamo coglierla» concordò Pin-Lee.
Ratthi sospirò. «Avete ragione. Se qualcuno dovesse morire per un nostro eccesso di prudenza mi sentirei uno schifo.»
«Siamo d’accordo, allora» disse Mensah. «Proseguiamo.»
Avrei preferito l’eccesso di prudenza. Era capitato altre volte che l’equipaggiamento fornito dalla mia azienda avesse qualche brutto malfunzionamento ma c’era qualcosa, in quella situazione, che mi faceva sospettare che ci fosse qualcosa di più. Era soltanto una sensazione, però.
Mi restavano quattro ore prima del prossimo turno di guardia programmato, per cui mi misi in stand-by e m’immersi nei video che avevo scaricato e messo da parte.
Arrivammo sul posto all’alba. DeltFall aveva montato il campo in un’ampia vallata circondata da alte montagne. Una ragnatela di torrenti prosciugati intersecava i prati e i ciuffi di alberi ispidi. La loro spedizione era più grossa della nostra, con tre habitat collegati tra loro e un riparo per i veicoli di superficie, oltre a un’area di atterraggio per due grossi hopper, una nave cargo e tre hopper piccoli. Era comunque tutta roba fornita dalla compagnia, come da contratto, e tutta soggetta agli stessi difetti della paccottiglia che ci avevano appioppato.
All’esterno non c’era nessuno, e nessun movimento. Nessun danno evidente, nessun segno di presenza di fauna ostile. Il satellite continuava a non dare segni di vita ma Mensah aveva cominciato a provare a contattare l’habitat di DeltFall non appena ci eravamo portati all’interno del loro raggio di azione.
«Manca qualche mezzo?» chiese Mensah.
Ratthi controllò la lista delle loro dotazioni, che io avevo copiato dall’HubSystem prima di partire. «No, gli hopper ci sono tutti. I veicoli di terra sono in quella rimessa, immagino.»
Mentre ci avvicinavamo, io mi ero spostata davanti. In piedi alle spalle del sedile del pilota, dissi: «Dottoressa Mensah, raccomando che atterri all’esterno del loro perimetro». Le inviai tutte le informazioni che avevo tramite il feed locale – ossia che i loro sistemi automatizzati rispondevano ai ping inviati dal nostro hopper, e nient’altro. Non riuscivamo a intercettare il loro feed, il che significava che il loro HubSystem era in stand-by. Dalle loro SecUnit non ricevevamo niente, nemmeno i ping.
Overse mi scoccò un’occhiata dal sedile del copilota. «Perché?»
Dovevo rispondere alla sua domanda, per cui dissi: «Protocollo di sicurezza», che suonava bene e non mi costringeva a sbilanciarmi. Nessuno all’esterno, nessuno che rispondeva sul canale di comunicazione. A meno che non fossero tutti saltati sui loro veicoli di superficie per andarsene a fare una gita di piacere, lasciando spenti l’HubSystem e le SecUnit, dovevano essere morti. Il mio pessimismo era fondato, dopotutto.
Non potevamo esserne certi, però, senza andare a controllare. I rilevatori di un hopper non possono vedere all’interno degli habitat per via della schermatura – la cui funzione è proprio quella di proteggere informazioni riservate –, perciò non eravamo in grado di registrare segni vitali o picchi di energia.
Ecco perché non ci volevo venire. Avevo con me quattro umani in perfetto stato, e non volevo che fossero uccisi da ciò che aveva fatto fuori quelli di DeltFall, qualsiasi cosa fosse. Non che mi stessero personalmente a cuore ma sarebbe stata una macchia sul mio stato di servizio, che si dava il caso fosse già piuttosto compromesso.
«Semplice precauzione» disse Mensah, rispondendo a Overse. Fece scendere l’hopper sul limitare della vallata, dalla parte opposta rispetto alle sorgenti d’acqua.
