19

“Oggi resti a casa.”

“Perché?”

“Sofia, a casa. Soltanto se studi e non combini guai puoi fare come ti pare. È la regola che ha stabilito papà anni fa, e non è cambiata.”

Non era cambiata ma era cambiato il resto.

“Lo so, infatti ho chiesto a Evelina di darmi una mano. Lei è brava in latino.”

“Ottimo, a che ora arriva?”

“No, vado io. Lei non può venire.”

“Ah ah.”

Se la risata è uno dei modi con cui mamma esercita la propria perspicacia, io pure non sono una sciocca. Perché sì, avevo preso un cinque meno in latino, la prof Gualmo mi aveva interrogato a tradimento, mica era il mio turno, ma il risultato di quel monito, “dovete studiare sempre altrimenti è troppo facile”, per mamma era una scusa. Eravamo in cucina, lei al tavolo con il suo nuovo Mac, io in equilibrio sul bracciolo del divano, e la pioggia non la smetteva di venire dal mare, senza fessure dorate di sole alle spalle. Gocce. Tante. Nella nostra cucina c’è una portafinestra che dà su un balconcino: le piastrelle del pavimento emettevano un liquido luccichio d’argento.

“La bicicletta non è adatta a questo tempaccio!”

“Comprami un motorino.”

“Ah ah.”

Ci stava arrivando.

“Hai già rischiato di beccarti un raffreddore ieri. Papà ha detto che sei passata in clinica, fradicia. Avresti potuto andarci coi mezzi.”

Non è che mia madre detesti la bicicletta, è che ci stava arrivando.

“Se l’avessi chiesto, qualcuno ti avrebbe accompagnato.”

Eccoci.

“Tu non c’eri, e neanche Dario. E lui stava partendo.”

Quando bisticcio con mamma, a volte mi riferisco a mio padre numero due col pronome.

“Se glielo avessi chiesto, ti avrebbe accompagnato.”

“…”

“Perché ieri sera non mi hai detto che sei passata da papà?”

“Dovevo?”

“Lo sai che io e lui ci vogliamo ancora bene, no? Ci diciamo tutto.”

“…”

“Allora?”

“Avevo voglia di uscire e sono andata a trovarlo.”

Ha preteso che mi mettessi al tavolo della cucina a studiare latino anche se il cinque meno ormai lo avevo preso, ma per due ore non ha fatto che cianciare al cellulare e muovere distrattamente i polpastrelli sulla tastiera, lagnandosi delle poche idee per Riso Amaro. Mi ha persino mostrato un negozio on-line consigliato da un’amica. Poi, esortandomi a fare il mio dovere, è uscita. Pilates. E Dario non c’era. Così ho messo fuori il naso dalla cucina, sul balconcino, e quando l’auto di mamma si è avviata mi sono precipitata giù a slegare la bici.

Nei polizieschi con cui nonno Karl mi aveva cresciuto, presto o tardi ai buoni tocca un appostamento, ma vi assicuro che non è come lo raccontano. Parlo per esperienza. Innanzitutto veniva giù tanta pioggia che ho dovuto sostare nel sottopassaggio della ferrovia per asciugarmi la faccia, e una volta alla Scogliera, dopo una pedalata che mi aveva inzuppato anche le mutande, ecco un problema di non trascurabile entità: dove. Dov’ero e dove appostarmi. Perché suggestionabile lo sono di mio, e gli anni di discorsi adulti a proposito della Scogliera mi avevano convinto del peggio, così all’inizio mi sono accontentata di percorrere via Deledda avanti e indietro. Pronta alla fuga e fiduciosa che Radice Quadrata non aspettasse che me per uscire dal casermone al civico 57. Poi, disillusa e snervata dalle gocce salate grosse quanto aspirine, mi sono guardata attorno. E l’impressione non è stata di tutta questa malavita. Immondizia qua e là, capannelli sul marciapiede malgrado il diluvio, squadroni di scooter e motorette spernacchianti di passaggio, qualche brutto ceffo, urla che provenivano da finestre chiuse, negoziacci, ma nulla di più. Preso coraggio, alla fine mi sono accomodata sul gradino di quello che a giudicare dai resti dell’insegna vandalizzata doveva essere stato un rivenditore di tessuti, ma che ormai era una saracinesca sgorbiata da acidi colori di vernice spray. Ho resistito un’ora. Un occhio all’iPhone e uno alla strada. Bicicletta a portata di mano. Poi mi sono stancata di tutto, anche degli sms di Evelina che intanto si trovava in sala prove con Paolo detto Vincent detto Vinnie. Appostarsi è una faticaccia. Tempo che arranca. Ma come scoprire qualcosa di Radice Quadrata senza lasciarsi abbattere dalla noia e dalla fatica? Be’, per prima cosa ho pensato di rendere l’appostamento meno noioso e faticoso. Cioè ho legato la bici a un divieto di sosta e ho infilato l’uscio del Bar&Tabacchi all’incrocio tra via Deledda e via Pirandello, una cinquantina di metri dal casermone di Radice Quadrata. Passi cauti nel chiasso di monetine e musichette elettroniche, tra le imprecazioni e le esultanze di gente che maltrattava slot machine e giocava schedine di lotterie varie.

“Buongiorno, vorrei un succo di frutta all’albicocca.”

Con circospezione, e disgustata dal bicchiere opaco, mi sono seduta al tavolino accanto alla vetrata per sorvegliare la strada. Il barista mi osservava, ma la mia presenza non ha impedito alla vita pomeridiana del locale di proseguire fino alle sei, quando hanno cominciato a riversarsi all’interno uomini e vecchi che chiedevano birra o aperitivo, e ragazzi che discutevano animatamente. Allora sì, gli sguardi si sono moltiplicati. Non sono fifona, ma mi sentivo a disagio. Piccola. Me ne sono andata. Non ne vado fiera.

Fuori non c’era traccia di Radice Quadrata, e la noia e la consapevolezza di un’imminente ramanzina hanno fatto il resto. Sono rientrata a casa dopo le sette, cuore in gola per la pedalata, e ho preferito usare le chiavi perché il campanello avrebbe richiamato l’attenzione della famiglia: non ero dell’umore per una sgridata all’ingresso. Invece, muovendo i primi passi oltre la porta, in punta di piedi, silenzio. Ma certo! Mio padre numero due sarebbe rientrato da Vilnius l’indomani e mamma non c’era. Forse dopo pilates aveva visto le amiche. Comunque l’avevo scampata. Fiuuuu. Scalciate via le Converse zuppe e appesa la giacca impermeabile nello sgabuzzino, però, il sollievo ha lasciato spazio all’irritazione: se ancora non c’era nessuno significava che avrei potuto restare più a lungo alla Scogliera, no? Stupida, stupida Sofia. Per fare pace con me stessa ho pensato di asciugare i capelli, così da non destare sospetti, e stavo imboccando il corridoio quando Dario mi ha sorpreso di spalle. Un ninja. Ha impiegato tre secondi per infilare le chiavi nella toppa ed entrare di soppiatto, sacca da palestra in spalla. La mia reazione è stata lenta.

“Sei fradicia.”

“Non lo dire a mamma.”

“Cosa?”

“Se lo dici a mamma, le dico di Martina e non ti darà più pace.”

Dario non è tipo da lasciarsi intimidire né ricattare, e in realtà mia madre sapeva tutto di Martina. Anzi, la invitava spesso a cena.

“Dire a mamma cosa?”

“…”

“Ehi, mi ascolti?”

“…”

“Hai la luna storta?”

“…”

“Successo qualcosa?”

“Aahh!”