37

 

La sua faccia era una maschera di Halloween, gli occhi incastonati in due recessi scuri, le guance scavate, la mascella ombreggiata di barba.

«Di’ qualcosa.» La domanda latrata di Slidell uscì crepitando dal telefono.

Me lo portai all’orecchio, lo sguardo avvinto a quello dell’uomo che avevo di fronte.

«Tutto okay.»

«Checcazz…»

«È un amico.» Tono pacato, celando l’emozione che mi montava dentro. «Sto bene, grazie.»

Chiusi la comunicazione e rimasi immobile, incerta sull’atteggiamento da tenere. Allegria? Rabbia? Semplice indifferenza?

Accesi la lampada della veranda. Alla luce morbida, giallastra, distinsi il reticolo di venuzze rosse sul bianco dei suoi occhi.

«Hai un aspetto orribile.» Optando per l’umorismo.

«Grazie.» La voce di Ryan era roca e sommessa.

«Devo provare a riavviarti?»

«Non funziona.»

«Entra.»

Non si mosse.

«Se ti lascio qui fuori, ti aggirerai per il quartiere, spaventando i vicini.»

Normalmente, mi avrebbe risposto con una battuta velenosa.

«Disturbo?» Tono neutro.

«Stavo per ripulire il cestello dell’asciugatrice.» Restando sullo scherzoso.

«Ho la netta sensazione che lascerai perdere.»

Sorrisi.

Sorrise anche lui. Più o meno.

Mi feci da parte.

Si abbassò a raccogliere un oggetto cubico coperto da un drappo ai suoi piedi. Quando mi passò accanto, sentii un campanellino. E raschiare. Ryan odorava di sudore e sigaretta.

Chiusi la porta e mi voltai.

Si piazzò al centro della stanza, un po’ spaesato. Era dimagrito e smunto, scarno.

«Ha detto che voleva andare a sud.» Togliendo la copertura dalla gabbia.

Charlie, il pappagallo che abbiamo in comune, pareva spaventato, ma gli uccelli lo sembrano sempre.

Indicai il tavolo della sala da pranzo. Ryan ci posò il pennuto e ritornò in soggiorno. Io sprofondai nella poltrona e rannicchiai le gambe.

Lui sedette sul divano, senza appoggiarsi allo schienale. «La casa è carina.»

«Non ci venivi da un po’» commentai.

«Già.»

«Sono contenta di vedere tutti e due.»

L’orologio della nonna ticchettò nel silenzio per trenta secondi buoni. L’atmosfera era tesa e imbarazzata.

«Come sta Bird?» chiese Ryan.

«È sempre il re del castello.»

Annuì, ma non chiamò il gatto come avrebbe fatto di solito.

«Caffè?» domandai.

«Sì, grazie.»

Andai in cucina e lui non mi seguì. Accesi la macchinetta e pensai a tutte le volte in cui ci eravamo divisi quel compito, macinando i chicchi, misurando l’acqua, discutendo se il prodotto finale fosse troppo forte o troppo lungo. Che diavolo era successo?

Quando tornai di là, Ryan era proteso in avanti, i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte che vi pendevano in mezzo con le dita intrecciate.

Accettò la tazza fumante, poi girò la testa e fissò lo sguardo fuori dalla finestra. Per non guardare me?

Ripresi posto in poltrona, le gambe infilate sotto il sedere. Corazzandomi in previsione delle parole che stavo per sentire: il distacco definitivo.

Alla fine gli occhi di lui ruotarono nella mia direzione. Posò il caffè che non aveva toccato. Si schiarì la gola. Deglutì.

«È morta.»

«Chi?» Completamente colta alla sprovvista. «Chi è morta?»

«Lily.» Un sussurro strozzato.

Pronunciare il nome di sua figlia scatenò un torrente di emozioni, che, evidentemente, si era sforzato di contenere. Le narici sbiancarono e il suo respiro si fece affannoso.

Una bolla di calore mi si formò nel petto. Le lacrime minacciavano di sgorgare.

No!

