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Già l’ho detto che sono una bugiarda seriale. Che lo sono stata con e per Radice Quadrata. E quando quell’urlo mi è risalito da dentro non ho avuto altra scelta. A Dario ho dovuto mentire.

Prima però ho provato a incolpare mamma: mi tormentava con la scuola, non ce la facevo più, il diritto ai miei errori, questa casa è una prigione… non convincevo neppure me stessa. È che la gente di menzogne se ne intende, siamo preparati, perciò uno deve crederci davvero alla frottola che racconta, sennò gli altri se ne accorgono che mente. O mente male. E io purtroppo non sono brava a infilare mamma in una bugia confezionata per Dario. Inconsciamente, forse, non dimentico che lui ha perso la sua. Quella vera. Insomma, sarebbe indelicato lamentarmi della nostra se lui, forse, la vive più come mia che sua. E nel dubbio mi viene il cuore tenero.

“Sì, è colpa di un ragazzo.”

Portarlo a credere che si trattasse di una questione sentimentale non era mia intenzione, ma tradurre in parole cosa mi passava per la testa, be’, nemmeno io avevo idea di cos’avesse provocato quell’urlo irrefrenabile, quindi ho lasciato che fossero le domande di Dario a modellare la bugia. E siamo finiti lì.

“Un ragazzo, capisco. E ti piace sul serio oppure è a scadenza come tutti gli altri? Come si chiamava l’ultimo… Alberto?”

Ero stata costretta a parlargliene perché Evelina aveva trascorso agosto coi genitori, in vacanza, lontana centinaia di chilometri, e io ero rimasta con lui, che aveva preferito il nostro mare, la spiaggia, la cricca, la palestra, Martina di cui innamorarsi di più ed esami universitari da preparare. Mio padre numero uno non aveva chiuso bottega perché il turismo animale è un affare, un solo giorno di ferie a ferragosto, reperibile per le emergenze, ma con lui non affronto certi argomenti, mentre mio padre numero due aveva regalato a mamma un viaggio in Sudafrica. Ecco: in loro assenza, cioè in condizione di semilibertà, avevo incontrato Alberto, e frequentandolo ho dovuto parlarne a Dario. Alberto, sì, il ragazzo delle chiacchiere notturne via sms. E non solo. Per dodici giorni abbiamo fatto colazione sul lungomare, e ci sono stati pomeriggi. Cene e dopo cene. Addirittura tre notti. Il nostro primo incontro è stato al largo.

Moltissimi amici di Dario si divertono col windsurf, e anche se mio fratello non pratica possiede una vecchia tavola senza vela che già in primavera recupera dal garage per nuotarci sopra e cose così. Invece in previsione dell’estate io avevo ordinato un lettore digitale waterproof: un aggeggio che mi permettesse di ascoltare musica a mollo. Adoro fare il morto a galla, soprattutto nel tardo pomeriggio, abbandonarmi quando il sole non accende troppe luci dietro le palpebre: l’unico inconveniente è lo sshciff sshciaff nelle orecchie. La ripetizione è straziante. E la folgorazione per l’aggeggio waterproof mi era venuta sguazzando in una spa che mamma, durante l’ultima trasferta con famiglia al seguito per uno spettacolo di risate sarcastiche, aveva voluto visitare a ogni costo: una vasca tonda e marmorea dove diffondevano musica sott’acqua. Pessima musica. Ottima idea. Meglio il mare, comunque. Le sensazioni che la musica dà al largo non sono le stesse che dà sulla terraferma.

Prima di incontrare Alberto però non avevo ancora sperimentato l’ascolto alla deriva, in solitudine, e siccome quel pomeriggio mi era venuta voglia, ho preso in prestito la tavola di Dario e mi ci sono sdraiata sopra: una bracciata via l’altra, d’impegno, finché la spiaggia non si è ridotta a una sciabolata gialla. Allora mi sono messa seduta e poi sdraiata a pancia insù, tutto in equilibrio sulla tavola. Infine ho chiuso gli occhi. Ero là, cullata dal moto leggero e solleticata dalle onde che, sbordando fresche, mi risalivano sui fianchi, sulle costole, quando una voce si è fatta strada malgrado gli auricolari. “Ehi! Tutto bene?” Un gommone, a nolo perché ho riconosciuto il logo del noleggiatore Giovà sul motore. A bordo cinque sconosciuti. Ragazzi di fuori. Uno se ne stava a prua con un costume ricamato da palme verdissime. In piedi. Chiudeva le mani attorno alla bocca e insisteva. Allora mi sono rimessa seduta, gambe a mollo nella distesa blu così impenetrabile sotto di me e aperta tutt’attorno. “Se non stai attenta arriverai in Africa. Potremmo darti un passaggio…” Non mi ero accorta di quanto le correnti mi avessero già portato al largo.

“No, grazie.”

L’ho rivisto il giorno dopo. In via Roma. La gelateria di vecchi, coppiette, passeggini. Una bolgia, quel posto, e i gusti hanno tutti lo stesso sapore. Solo colori. La mia preferita era in corso della Repubblica, mi ci portava nonno Karl: è stato lui a insegnarmi che una gelateria può dirsi tale se il pistacchio è salato e il limone asciuga le gengive. Purtroppo la gelateria di corso della Repubblica ha chiuso tre anni fa e adesso ci sono Belamir e Riccardo che fanno kebab, quindi ero a quella di via Roma, in mezzo a gente in costume da bagno o pareo che tornava in appartamento/albergo per pranzo, pennichella o chissà. Che poesia. Con me c’era Monica. Siamo state compagne alle medie e in estate, se Evelina manca, la chiamo. Usciamo. Capita. Così noi due eravamo là, io cono pistacchio e fragola, lei granita alla menta. “Ehi, ragazza alla deriva?” Non mi è sfuggito il capriccio nei suoi occhi. La nota interessata nella voce. “Ti piacerebbe,” ho risposto. Ero in forma smagliante. E Monica ha attaccato bottone. Anzi, tanto ha ammiccato, che Alberto e amici ci hanno dato appuntamento per sera. Monica non stava nella pelle, io ero curiosa, quindi ci siamo andate. Dopo il giro dei locali siamo finiti in spiaggia. Io camminavo accanto ad Alberto, ogni passo più in disparte. Ci siamo rivisti per dodici giorni. Ma ogni giorno un minuto, un’ora in meno. Fino alla sua partenza.

