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Lo so a memoria quel venerdì. Centimetro per centimetro. Secondo per secondo. Dalle sei-e-quarantaquattro dell’alba. Dopo un’altra notte inquieta. Lo so da quando, liberandomi dal groviglio di lenzuola e piumone, ho trovato ad attendermi sul comodino il maledetto display che si ostinava a dire l’ora. E nient’altro.

Doccia, quindi. Lavare via il poco sonno e asciugare i capelli a colpi d’aria fredda per non surriscaldare il cervello già stremato dal lavorio sulle ipotesi. Colazione. “Andiamo.” Nel tragitto mia madre ha blaterato ininterrottamente, troppo entusiasta per accorgersi di sfidare l’arancione dei semafori. Di rado le consento di accompagnarmi, chi viene scaricato ai cancelli dai genitori è sfigato, ma aveva insistito, e siccome le avevo già proibito categoricamente di presentarsi alle Vele, non era disposta ad accettare ulteriori resistenze: né l’argomento consueto, la bicicletta, né l’argomento straordinario di quel venerdì, il sole. Sì. Una parte di cielo era sgombra. Nella notte, sveglia a intervalli irregolari per controllare l’iPhone, avevo sempre ritrovato l’ottuso picchiettio contro le imposte, invece, fresca di doccia, aprendole avevo scoperto le nuvole correre sfrangiate verso un angolo dell’orizzonte. Luce. Aria pungente. Tanto che sotto i pneumatici del traffico l’asfalto ancora annerito dal diluvio caduto per settimane mandava un luccichio di microscopici cristalli di ghiaccio.

“Fammi sapere del film.”

“Ciao, mamma.”

Davanti ai cancelli di ruggine e volantini del Galilei, in compagnia degli amici, Matteo. Sigaretta. Occhi. Una speranza, magari. Un’illusione. Che potessi ricredermi. No, sono entrata. L’androne. Il saluto pigro dei bidelli in camici slargati dall’uso. La decadenza di muri e corridoi, in bella vista ogni giorno. “Ehilà!” La soglia dell’aula. Compagni. Il mio banco. Il banco accanto al mio. La mancata risposta al messaggio della sera prima apriva un gran numero di possibilità, ma sotto la doccia le avevo ridotte a due: o Radice Quadrata si sarebbe mostrato rancoroso e vendicativo, o sarebbe rimasto a casa scioccato. Invece era seduto al posto. Apparentemente quieto.

Un cenno del capo mentre il clima festoso di quella mattinata particolare si esprimeva attorno a noi, e proseguiva sommessamente dopo l’arrivo della prof Artiani, fisica, unica lezione prima del trasferimento alle Vele e della proiezione. A seguire, dibattito con un esperto di droghe: esperto in cosa e in che senso non saprei. Comunque, dopo quarantacinque minuti su velocità e accelerazione vettoriale in cui non ho fatto altro che tenere d’occhio Radice Quadrata, la campanella è suonata, e lui ha infilato le sue cose nella tracolla.

In autobus sono rimasta aggrappata a uno dei sostegni insieme a Tania. Oltre alla nostra terza, a bordo c’era la quarta B, la classe di Matteo e Davide, al quale Evelina si teneva stretta con passione. Radice Quadrata invece parlottava con Luke, ma origliare era impossibile. Comportamento, espressione del viso, nessun indizio che suggerisse cosa aveva provocato il mio sms.

Varcare la soglia di un centro commerciale nelle prime ore di un giorno feriale non mi era mai capitato. Profumo di cornetti, starnuti delle macchine per caffè/cappuccino, strani veicoli che aspiravano e lucidavano pavimenti, addetti solitamente invisibili impegnati in faccende misteriose. Malgrado la scarsità di clienti, l’attività ferveva: in ogni vetrina del pianterreno e del primo piano si agitavano commesse e commessi che disponevano lucette, allestivano espositori di novità, decoravano, creavano insomma l’atmosfera del periodo natalizio. L’Orrido e la prof Gualmo, i nostri accompagnatori, hanno dovuto faticare un po’ per tenerci uniti e scortarci al secondo piano.

