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È una faccenda serissima, questa delle cose che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Nascoste in bella vista. Per dire: io conosco Rebecca da più di due anni, ne riconosco linguaggio/modi/atteggiamenti, e a partire da quelli, senza sforzo eccessivo, posso addirittura immaginare cosa le passa per la testa in una particolare circostanza e cosa si appresta a dire, ma chi mi assicura che in realtà dentro di lei non accade tutt’altro, un altro che io ignoro ma che la determina? Magari c’è la famiglia dietro i suoi comportamenti. Magari sono i genitori a imporle di stronzeggiare sempre. Distinguersi. Magari sono loro ad averla gettata in piscina neonata, senza salvagente, per farne una campionessa, e a pretendere che Rebecca sia com’è. Sennò la reputerebbero zero. Inadeguata. E allora, ecco, lei magari sente di non avere alternativa. Ci è cresciuta, così. Le hanno allenato lo sguardo in modo che vedesse nemici da abbattere, concorrenti da eliminare, esemplari da azzannare alla gola perché non mettano a repentaglio la sua supremazia nel branco. E sì, so di esagerare perché coi compagni Rebecca resta una stronza, qualunque siano le ragioni, ma per quanto riguarda la sua vita fuori da scuola? L’esistenza in solitudine? E che dire dei luoghi in generale?
Quest’estate, ultimo giorno della mia avventura con Alberto. Della curiosità e della simpatia. Gita in gommone. Io, lui, la sua cricca, Monica e Chiara, una ragazza che non avevo mai frequentato ma che se la faceva stabilmente con un idiota “Superporno!” Ebbene: sono rimasta a zonzo sul mare per sei ore, senza una meta che non fosse la superficie libera da punti cardinali e scintillante di sole, il perimetro di gomma gonfia d’aria entro cui restare per continuare a galleggiare e l’immensità attorno, un tuffo ogni tanto, col naso tappato e mai troppo giù, uno sbarco nei pressi di una spiaggia e poi di nuovo a bordo, e quando al tramonto il gommone aveva poi orientato la prua verso la costa, il molo, ecco l’improvvisa impressione che questa mia città fosse rimpicciolita. O che la vista, esposta al vento e alle risate spensierate e alle carezze e alla consapevolezza dell’ultimo giorno di Alberto, la novità dell’estate, si fosse fatta più capace. Acuta. I miei luoghi mi aspettavano là dove li avevo lasciati, mica avevano traslocato in sei ore, eppure non erano gli stessi: familiari, e meno familiari. Come un viso arcinoto che di punto in bianco scopriamo attorniato da una folla, e di cui al tempo stesso sappiamo finalmente vedere brufoli, screpolature, minime tensioni espressive dei muscoli e persino bellezze sempre trascurate. Per esempio, solo dopo aver attraccato, mano nella mano con Alberto, pensando attraverso quel suo paio d’occhi verdissimi che l’indomani sarebbero scaduti, ho fatto caso alla vernice del baracchino del noleggiatore Giovà. Rossa e crepata dalla salsedine. Anche se il barbuto Giovà lo conoscevo dall’infanzia perché era amico di nonno Karl, e infatti mi ero dovuta sorbire più di una volta i suoi barbosi discorsi. Proprio al vecchio baracchino. Né prima di tornare sulla terraferma, sprofondando nella sabbia ancora tiepida di un giorno di solleone, dopo essermi lasciata alle spalle Alberto sulla via di casa, mi ero accorta che le piastrelle del bagno che spartivo con Dario, lucide e color avorio, erano fresche, stabili sotto i piedi. E che in cucina, nell’anta del frigo, c’era sempre una bottiglia dell’acqua che tanto mi piaceva sentir frizzare in gola. E la sera, l’ultima con Alberto, per la prima volta avevo osservato le buche e le sbeccature delle lastre che pavimentano la passeggiata del lungomare, e osservandole avevo provato sdegno. Come se Alberto, osservandole a sua volta, vi potesse leggere un difetto mio. Di me che intanto gli dicevo addio.
Accade così: all’improvviso certe cose cominciano a mostrarsi senza più restare nascoste in bella vista, e inseguire Radice Quadrata quel venerdì ha avuto su di me quell’effetto.
La prima tappa della bigiata è stata la pensilina del 23 a metà di via Leopardi, dove l’autobus ha sostato a meno di un chilometro dalla clinica veterinaria di mio padre numero uno. E per un istante ho temuto che Radice Quadrata fosse sceso apposta per condurmi lì. Adocchiata la bici che lo inseguiva, e incline a un certo sadismo, forse era intenzionato a ritorcermi contro il pedinamento. Ma nella realtà Radice Quadrata ha raggiunto l’incrocio tra via Leopardi e via Pascoli, e un centinaio di passi dopo la svolta si è lasciato inghiottire da un edificio giallo canarino. Tre piani di finestrelle oscurate e un’insegna che strillava a caratteri arancioni dalla facciata: “Il Posto delle Cose”. Mai notato.
Eppure capitavo spesso in via Pascoli. Per far visita a papà passavo proprio di lì, ma lungo il percorso inverso: dall’appartamento di mio padre numero due, cioè dal centro, percorrevo la lunghissima via Manzoni e un tratto di via Pascoli, dopodiché prendevo via Leopardi e arrivavo a destinazione. L’edificio giallo canarino però non aveva mai catturato la mia attenzione. E quel venerdì Radice Quadrata ha fatto in modo che non lo dimenticassi più.
Il Posto delle Cose. L’edificio non offriva che la scarna insegna. Né una targa esplicativa accanto all’uscio, né dépliant abbandonati e calpestati sul marciapiede, né io potevo presentarmi all’impiegata che intravedevo di là della porta a vetri per chiedere. Sì, avevo calcato in testa il berretto di Dario, ma come escludere che Radice Quadrata fosse poco oltre il bancone, in un punto cieco, pronto a sorprendermi? Come escludere la coincidenza fatale di lui che decideva di uscire mentre io decidevo di entrare?
Nell’attesa ho messo al lavoro l’iPhone: i risultati raccontavano che Il Posto delle Cose era stato un mobilificio con laboratorio ed esposizione, ma adesso era una sorta di magazzino. O meglio un insieme di magazzini di metratura diversa da affittare. Uno spazio per tutto ciò che la vita non ti permette di tenere. Lo spazio non ti basta? Ricordi del passato, cose da mettere da parte per il futuro.
Non sapevo cosa facesse là dentro Radice Quadrata: iPhone in mano, bicicletta a riposo sul cavalletto, calcolata nonchalance di fronte ai passanti, fiera del berretto strappato all’appendiabiti, quel venerdì sapevo solo che lui era sparito là dentro per due ore. Riaffacciandosi in elegante completo scuro. Giuro. Dalla Scogliera era partito in giubbotto e jeans, e dal Posto delle Cose è uscito in ghingheri. Mi è toccato risalire sui pedali.