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La bassa temperatura perché si conservino la posso capire, però gli snack dei distributori delle sale d’attesa in ospedale sono freddi da far schifo. Inserire una moneta nell’apposita fessura è come scegliere deliberatamente di assaggiare l’esperimento matto di un gelataio matto.
“È già in sala operatoria, non so quante ore ci resterà. È peggiorato. Devono rimuovere l’ematoma, la pressione intracranica, non ci ho capito niente.”
Era insorta una complicazione ed erano stati costretti a un nuovo intervento. Nell’urgenza, il medico che si occupava di Radice Quadrata aveva spiegato poco, e del poco Anna aveva memorizzato solo le parole più brutte.
“Mio marito sta arrivando.”
“Rimango anch’io.”
Mi sono lasciata abbracciare, ma non sono rimasta in camera con lei che tirava su col naso e stampava le stesse impronte sul linoleum del pavimento ancora e ancora. Ansia. Mi sono rifugiata in sala d’attesa. Taralli al distributore. Affamata. Tremavo tanto che aprendo il pacchetto ne ho rovesciato metà sulle gambe. Briciole. Schifose le briciole e schifoso l’iPhone. Unto di ditate. Schifosi i risultati on-line che si possono ottenere digitando commozione cerebrale, trauma cranico, pressione intracranica, ematoma subdurale e cose così.
Regolarizzare il respiro per regolarizzare il cuore. Tieni negli occhi le lacrime. Calma, Sofia. Un morso al tarallo, cranch, e via una parte di brutti pensieri. Altro morso al tarallo, cranch, e via un’altra parte di brutti pensieri. Morso a un altro tarallo, e devo ammetterlo: questi momenti di coscienza che si aprono in noi che mangiamo sono formidabili. Altro morso al tarallo, cranch, e ricacciare indietro i brutti pensieri con la forza di altri pensieri. Glu glu. Concentrati su di lui. Cranch. Chi è il ragazzo che non hai visto attraversare quella porta sdraiato su una barella, cranch, e chi è quello che vedrai riattraversarla? Cranch. Sicura di cosa hai letto? Cranch. Di come hai letto i taccuini? Cranch. Sicura che sia innamorato di se stesso e borioso? Cranch. Che vomiti su di voi? Cranch? Sì, forse Radice Quadrata è quello che non viene alle feste o in spiaggia, quello che non si attarda a parlare con noi, ma non perché abbia di meglio da fare. Cranch. Rifletti. Cranch. Forse. Glu glu. Quelle poche parole su ciascuno di noi non potrebbero essere tentativi di uno scavo che lui non ha mai trovato il coraggio di portare a termine? Cranch. Non so, dovrei chiederglielo. Glielo chiederò appena tornerà. Lo costringerò a giurare. Me lo deve, dopo tutta la fatica. Cranch. Perché inseguendo il suo segreto ho imparato a scavare a mia volta. Almeno un po’. A vedermi riflessa. Cranch. Merito suo? Cranch. Forse. Cranch. E sarà il senso di gratitudine, e di colpa, sarà che son qui e il morale non è dei migliori, eppure inizio a convincermi che la sua faccia tosta e trista in fondo non c’entrasse con noi. Che insomma Radice Quadrata ci abbia sempre osservato, pedinato, sorvegliato, magari sognando di riuscire a visitarci come fossimo cantine, ma che non abbia mai trovato il coraggio di farlo. Cranch. Voi non siete cantine di gente morta, ma un palazzo, una strada, una scuola, una città, un continente di gente che non fa che muoversi. Siete troppi oggetti sempre nuovi e subito vecchi per poterne scegliere uno che parli di voi. Voi che siete vivi e potete andarvene. Deludere. Tradire. Cranch. Magari è così che dirà. Glu glu. Forse non sarà più in grado di parlare… No, tieni le lacrime negli occhi. Distributore. Secondo pacchetto di taralli. Cranch cranch cranch. E se non tornasse dalla sala operatoria? Cranch. Distributore, sì. Ancora. Seconda bottiglietta d’acqua. Stavolta frizzante. Non solo per mandare giù i taralli, ma per provare la sensazione di avere ancora gola, esofago, stomaco. Sono qui. Tu dove sei?
“Posso chiederle una cosa?”
“È presto, Sofia.”
L’infermiera. Ormai la conoscevo. Conoscevo tutto il personale del reparto. E loro conoscevano me. “Lo so, Michela, ma in realtà volevo chiederle dei fogli. Quelli della stampante andranno bene. E una penna. Non ce la faccio ad aspettare.”
Il signor Sergio era finalmente arrivato. Passeggiava per il corridoio digitando al cellulare, e quando ha risollevato la testa mi ha salutato con un cenno. Poi ha notato i fogli. Ha distolto lo sguardo.