Volai al divano e lo trassi a me, stringendolo forte. I singhiozzi gli scuotevano le spalle. Sentii umido sulla camicetta.

«Mi dispiace tanto» mormoravo senza sosta, consapevole della mia impotenza di fronte a un simile dolore. «Mi dispiace così tanto. Così tanto.»

Alla fine, Ryan s’irrigidì, si staccò da me. Appoggiò la schiena e si passò i palmi sul volto.

«Capitan America a rapporto.» Sorrise, imbarazzato.

«Piangere va bene, Ryan.» Gli presi la mano.

«Le lacrime di un uomo.»

«Sì.»

Inspirò, poi espirò lentamente. «Ho pensato fosse giusto dirtelo.»

«Ma certo.»

Si tolse un fazzoletto dalla tasca dei jeans e si soffiò il naso.

«Quando?» chiesi piano.

«Dieci giorni fa.»

Non c’era da sorprendersi che non avesse risposto alle mie chiamate. Fui sopraffatta dal rimorso, benché con una punta di risentimento. Perché non aveva cercato il mio appoggio?

«Cosa è successo?» chiesi.

Ma ero certa di conoscere la risposta. Ryan mi aveva raccontato le recenti vicissitudini della figlia: l’escalation nell’abuso di sostanze stupefacenti, culminata con una dipendenza da eroina, il boyfriend spacciatore, l’arresto per furto in un centro commerciale… Ero una delle poche persone con cui si era confidato.

L’anno prima, Lily aveva dato l’impressione di voler cambiare vita. Sembrava felice, era entrata in comunità.

Cosa sappiamo veramente degli altri?

«Overdose.» Ryan si batté un colpetto su una tasca, poi ricordò che era in casa mia e la mano gli ricadde in grembo.

«Fuma pure.» Non che ne fossi felice: odio l’odore, odio quel che le sigarette finiscono inevitabilmente per fare a lenzuola e tappeti – nonché alle persone – ma gli serviva una stampella per rinsaldare i nervi.

Andai in cucina a cercare un posacenere, sapendo di non averne. Tornai con un piattino.

Scosse il pacchetto per far uscire una Camel. Mentre l’accendeva, notai il tremore della mano.

«Ciascuno sceglie il suo veleno, immagino» disse.

Lo guardai inspirare, trattenere il fumo nei polmoni, emetterlo lentamente dalle narici.

«L’hanno trovata in una villetta disabitata che usavano per andare a bucarsi.»

Ero stata in una «tana» di eroinomani, una volta, nell’ambito delle operazioni di recupero di un cadavere. Rivedevo ancora l’orrore. Materassi macchiati. Insetti. Aghi usati. Il tanfo di urina e feci.

«Portava una T-shirt che avevamo preso a Honolulu. Le piaceva, mi aveva fatto imparare a memoria la scritta.» Di nuovo, la voce s’incrinò. «Hele me kahau ‘oli

Allungai la mano a carezzargli il volto.

«“Va’ con gioia”» tradusse.

«Hai fatto tutto quello che potevi, Ryan.»

Una lacrima gli corse lungo la guancia. L’asciugò bruscamente con il dorso della mano. Fece un altro tiro.

«A quanto pare, non era abbastanza.» Amaro.

Cosa potevo dire?

Quando Ryan aveva saputo dell’esistenza di Lily, lei era già un’adolescente; non l’aveva mai tenuta in braccio da bambina, condividendo con lei le gioie o le paure dell’infanzia. Sapevo che aveva sempre rimpianto di essersi perso quegli anni, che si sentiva responsabile della sua dipendenza. E ora della sua morte.

Per la legge, Lily era un’adulta: Ryan non poteva decidere per lei come vivere o che cosa fare. Non riuscivo nemmeno a immaginare il dolore e il senso di colpa che avrei provato se fosse accaduto qualcosa a Katy.

Essere genitori trascende la razionalità. Si pensa sempre che si sarebbe potuto fare di più; ci si accusa quando le cose vanno male.

«Avrei dovuto dedicarmi più a Lily e meno al lavoro, a sconosciuti che neanche sapevano il mio nome. Avrei dovuto concentrarmi su di lei, su mia figlia.»