Diedi a Mensah qualche indicazione via feed: prelevare le armi dal kit di sopravvivenza sigillato, lasciare Ratthi al sicuro nell’hopper, con il portellone ben chiuso, dal momento che non aveva mai partecipato a nessun corso di addestramento alle armi, e, soprattutto, farmi scendere per prima. Gli umani si erano fatti silenziosi, e obbedirono senza discutere. Fino a quel momento, credo che avessero pensato di trovarsi davanti a un probabile disastro naturale, con la prospettiva di dover disseppellire i sopravvissuti da un habitat crollato o di aiutare a respingere una torma di Soggetti Ostili.
Quella faccenda, però, era ben diversa.
Mensah diede gli ordini e ci mettemmo in movimento; io guidavo il gruppo, con gli umani qualche passo indietro. Indossavano le tute complete con tanto di casco, che fornivano loro una certa protezione ma che erano state concepite per affrontare rischi ambientali, non certo altri umani armati fino ai denti (o una qualche SecUnit ribelle) e intenzionati a uccidere. Ero più nervosa di Ratthi, che monitorava ansiosamente le scansioni e, dal canale audio, ci diceva di stare attenti un passo sì e l’altro pure.
Io avevo le mie armi integrate e imbracciavo un grosso fucile. Avevo anche sei droni, presi dalle riserve dell’hopper e sotto il mio controllo tramite il feed del mezzo. Erano di quelli piccoli, larghi appena un centimetro; niente armi, solo telecamere (ne fanno anche di poco più grandi, equipaggiati con una piccola arma a impulso, ma per quelli bisogna sottoscrivere uno dei pacchetti aziendali premium, articolati per contratti molto più grossi). Ordinai ai droni di decollare e di disporsi in assetto di perlustrazione.
Lo feci perché sembrava la cosa più sensata da fare, non certo perché sapessi cosa stavo facendo. Non sono una SecUnit da combattimento, sono un’Unità di Sicurezza. Impedisco che i clienti vengano aggrediti dalle cose e cerco di scoraggiarli in maniera cortese dall’aggredirsi gli uni con gli altri. Quella situazione andava ben oltre le mie competenze – altro motivo per cui non avrei voluto che gli umani andassero in quel posto.
Attraversammo i corsi d’acqua poco profondi e un gruppo d’invertebrati acquatici si disperse sotto il calpestio dei nostri stivali. Gli alberi erano sufficientemente bassi e radi da garantirmi una buona visuale del campo dalla nostra angolazione. Non individuai nessun drone di sicurezza di DeltFall né a occhio nudo, né tramite i rilevatori dei miei droni. Nemmeno Ratthi, dall’hopper, vedeva niente. Avrei tanto voluto poter determinare con precisione la posizione di quelle tre SecUnit, ma non ricevevo nessun segnale neanche da loro.
Le SecUnit non provano affetto le une per le altre. Non siamo amiche come i personaggi delle serie, o come lo erano i miei umani. Non possiamo fidarci le une delle altre, nemmeno se lavoriamo insieme. Anche quando non ci sono clienti che decidono di spassarsela ordinando alle SecUnit di combattere tra loro.
I rilevamenti indicavano che i sensori perimetrali erano spenti e i droni non rilevavano nessun indicatore di pericolo. L’HubSystem di DeltFall era spento e, senza di quello, in teoria nessuno poteva accedere ai nostri feed o ai nostri canali audio dall’interno dell’habitat. Giungemmo fino all’area di atterraggio per gli hopper. Le navette erano tra noi e il primo edificio, con la rimessa per i veicoli da un lato. Guidai il mio gruppo avvicinandomi di sbieco, cercando di arrivare in vista della porta di accesso dell’habitat e controllando il terreno, che era quasi del tutto diserbato per il calpestio e gli atterraggi degli hopper. Dal rapporto meteo che avevamo ricevuto prima che il satellite ci mollasse, in quel luogo era piovuto la notte prima, e il fango si era indurito. Da allora, nessuna attività.
