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Che la prof Gualmo non sia voluta mancare è scontato. Più difficile decidere se l’esperimento la incuriosisse o infastidisse: non tanto perché italiano è materia sua e Sortino si era servito di De Amicis, ma perché lei si reputa un’autorità. Un punto di riferimento per i genitori. E suo malgrado l’Orrido stava riscuotendo successo. È pure possibile che la presidenza avesse incaricato in via riservata la Gualmo di sorvegliare le strane iniziative dell’ultimo arrivato, ma ripensandoci è ovvio che la prof volesse innanzitutto vigilare su Rebecca, sua protetta: “Poiché i vostri racconti si ispirano a un caposaldo della nostra letteratura, il professor Sortino mi ha chiesto di presenziare.” Tre mesi fa ero tanto sciocca da illudermi che la Gualmo potesse rivelarsi una formidabile alleata in una eventuale guerra di logoramento contro l’Orrido, ma non ero ancora pronta a inimicarmelo del tutto: se il mastino Gentili non si fosse più riavuto dall’ictus e avessi dovuto tenermi l’Orrido fino alla maturità?
Così per il racconto di Rebecca mi sono imposta il silenzio. Nelle prime settimane di lezione avevo già provocato abbastanza, non volevo che l’Orrido mi prendesse di mira. Se ci fosse stato da commentare, lo avrei fatto da casa. Al sicuro. Del resto quel giovedì, a non starsene zitto e buono era Radice Quadrata. Era un suo vezzo, partecipare – cioè aprire bocca – almeno una volta al giorno, ma quel giovedì non si trattava del solito vezzo.
“A me non pare.”
“E invece a me pare che il racconto sia ben costruito, verosimile. Rebecca ha rielaborato un fatto di cronaca per sviluppare temi importanti: il culto dell’immagine, la scarsa autenticità delle relazioni, l’affermazione e la ricerca individuale… Per non parlare della qualità della scrittura.”
Nelle intenzioni dell’Orrido, la discussione avrebbe dovuto svolgersi in autonomia: ragionamento sciolto di noi alunni. Nelle intenzioni. Perché l’Orrido aveva finito per spalleggiare la prof Gualmo, che per difendere il lavoro di Rebecca torchiava Radice Quadrata. Il quale dubitava. Pacatamente, ma senza cedere. E io, be’, desideravo l’invisibilità o un qualsiasi altro superpotere. Teletrasporto, per esempio: svanire, puff, e riapparire altrove perché la prof Gualmo, in piedi accanto alla cattedra, dialogava con Radice Quadrata, mentre l’Orrido era a tre passi dalla nostra coppia di banchi. Senza contare che quel giovedì Radice Quadrata pareva chissà come dotato, lui sì, di un superpotere: leggermi nei pensieri. Dare fiato a un’avversione che sentivo mia.
“Invece a me no.”
Rebecca si era presa gioco di me. Di noi. Mica serviva un genio per capirlo. Il racconto era malizioso. Scolastico. Un esercizio di opportunismo. Faceva pena. Eppure sia l’Orrido che la prof Gualmo ci erano cascati. Ma nonno Karl mi aveva educato quand’ancora gli restava un po’ di cervello. Spesso, riferendosi velatamente a mamma, della quale temo non avesse una buona opinione già prima del divorzio, ripeteva: “Al mondo c’è gente che dice quello in cui crede col cuore, e gente che apre bocca solo per farsi apprezzare dai suoi simili. O per ottenere qualcosa. I secondi a me fanno schifo. Vedi di non fare schifo.” Prima del licenziamento e della pensione, nonno Karl aveva lavorato ai Cantieri Navali, e nel corso di quei quarant’anni aveva preso l’abitudine di leggere quotidianamente il giornale prima di cena, quando tornava a casa. Non l’aveva mai persa, quell’abitudine: “Questo fa schifo. Questo non fa schifo.” Divideva sempre il mondo in due, senza spiegarsi meglio, a meno che non lo pregassi.
E se quel giovedì Radice Quadrata non stava proprio dividendo il mondo in due come nonno Karl, be’, faceva qualcosa di simile. La prof Gualmo pressava lui invece di Rebecca, l’Orrido lasciava fare, ma Radice Quadrata ribatteva senza scomporsi, tenendo testa a entrambi. È stata una delle rare volte in cui l’ho trovato meno antipatico. Simpaticamente odioso. Evento memorabile, visto che durante il primo periodo di convivenza forzata, noi e la nostra coppia di banchi, avevo dovuto reprimere sette volte a settimana l’impulso di prenderlo a schiaffi per quella faccia tosta e trista. Quella sua aria da snob o, chissà, da criminale a cui non fregava di noi bambocci. Eppure in ricordo di quel giovedì, nel taccuino con l’elastico dedicato a ottobre, lui annota a malapena una frase: La ragazza che fa schifo e chi se ne importa.