Belle braccia, Alberto. Belle labbra. Spiritoso. Eppure più ci ripenso più mi convinco che il suo fascino, ogni cosa del suo fascino, ce l’avevo io negli occhi. Cioè, Alberto aveva oggettivamente belle labbra, belle braccia ed era spiritoso, ma perché lui? Estraneità, credo. Non che fosse la prima volta. In estate succede di conoscere gente di fuori. È normale. E dopotutto i ragazzi di fuori non sono tanto estranei. Persino Alberto non era eccezionalmente diverso da un bel tipo del Galilei, ma i modi spicci, la lingua sciolta, i capelli… Be’, si presentava come una versione migliorata dei ragazzi che conoscevo. La migliore.

Tre giorni. Tanto è durata la seduzione. Perché in sua compagnia provavo una delusione che, pezzo a pezzo, ha sostituito il brivido della scoperta. E se dovessi isolare una singola cosa che dica quel lento processo di disillusione e monotonia sceglierei le nottate di sms. I miei erano in vacanza, è vero, ma non potevo sempre fare mattina. In pratica, Martina aveva traslocato da noi e faceva la doccia dove la facevo io, dormiva insieme a Dario, e spesso mio fratello era felice di una serata casalinga con lei, orologio sott’occhio e genitori che gli ricordavano le responsabilità del fratello maggiore in versione papà. Senza contare che mio padre numero uno aveva promesso a mamma di controllarmi: pretendeva che cenassimo insieme, e non ha mai chiamato tanto spesso per sapere dov’ero e con chi. Insomma, non potevo stare con Alberto ventiquattr’ore su ventiquattro, e quand’ero costretta a tornare a casa controvoglia, scrivevo. E lui rispondeva. Io me ne stavo a letto con l’aria condizionata, lo immaginavo in discoteca circondato da ragazze, o ubriaco sul molo con la cricca di amici, a lanciare bottiglie ai pesci, ma lui rispondeva. E rispondendo era come se si schiudesse. Sms dopo sms. Le spiritosaggini sembravano lasciar intravedere cosa lo divertisse per davvero e cosa, invece, lo ferisse. E le paroline… Purtroppo alla luce del sole Alberto tornava a impersonare il ragazzo incontrato mentre andavo alla deriva. E la colpa non era degli amici. Sì, alcuni erano idioti da esclamazioni tipo “Superporno!”, per intenderci, solo Monica poteva cascarci, però non avevano tutta questa influenza su di lui. Alberto era lo stesso con loro e con me quand’eravamo noi due soli. Rideva con me come rideva con loro, si arrabbiava con me come si arrabbiava con loro, e se guardava me, be’, non era come se guardasse loro, ma a parte quello era lo stesso. Ricapitolando: Alberto era la versione migliore dei ragazzi di qui e si comportava allo stesso modo con la cricca e con me. Tranne che per i messaggi notturni. Diverso a parole. E da qui è venuto il cortocircuito. Affascinata dalle sue labbra, da Alberto in quanto esemplare migliore dei ragazzi con cui trascorrevo il resto dell’anno, dopo ogni notte di sms mi scoprivo pescatore. E io i pescatori non li capisco.

I pesci non c’entrano. Non sono vegetariana, vegana o altro, né un’animalista fanatica. Il pesce lo mangio. Però fatico a comprendere il senso di quello stare là canna in mano: il divertimento? Una lenza cui appendere la speranza. Un amo che spesso non trova niente. A cui non abbocca niente. Per quanto il pescatore si ostini a credere che là sotto è tutto un brulicare: gliel’ha detto qualcuno, prova, io ho tirato su un bestione così. Giorno dopo giorno gettavo l’amo col sogno di cavare di bocca ad Alberto una delle tante parole scritte che lo rendevano speciale di notte, un significato, un brandello della me che si riconosceva in ciò che lui digitava. Invece l’attività era così infruttuosa che il penultimo giorno, rincasata dopo mezzanotte, sono scoppiata a piangere proprio mentre Martina si trascinava scapigliata in cucina per bere. E quella testa di ricci biondi ha iniziato a chiedere: “Successo qualcosa?” Quando l’ho mandata all’inferno Dario mi ha accompagnato in camera, mi ha fatto sedere sul letto e con calma, calma, ha voluto sapere. Pur di chiuderla lì ho giurato che non doveva preoccuparsi: c’era un ragazzo, Alberto, ma il problema non era poi questo problema perché avevo sempre saputo che era una passione a scadenza.

E così posso finalmente tornare alla bugia. Cioè all’altra bugia rifilata a Dario, che trovandomi fradicia nell’ingresso dopo il pomeriggio di appostamento mi ha domandato: “Un ragazzo, capisco. E ti piace sul serio oppure è a scadenza come tutti gli altri? Come si chiamava l’ultimo… Alberto?”

“Sì, si chiamava Alberto. E no, non è la stessa cosa. Ma ho paura che stia uscendo con un’altra. Non è che mi aiuteresti a pedinarlo?”