Trasferii l’informazione a Mensah via feed e lei lo disse agli altri. Pin-Lee disse, a voce bassa: «Per cui, qualsiasi cosa sia accaduta, non è successa molto dopo che ci abbiamo parlato noi».
«Non possono essere stati attaccati» sussurrò Overse. Non c’era motivo di sussurrare, ma capivo l’istinto. «Non c’è nessun altro, su questo pianeta.»
«Si suppone che non ci sia nessun altro, su questo pianeta» commentò cupo Ratthi dal canale audio del nostro hopper.
Su quel pianeta c’erano tre SecUnit che non erano me, e quello era già un bel pericolo. Giunsi in vista del portellone dell’habitat principale e constatai che era chiuso; non c’erano segni di effrazione. I droni avevano ormai compiuto il giro dell’intera struttura e mi mostrarono che gli altri accessi erano nella stessa condizione. Buono a sapersi. Una bestia ostile non viene a bussarti alla porta per chiederti il permesso di entrare. Inviai le immagini al feed della dottoressa Mensah e dissi, ad alta voce: «Dottoressa Mensah, sarebbe meglio se vi precedessi».
Lei esitò, studiando quel che le avevo appena inviato. Vidi le sue spalle irrigidirsi. Credo fosse giunta alla mia stessa conclusione. O, perlomeno, si rendeva conto che era lo scenario più probabile. «Va bene, aspetteremo qui. Assicurati di farci avere le immagini.»
Parlò al plurale e non l’avrebbe fatto se non l’avesse davvero inteso, a differenza di alcuni clienti che avevo avuto. Inviai il feed della mia telecamera a tutti e quattro gli umani e mi avviai.
Richiamai quattro droni e ne lasciai due di ronda intorno al perimetro. Controllai la rimessa dei veicoli mentre la superavo. Da un lato era aperta e in fondo c’erano degli armadi chiusi. Dentro c’erano tutti e quattro i loro veicoli di superficie, spenti; non c’erano tracce recenti, per cui non entrai. Non mi sarei preoccupata di perlustrare gli spazi di rimessaggio più piccoli finché non fossimo arrivati alla fase in cui si cercavano, pezzo per pezzo, i cadaveri.
Mi avvicinai al portellone del primo habitat. Non disponevamo dei codici di accesso, per cui mi aspettavo di dover far saltare la porta, ma, quando premetti il pulsante, quella si aprì di fronte a me. Usai il feed per dire a Mensah che da quel momento non avrei più comunicato via audio.
Lei inviò una conferma di ricezione e la sentii dire agli altri di scollegarsi dal mio feed e dal mio canale audio; sarebbe stata lei l’unica a comunicare con me, così da non distrarmi. Mensah sottovalutava la mia capacità di ignorare gli umani, ma apprezzai il pensiero. Ratthi sussurrò: «Fa’ attenzione» prima di scollegarsi.
Impugnai l’arma mentre entravo, attraversando la zona degli armadietti con le tute fin nel primo corridoio. «Non manca nessuna tuta» commentò Mensah nel mio orecchio, osservando la scena dalla mia telecamera. Mandai in avanscoperta i quattro droni, mantenendoli in formazione di perlustrazione da interno. Era un habitat più accogliente del nostro, con sale più spaziose e più nuove. Era anche vuoto e silenzioso, e un lezzo di carne in decomposizione giungeva sino a me attraverso i filtri del casco. Mi diressi verso la zona centrale, dove doveva trovarsi la sala comune principale.
Le luci erano ancora accese e dai bocchettoni d’aerazione filtrava un filo d’aria, ma con il feed spento non potevo accedere al SecSystem. Sentivo la mancanza delle mie telecamere.