La biglietteria del multisala era chiusa. Secondo i monitor informativi, il primo spettacolo era in programma per le 15.30, dunque era facile dedurre che la proiezione delle 10.15 di Una per ogni stagione fosse riservata a noi studenti. Anzi, era stata organizzata appositamente per noi, che non abbiamo dovuto preoccuparci del biglietto. Ci aveva già pensato la scuola. Il bar del multisala però era in funzione, ed è stato preso d’assalto. Popcorn, patatine, lattine, schifezze, finché seguendo le indicazioni di un tizio in giacca e cravatta e l’eco degli insegnanti ci siamo riversati nella Sala Rossa, grande, più di trecento posti: tutte le sei sezioni di terza e di quarta del Galilei. Le quinte avrebbero visto il documentario nella Sala Blu, meno capiente, più esclusiva.

Una mandria di trecento esemplari radunata in un’unica sala produce un baccano infernale, soprattutto se hai un lieve mal di testa da poco sonno, e può costituire un organismo in continua evoluzione in cui è difficile muoversi. Già l’ho detto che il tempismo non mi manca, era stato l’Orrido a vanificare i miei sforzi del primo giorno dell’anno coi suoi bigliettini numerati, ma quel venerdì non c’era da sgomitare: gli insegnanti avevano già stabilito i posti. Alla mia terza, sezione F, ultima in ordine alfabetico fra quelle del Galilei, toccava parte della fila A da condividere coi docenti e l’intera fila B. E siccome Rebecca e il suo branco sono state costrette in prima fila, una decisione della prof Gualmo che voleva accanto la sua protetta, ho dovuto battermi poco per accaparrarmi le poltroncine centrali della B. È stato sufficiente uno spintone per aprire la strada all’ossuta Tania e a un’Evelina imbronciata, cioè rammaricata che Davide si trovasse decine di file più su insieme ai compagni di quarta. A una particolare compagna che gli faceva il filo: “La vacca.” Radice Quadrata si è accomodato all’estremità sinistra della fila B, accanto a Luke.

Ricordo bene l’oscurità calata sulla sala tra confezioni dissigillate e lattine stappate, e ricordo benissimo il fascio compatto di luce del proiettore, che allungandosi sopra trecento teste ragazze è arrivato a toccare il telo bianco di fronte a noi, donandogli vita. E della decina di clip che precedevano il film documentario ricordo in maniera più vivida le ultime tre. Nella prima, un concorrente di reality canoro giaceva su un divano dall’aspetto scomodissimo, ma che lui invitava ad acquistare in comode rate. “È un fico, ma Davide è più fico, e di musica ci capisce di più,” è stato il commento di Evelina. Nella seconda, invece, c’era Picciò. Giuro. Con la sua faccia idiota si rivolgeva a una modella in bikini striminzito versione natalizia per avere un contratto telefonico assurdamente vantaggioso. “Wow,” ha sussurrato Tania riferendosi al fisico della modella. Nella terza pubblicità niente volti noti, ma un signor nessuno occhialuto, due bottoni di camicia aperti sul petto e barba curata. Accomodato in poltrona in un luogo immacolato, maneggiava un tablet su cui l’inquadratura andava a stringere progressivamente, così da mostrare un grafico di linee segmentate tipo profilo montuoso mentre una voce rotondissima di donna diceva: “Desideri migliorare i tuoi investimenti? Lo desideri? Allora non aspettare, scegli il nostro sistema e…” Basta. E non perché la memoria si rifiuti. Improvvisamente il fascio compatto di luce del proiettore si è spezzato, e lo schermo è tornato a essere un telo bianco senza vita né storie né illusioni. Pochi secondi dopo, il soffitto ha mandato un lungo, articolato, sinistro ruggito. Il verso di un gigantesco animale ferito a morte che sta per crollare a terra.