In sala d’attesa ho provato tutte le sedie e ho scelto la più distante dal calorifero. Via il giaccone. Caldo. Già l’ho detto: aspettare è la cosa peggiore in assoluto. E allora sì, perché no? Scrivere. Ingannare il tempo. Il mio. Ingannare me stessa. Scrivere come preghiera: ti aspetto, sono qui, non me ne vado, torna. Perché sono qui? Ecco. Ho iniziato a pregare così, e ho pregato a lungo. Curva di spalle. Polso e dita della mano destra sempre più indolenziti. Ho pregato caparbiamente, e sono tornata a pregare dopo ogni interruzione di Anna. Dopo ogni sguardo del signor Sergio. Dopo ogni falso allarme delle infermiere. Ho pregato fino a questo momento. Proprio adesso. Notte o primo mattino? Non saprei, fuori è buio e l’iPhone è scarico. Non ho voglia di alzarmi. In sala d’attesa non c’è orologio. Per non tormentare la gente col tempo, forse. Quello del mondo. Sì, avrei dovuto avvertire a casa. Invece ho riempito questi fogli bianchi senza righe né quadretti. Tanti. Ne ho dovuti chiedere altri a Michela. Due volte. E scrivo ancora. Ma non scrivo per te, Orrido Sortino: questo non è il racconto dell’eroe che mi ha salvato. Anzi, nemmeno è un racconto. Dietro questo voi che ogni tanto mi scappa non c’è nessuno. Voi non esistete. Ci sono solo io. Parlo con me. Perché Radice Quadrata riattraverserà quella porta, magari ancora addormentato, bendato, incerottato, intubato, infilzato di aghi, ma tornerà dalla sala operatoria e io sarò qui perché ho troppe domande. E se c’è una cosa che proprio detesto della mia età, non sono le infinite domande che vengono a cercarmi, ma il sentimento di dover trovare risposta a tutte. Come si fa a scassinare una serratura di cantina? Ti hanno mai beccato? Lo sai che è inquietante tenere un completo da funerale appeso in un magazzino? E come fai a pagare l’affitto del C21? Rubi? Se mai girassero un film, saresti un protagonista da manicomio. Posso chiederti cos’hai pensato quando ti sei carcerato nella cantina di zio Carlo? La patente dei genitori l’hai trovata allora? Perché non provi a scavare dentro la gente viva? Io sono qui, fai un tentativo, non me ne vado. Prova. E quando ti ho mandato quella foto ti sei arrabbiato? Non volevo che ti arrabbiassi. Neanche lo so cosa volevo. Tu invece cosa vuoi? Cosa desideri? In cosa credi? Cosa ti rende felice? E altre mille domande ho da farti. Mille più una. E quando mi avrai dato mille risposte più una, se ne avrai voglia, allora potremmo fare qualcosa insieme. Per cominciare dobbiamo scrivere il racconto per l’Orrido, che non è tanto orrido, sai? E poi, be’, potremmo inventarci una vera patente dei genitori, con un corso e una prova da superare, e se non ti va sono addirittura disposta ad accompagnarti al prossimo funerale. Ma solo finché dura l’inverno. Perché questo gennaio finirà e verrà la primavera, e andremo al mare. Ti insegnerò quanto ci si sente vivi nuotando in superficie, quante spiagge si possono raggiungere a forza di bracciate o sdraiati sulla tavola di Dario, e tu mi insegnerai a usare maschera e boccaglio, bombole, pinne, tutto l’occorrente per andare sott’acqua. Giù. Ma sceglieremo insieme quale profondità di mare esplorare. Saremo amici, mica di più, non farti illusioni. Non sei proprio il mio tipo. Quella tua faccia tosta e trista non è granché vista da fuori. Vista da dentro, forse, non è poi così male. E quando ti sveglierai saranno guai, mi toccherà spiegarlo a tutti che non sono la tua fidanzata. Però se dovesse scapparci un bacio… magari uno, giusto per essere sicuri. Ma se lo vuoi ti dovrai svegliare, e tieniti pronto perché a quel punto ti dirò: “Era ora. Dormito bene?” E tu sorriderai. Te lo dirò, e tu sorriderai. Puoi scommetterci tutti i tuoi taccuini. Perché ho capito cosa intendevi, somaro di matematica. Io la vedo così: adesso sotto la radice quadrata ci sei tu, e sopra ci sono io. Oppure sotto la radice quadrata c’è tutto quello che abbiamo vissuto da soli, e insieme, e sopra ci siamo noi due sdraiati che possiamo ridere del passato. Ma adesso riattraversa quella dannata porta. Ho finito le parole. Non ne conosco altre. Questa è la fine della storia. La storia dell’anonima fine di Radice Quadrata. Perché lo giuro dal cuore, se riattraversi quella dannata porta ti chiamerò per nome.