Trovai la prima SecUnit accanto alla porta della zona centrale. Era riversa a terra, di schiena, con la piastra pettorale perforata da qualcosa che ci aveva fatto un buco largo una decina di centimetri e poco più profondo. Farci fuori è difficile, ma una roba del genere può bastare. Eseguii una rapida scansione per assicurarmi che fosse del tutto inerte, poi la scavalcai ed entrai nella sala comune.
Nella zona centrale c’erano i corpi di undici umani massacrati, riversi sul pavimento e sui sedili, mentre le stazioni di monitoraggio e le superfici di proiezione dietro di loro mostravano danni evidenti da arma da fuoco e a raggio diretto. Aprii il feed e chiesi a Mensah di tornare all’hopper. Lei acconsentì e i miei droni esterni mi diedero conferma che gli umani stavano battendo in ritirata.
Attraversai una porta dall’altra parte della sala ed entrai in un corridoio che portava verso la mensa, l’infermeria e le cabine dell’equipaggio. I droni indicavano che la disposizione era molto simile a quella del nostro habitat, eccezion fatta per qualche cadavere che di tanto in tanto compariva riverso nei corridoi. Nella zona centrale non avevo trovato l’arma che aveva fatto fuori la SecUnit a terra, e quella era morta spalle alla porta. Gli umani di DeltFall avevano dunque avuto un certo preavviso, quanto bastava per alzarsi e dirigersi verso le altre uscite, ma qualcos’altro era giunto da quella direzione e li aveva intrappolati. Pensai che quella SecUnit era stata uccisa nel tentativo di proteggere la zona centrale.
Il che significava che dovevo cercare le altre due SecUnit.
Forse quei clienti erano stati prepotenti e ingiusti, forse se l’erano meritata. A me non importava. Nessuno avrebbe torto un capello ai miei umani. Per assicurarmene, avrei dovuto uccidere quelle due unità ribelli. A quel punto sarei potuta uscire, avrei potuto sabotare gli hopper e portare i miei umani via di lì, lasciando le due unità ribelli bloccate dall’altra parte di un oceano. Sarebbe stata la cosa più intelligente da fare.
Io però volevo proprio ammazzarle.
Uno dei miei droni trovò due umani morti nella mensa – uccisi sul colpo mentre tiravano fuori le razioni dallo scomparto riscaldato, con la tavola apparecchiata per il pasto.
Mentre mi spostavo attraverso i corridoi e le sale feci una ricerca nel database dell’equipaggiamento dell’hopper. L’unità morta doveva essere stata uccisa da uno strumento di rilevazione mineraria, come una trivella a ultrasuoni o a pressione. Ne avevamo una a bordo dell’hopper, faceva parte dell’equipaggiamento in dotazione. Bisognava avvicinarsi parecchio per riuscire a usarla con forza sufficiente da perforare una corazza, forse a poco più di un metro.
Il fatto è che non puoi avvicinarti a un altro murderbot impugnando un’arma perfora-corazze o a impulso all’interno dell’habitat senza attirarti come minimo un’occhiata sospettosa. Però puoi avvicinarti a un collega murderbot con uno strumento che un umano ti può aver detto di portargli.
Quando ebbi raggiunto l’altra parte della struttura, i droni avevano finito di perlustrare il primo habitat. Rimasi ferma in mezzo al portellone in cima allo stretto corridoio che conduceva al secondo. In fondo giaceva un’umana, per metà fuori e per metà all’interno dell’altro portellone socchiuso. Per entrare nell’altro habitat avrei dovuto scavalcare la donna e aprire completamente il portellone. Si vedeva già da lì che c’era qualcosa che non andava nella posizione di quel corpo. Usai lo zoom della telecamera per ottenere una visuale ravvicinata della pelle sul braccio teso. Quel pallore era sbagliato; era stata colpita da un proiettile al petto o in faccia ed era rimasta prona per qualche tempo, poi era stata spostata lì di recente. Probabilmente non appena si erano accorti che il nostro hopper si stava avvicinando.
