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Baciatore, Matteo. Mai baci e basta. Baci che erano sempre andiamo, movimento, evvai, voglio baciarti e accarezzarti e tutto il resto e scattiamo una foto di noi che ci baciamo e se tua madre sta per entrare non m’importa e… Insomma, soddisfare Matteo e tenermelo stretto è stato impegnativo. Ma ci vediamo, non ci vediamo, vieni da me, ci siamo frequentati quasi esclusivamente al Galilei o tra le quattro pareti di camera mia, e questo ha facilitato le cose.

Mi dispiace di averne approfittato. Fosse capitato in un altro momento, magari ci saremmo fidanzati, sposati… No, sincerità. Come Alberto in estate e gli altri prima di lui, Matteo era una delle versioni migliori di ragazzo che conoscevo, ma fin dalla prima volta da Nello, pur senza averlo confessato a Evelina che gongolava all’idea di noi fidanzate con due musicisti della stessa band, avevo intuito che si sarebbe trattato di un rapporto a scadenza. L’interesse sarebbe calato. La noia avrebbe preso il sopravvento. La realtà sarebbe venuta a cercarsi il mio grugno spazzando via ogni illusione prima che altro mi attirasse. Lo sapevo. Me l’aspettavo. Chissà che in fondo non lo desiderassi. Eppure ho posticipato la data di scadenza di un giorno, e poi un altro, e ancora, perché una scusa del genere faceva comodo.

“Mamma, vado a studiare da Matteo.”

“D’accordo, ma studia, e testa sulle spalle.”

“Mamma, vado alle prove di Matteo.”

“D’accordo, ma fa’ i compiti, e testa sulle spalle.”

A mamma lui piaceva, ma devo dire che se l’è cavata bene con tutti i membri della famiglia. Persino con Dario, sempre diffidente nei confronti dei ragazzi con cui esco. Presentandosi alla porta Matteo salutava con garbo, e quando mamma gli offriva un caffè o altro se ne usciva sempre con la cosa giusta da dire. “Non ne parliamo più, Matteo. L’aula magna allagata non ci voleva. Ma sappi che stiamo tentando di organizzare una proiezione alle Vele.” “Ne sono felice, signora. Volevo proprio vederlo, quel film, e se la scuola riesce a organizzare evito di scaricarlo.” Non era accomodante, e alcune sue opinioni, che mio padre numero due definiva “da musicista”, suscitavano stupore, ma disapprovazione assoluta mai. Il modo in cui si poneva, la gentilezza che mostrava nelle discussioni, la capacità di ascolto lo facevano apparire come un tipo a posto. Forse Matteo desiderava apparire così, considerato che a lui mentivo dicendogli che mamma mi vietava spesso di uscire, mentre a lei dicevo che uscivo con lui. Un tipo a posto era la scusa perfetta.

Avevo da fare e mi serviva il tempo di fare. Cosa? Bicicletta in via Mendel. Anzi, la bicicletta l’ho presto lasciata in garage, e non perché via Mendel disti a malapena cinquecento passi da casa mia. È che Radice Quadrata, come suggeriva l’intuito poliziesco ereditato da nonno Karl, stava già tenendo d’occhio il civico 21. Cioè il palazzo dove aveva abitato Angelo Urbani. E io non avrei potuto presentarmi là sui pedali senza che mi notasse. Così infilavo le Dr. Martens e la giacca impermeabile perché sì, pioveva ancora, sempre, in tivù ripetevano che nella secolare storia climatica del paese non si era mai verificata una stagione tanto piovosa, ma insomma imbacuccata a dovere mi posizionavo tra via Mendel e via Lagrange. All’incrocio. Da morire dal ridere. Io osservavo Radice Quadrata da lontano, e lui osservava il civico 21 passeggiando sul marciapiede. A prima vista poco preoccupato che l’assiduità della sua presenza estranea potesse destare sospetti.

Ma in realtà non c’era poi tutto questo andirivieni. Via Mendel è una tranquilla viuzza residenziale e Radice Quadrata ci andava subito dopo la scuola, ombrello scozzese e andatura grave. Ci restava fino all’ora di cena. A volte addirittura oltre. Poi ha ridotto l’appostamento alle ore centrali del pomeriggio. Perché? Me lo sono domandato e ridomandato, e la risposta a cui sono giunta è la seguente: gli inquilini del civico 21 hanno all’incirca l’età della compagna di Angelo Urbani, che malgrado il lutto non aveva traslocato, non ancora, magari ci stava pensando: fatto sta che l’ho adocchiata più volte. Di bambini, invece, solo due. In passeggino. E la deduzione più ovvia era che gli inquilini del civico 21 fossero giovani coppie che, verosimilmente, uscivano la mattina per il lavoro e rientravano la sera, pranzando talvolta a casa. O sfaccendati che sfaccendavano fino a mezzogiorno ma poi uscivano. Se infatti ignoro cosa accadeva in via Mendel durante l’orario di scuola perché mi trovavo al Galilei, posso testimoniare cosa accadeva dopo pranzo perché ero là, e ho visto coi miei occhi quei volti sempre più familiari allontanarsi, chi in auto chi a piedi, e restare via il pomeriggio per rincasare all’ora di cena. O più tardi. L’unica eccezione erano due vecchiette e un vecchietto che pareva corteggiare entrambe.

Mi ci sono voluti giorni e una sostanziosa dose di fortuna. Anzi, doppia dose di fortuna. La prima riguarda il tempismo, perché mica potevo sempre restare in via Mendel quanto Radice Quadrata. La ragione stava nelle aspettative altrui. Dovevo farmi vedere a casa, sennò mamma si sarebbe insospettita e lagnata di compiti/studio trascurati e voti che iniziavano a lasciar trasparire disinteresse per il rendimento scolastico – ma lei non ne era al corrente. Poi dovevo frequentare Matteo e sprofondare controvoglia nel divanetto ammuffito della sala prove degli Zeroes, ma ogni tanto era necessario darla vinta a Evelina pur di non solleticarne la curiosità: “Ma stai uscendo con qualcun altro?”

Quanto alla seconda dose di fortuna, be’, me la sono meritata.