Dissi a Mensah cosa mi serviva che facesse via feed. Lei non fece domande. Stava seguendo la situazione dalla mia telecamera e ormai aveva capito con cosa avevamo a che fare. M’inviò conferma di ricezione, poi disse a voce sul canale audio: «SecUnit, mantieni la posizione finché non arrivo lì».
«Sì, dottoressa Mensah» risposi io, indietreggiando e uscendo dal portellone. Mi spostai in fretta fino alla sala tattica della Sicurezza.
Era piacevole avere un’umana abbastanza intelligente da poterci lavorare in quel modo.
Il nostro modello di habitat non ne aveva, ma quelli più grossi disponevano di un accesso al tetto, e i miei droni esterni avevano un’ottima visuale di quel punto.
Risalii la scala fino al portellone del tetto e lo aprii. Gli stivali della corazza avevano le suole magnetizzate e me ne servii per procedere lungo le coperture ricurve fino al terzo habitat, facendo poi il giro verso il secondo per prenderle alle spalle. Perfino quelle due unità ribelli non potevano essere così stupide da ignorare il rumore dei miei passi se avessi scelto la strada più breve e fossi andata dritta verso di loro (non dovevano essere i murderbot più svegli del mondo, dal momento che avevano ripulito le loro tracce nel corridoio di collegamento tra gli habitat, quando avevano portato lì il corpo della donna; un trucco che avrebbe potuto ingannare soltanto chi non avesse notato come tutti gli altri pavimenti fossero coperti di polvere proveniente dall’esterno).
Aprii l’accesso al tetto del secondo habitat e mandai avanti i miei droni, giù nella sala tattica della Sicurezza. Una volta controllati i cubicoli delle unità e assicuratami che non ci fosse nessuno in casa, scesi per la scala. C’era ancora un sacco di equipaggiamento, lì dentro, inclusi i droni. Ce n’era una bella scatola di quelli nuovi, ma senza l’HubSystem di DeltFall erano inutilizzabili. O era davvero guasto, oppure era molto bravo a far finta di esserlo. Continuai a tenere parte della mia attenzione su di esso; se si fosse acceso all’improvviso e avesse riattivato le telecamere di sicurezza, le regole del gioco sarebbero cambiate di colpo.
Tirandomi dietro i droni, imboccai il corridoio interno e avanzai silenziosamente oltre il portellone divelto dell’infermeria. All’interno c’erano tre corpi ammassati, nel punto in cui gli umani avevano provato a creare un perimetro di sicurezza ed erano invece rimasti in trappola quando le loro stesse SecUnit l’avevano fatto saltare per massacrarli.
Quando fui vicina al corridoio con il portellone socchiuso da cui entrambe le Unità si aspettavano che sbucassimo io e la dottoressa Mensah, inviai i droni in avanscoperta. Oh, sì… Erano proprio lì.
Senza armi sui droni, l’unica linea di azione possibile era muoversi in fretta. Per cui balzai oltre l’ultimo angolo addosso alla parete opposta, mi diedi una spinta e continuai in quella direzione, sparando verso di loro.
Colpii la prima con tre scariche esplosive alla schiena e una sulla visiera quando si voltò verso di me. Centrai l’altra sul braccio, mettendo fuori uso l’articolazione – quella fece l’errore di trasferire l’arma principale all’altra mano, dandomi così un paio di secondi. Io passai alla modalità di fuoco rapido per sbilanciarla, poi di nuovo alla scarica esplosiva. Funzionò.
Crollai a terra – mi serviva un momento per recuperare.
Ero stata colpita almeno una dozzina di volte dalle loro armi a impulso mentre facevo secca la prima, ma le scariche esplosive mi avevano mancato, oltrepassandomi e devastando il corridoio. Perfino con la corazza, alcune parti del mio corpo si stavano intorpidendo, ma ero stata colpita soltanto da tre proiettili alla spalla destra e quattro all’anca sinistra. È così che combattiamo, noi: ci scagliamo l’una contro l’altra e vediamo quali sono le parti che cedono per prime.
Nessuna delle due unità era morta, però erano entrambe incapacitate a raggiungere i propri cubicoli nella sala tattica, e di certo non avrei dato loro una mano.
Avevano abbattuto anche tre dei miei droni, che erano passati alla modalità di combattimento e si erano precipitati in avanti per attrarre il fuoco nemico. Uno era stato colpito da un raggio vagante e aleggiava senza meta nel corridoio alle mie spalle. Controllai, per abitudine, i miei due droni perimetrali e aprii il canale audio con Mensah per dirle che avevo bisogno di perlustrare il resto dell’habitat e di effettuare il controllo di routine in cerca di sopravvissuti.
Il drone alle mie spalle si spense con uno sfrigolio che udii e vidi sul feed. Credo che mi resi immediatamente conto di cosa significasse ma con forse mezzo secondo di ritardo. Ero già in piedi, quando qualcosa mi colpì così forte da scaraventarmi a terra, di schiena, mandando in tilt i miei sistemi.
Tornai operativa senza vista, senza udito, senza potermi muovere. Non riuscivo a connettermi al feed o al canale audio. Brutta storia, Murderbot, brutta storia.
Fui improvvisamente colta da una serie di impressioni sensoriali, tutte provenienti dalle mie parti organiche. Aria sul viso, sulle braccia, attraverso gli strappi nella mia tuta. Sulla ferita pulsante alla spalla. Qualcuno mi aveva tolto il casco e la parte superiore della corazza. Quelle sensazioni duravano soltanto pochi secondi per volta. Era disorientante, avrei voluto gridare. Forse era così che morivano i murderbot. Perdi le funzioni, ti disconnetti, ma parti di te continuano a funzionare – pezzi organici mantenuti in vita dall’energia che si esaurisce nelle batterie.
Poi mi resi conto che qualcuno mi stava spostando, e avrei davvero voluto gridare.
Contenni il panico ed ebbi ancora qualche lampo sensoriale. Non ero morta. Ero in un grosso, grosso guaio.
Attesi di poter riprendere il controllo di una qualche funzione, agitata, disorientata, terrorizzata, chiedendomi perché non mi avessero ancora fatto un buco nel petto. La prima cosa a tornare fu il suono, e capii che qualcosa era chino su di me. I rumori appena percettibili dalle giunture mi dissero che si trattava di una SecUnit. Eppure sarebbero dovute essercene soltanto tre. Avevo controllato le specifiche di DeltFall prima di partire. A volte mi capita di tirar via il lavoro – okay, la maggior parte delle volte – ma aveva controllato anche Pin-Lee, e lei era una tipa pignola.
Poi le mie parti organiche cominciarono a formicolare e, poco a poco, l’intorpidimento prese a scemare. Ero stata progettata per funzionare contemporaneamente con parti organiche e meccaniche, per bilanciare gli input sensoriali. Senza quell’equilibrio mi sentivo come un palloncino che galleggiava a mezz’aria. Ma la parte organica del mio petto era in contatto con una superficie dura, e la cosa mi permise di mettere bruscamente a fuoco la mia posizione. Ero distesa a faccia in giù, con un braccio penzoloni. Mi avevano messo su un tavolo?
Brutta storia, eccome.
Una pressione sulla schiena, poi sulla nuca. Il resto di me stava rinvenendo ma con molta lentezza. Cercai a tentoni il feed ma non riuscii a raggiungerlo. Poi qualcosa mi pugnalò dietro al collo.
Era materiale organico, quello, e, non avendo il resto del corpo in funzione, non c’era niente che tenesse a bada il mio sistema nervoso. Ebbi la sensazione che mi stessero segando via la testa.
Fui attraversata da uno spasmo e, di colpo, il resto del mio corpo tornò attivo. Mi dislocai l’articolazione del braccio sinistro per poterlo muovere in modo normalmente non compatibile con il corpo di un umano, di un umano aumentato o di un murderbot. Mi allungai verso la pressione e il dolore che sentivo al collo e afferrai un polso corazzato. Effettuai una torsione con tutto il corpo e trascinai entrambi giù dal tavolo.
Ci schiantammo sul pavimento e avvinghiai le gambe attorno all’altra SecUnit mentre rotolavamo a terra. Quella cercò di attivare le armi innestate nel suo avambraccio ma la mia rapidità di reazione era alle stelle e riuscii a premere una mano sull’apertura per impedirgli di aprirsi del tutto. La vista era tornata e avevo davanti la sua visiera oscurata, a pochi centimetri dalla faccia. Mi aveva tolto la corazza fino ai fianchi e la cosa mi rese ancor più furiosa.
Le spinsi la sua stessa mano sotto al mento e liberai l’arma. La SecUnit nemica ebbe una frazione di secondo per tentare di annullare il comando di fuoco ma non fece in tempo. La scarica di energia attraversò la mia mano e il giunto tra il suo casco e il collare corazzato. La testa della SecUnit fece uno scatto e il suo corpo cominciò a tremare. Lasciai andare la presa quel tanto che bastava per inginocchiarmi, portarle il braccio illeso attorno al collo e torcere.
Mollai quando sentii i legamenti, meccanici e organici, strapparsi.
Alzai gli occhi e vidi un’altra SecUnit sulla soglia, intenta a puntare un fucile pesante. Ma quanti di quei dannatissimi affari c’erano, lì dentro? Non aveva importanza, perché cercai di tirarmi in piedi ma non sarei riuscita a reagire abbastanza in fretta. Poi la nuova SecUnit ebbe un sussulto, lasciò cadere l’arma e stramazzò in avanti. Vidi due cose: il foro di dieci centimetri nella sua schiena e Mensah in piedi, alle sue spalle, che impugnava qualcosa che somigliava molto alla trivella a ultrasuoni del nostro hopper.
«Dottoressa Mensah» protestai. «Questa è una violazione delle priorità di sicurezza e ho l’obbligo contrattuale di operare una registrazione per notificare alla compagnia…» Tanto mi rimaneva nel buffer. Il resto del mio cervello era vuoto.
Lei mi ignorò, in collegamento con Pin-Lee sul canale audio; avanzò a grandi passi verso di me, mi afferrò per un braccio e tirò. Ero troppo pesante per lei, così mi alzai per evitare che si facesse male. Stavo cominciando a pensare che in realtà la dottoressa Mensah avesse davvero la stoffa dell’intrepida esploratrice galattica, anche se non aveva l’aspetto di quelle che si vedevano sui feed d’intrattenimento.
Lei continuò a tirarmi, perciò continuai a muovermi. Avevo qualcosa che non andava in un’articolazione dell’anca. Ah, giusto… Mi ci avevano sparato. Sentivo il sangue scorrere lungo la tuta epidermica lacerata e mi portai una mano al collo. Mi aspettavo di trovare un foro e invece c’era qualcosa di incastrato lì dietro. «Dottoressa Mensah, potrebbero esserci altre unità ribelli, non sappiamo…»
«Motivo in più per sbrigarci» disse lei, trascinandomi con sé. Si era portata appresso gli ultimi due droni da fuori, che però le giravano inutilmente intorno alla testa. Gli umani non hanno sufficiente accesso al feed da poter controllare i droni e altre cose in contemporanea – un po’ tipo camminare e parlare. Cercai di contattarli ma continuavo a non avere un collegamento pulito alla rete della navetta.
Svoltammo in un altro corridoio e vidi Overse che ci aspettava all’altro portellone. Non appena ci vide aprì il pannello. Impugnava la sua arma ed ebbi il tempo di notare che Mensah teneva la mia sotto il braccio. «Dottoressa Mensah, ho bisogno della mia arma.»
«Hai perso una mano e parte della spalla» sbottò lei. Overse mi afferrò per la tuta epidermica e l’aiutò a tirarmi fuori dal portellone. L’aria si riempì di polvere turbinante mentre l’hopper atterrava a due metri da noi, sfiorando di un soffio il tetto telescopico dell’habitat.
«Sì, lo so, ma…» Il portellone dell’hopper si aprì e Ratthi si sporse all’esterno, afferrandomi per il colletto della tuta epidermica e tirandoci tutti e tre su in cabina.
Io crollai sul ponte mentre ci staccavamo da terra. Dovevo fare qualcosa per quell’anca. Cercai di controllare lo scanner per assicurarmi che nessuno stesse cercando di bersagliarci da terra ma perfino lì la mia connessione al sistema dell’hopper era instabile, talmente erratica che non riuscivo a vedere i rapporti della strumentazione di bordo, come se qualcosa stesse bloccando il…
Uh-oh.
Mi tastai di nuovo la nuca. Il pezzo più grosso di quel coso era saltato, ma adesso sentivo qualcosa nella porta. La mia porta dati.
Le SecUnit di DeltFall non si erano ammutinate: era stato inserito loro un modulo di combattimento che disabilitava il modulo standard. Quel genere di modulo garantiva il controllo proprietario di una SecUnit, trasformandola da costrutto sostanzialmente autonomo a marionetta armata. Il feed veniva interrotto, il controllo passava dal canale audio, ma la funzionalità dipendeva da quanto erano complessi gli ordini. “Uccidi gli umani” non era un ordine complesso.
Mensah era in piedi sopra di me; Ratthi si chinò oltre un sedile per guardare fuori, verso il campo di DeltFall, e Overse aprì uno degli armadietti. Stavano parlando ma non riuscivo a capire cosa dicessero. Mi tirai a sedere e dissi: «Mensah, dovete spegnermi subito».
«Cosa?» Abbassò lo sguardo su di me. «Stiamo prendendo… materiale di emergenza…»
I suoni cominciavano ad arrivare a intermittenza. Il download sovraccaricava il mio sistema e le parti organiche non erano abituate a processare tutte quelle informazioni. «Quella SecUnit mi ha inserito una scheda, un modulo di combattimento in grado di controllarmi. Sta scaricando le sue informazioni dentro di me e disabiliterà il mio sistema. È per questo che le due unità di DeltFall si sono ribellate. Dovete fermarmi.» Non so perché girassi intorno al termine preciso. Forse perché pensavo che non volesse sentirselo dire. Aveva appena fatto fuori una SecUnit armata fino ai denti con una trivella mineraria per recuperarmi; era presumibile che avesse intenzione di tenermi. «Dovete uccidermi.»
Gli umani impiegarono un’eternità a capire quel che avevo detto, accostandolo a ciò che dovevano aver visto dal feed della mia telecamera, ma del resto anche la mia abilità di misurare il tempo si era fatta incerta.
«No» disse Ratthi, abbassando lo sguardo su di me, orripilato. «No, non possiamo…»
«E non lo faremo» disse Mensah. «Pin-Lee…»
Overse lasciò cadere il kit di riparazione e scavalcò due file di sedili, chiamando a gran voce Pin-Lee. Sapevo che stava andando in cabina di pilotaggio per prendere i comandi e permettere a Pin-Lee di lavorare su di me. Sapevo che non avrebbe avuto il tempo di aggiustarmi. Sapevo che sarei stata in grado di uccidere tutti gli occupanti dell’hopper, anche con un’anca fuori uso e un braccio solo.
Per cui afferrai l’arma sul sedile, me la puntai al petto e premetti il grilletto.
AFFIDABILITÀ DI SISTEMA AL 10%, IN CALO. INIZIO SPEGNIMENTO.