Era una ferita aperta. Non c’era nulla che io potessi fare, a parte ascoltarlo.

«Strane le cose che ti tornano in mente. Momenti senza importanza. Una volta era venuta in camera mia a farmi sentire una canzone appena scaricata da iTunes. Ricordo esattamente qual era: Over the rainbow/What a wonderful world di Israel Kamakawiwo’ole.»

Occhi spiritati perlustrarono il mio volto. «È tutto ciò che abbiamo avuto, Tempe? Tutto ciò che ho saputo darle? Una cazzo di vacanza alle Hawaii?»

Posai la mano sulla sua. «Certo che no.»

«Allora perché ogni ricordo è legato a quel viaggio?»

«È ancora troppo presto.»

Sbuffò leggermente. Scosse il capo.

«Rimani qui» dissi. «Per tutto il tempo che vuoi.»

«Devo andare.» Lungo tiro di Camel, poi la spense, schiacciando il mozzicone sul piattino.

«Adesso?» Incredula.

«Mi dispiace.» Si passò la mano tra i capelli sporchi. Un gesto così familiare che mi spezzò il cuore.

«Andare dove?» chiesi.

«Via.»

Lo guardai, una domanda negli occhi.

«Devo muovermi. E continuare a farlo.»

«Ryan…»

«Mi dispiace.» Si alzò e s’avviò verso la porta.

«Ti prego» implorai. «Resta.»

«Non sono in condizioni di avere gente intorno.»

«Dove sei diretto?»

Esitò. «A sud.»

«Puoi prenderti lo studio. Io sono occupata con un caso: quasi non mi vedrai.»

«Non posso, scusami.»

Lesse nella mia espressione qualcosa che non c’era.

«Hai ragione. È stato un errore, solo che…»

«Un errore?» ripetei, celando a mala pena la rabbia e il dispiacere.

«Non sapevo dove andare.»

«Rimani, Andy.»

«Non c’è niente che tu possa fare. Che nessuno possa fare.»

Ciò detto, uscì.

Corsi alla porta e lo guardai sparire nell’ombra, le lacrime che mi bruciavano sulle guance.

A metà del vialetto, si fermò, voltandosi, e tornò lentamente indietro, verso la veranda.

«Mi dispiace moltissimo.»

«Vorrei che mi permettessi di aiutarti.»

«Lo hai già fatto.»

Aprì le braccia e volai da lui. Le richiuse su di me, il mio corpo che aderiva al suo.

Mi strinse forte. Inspirai l’odore di fumo e cuoio, un accenno di colonia.

In quel momento, i fari di un veicolo svoltarono sul vialetto e illuminarono le nostre sagome avvinte. Accecata dalla luce, non riuscii a distinguere se appartenessero alla pattuglia di sorveglianza di Slidell.

La vettura accelerò, passandoci accanto, e girò a destra sulla Queens.

Flash nella mia mente: una scatola, una lingua mozzata, un viso gonfio e insanguinato.

Scambiando la mia improvvisa rigidità per un commiato, Ryan si scostò da me.

«Mi mancherai.» Baciandogli la punta delle dita e premendole sulla mia guancia.

Non te ne andare. Forse pronunciai le parole o forse le pensai soltanto.

Ryan percorse il vialetto con passo deciso e girò l’angolo. Sentii sbattere una portiera, accendersi un motore.

Richiusi la porta con il chiavistello e ci restai appoggiata contro, sforzandomi di rielaborare l’accaduto. Non aveva chiesto di Katy, del mio viaggio. Ero stata nei luoghi di una maledetta guerra e a lui non importava.

In quel momento di estrema sofferenza, Ryan mi aveva escluso e il suo rifiuto era come una lama nel cuore.

Rimasi scioccata dai miei stessi pensieri: sua figlia è morta e a te scoccia che non ti abbia chiamato per informarsi sulle ultime novità? Sei diventata davvero così egocentrica?

Mi staccai dalla porta, vergognandomi della mia meschinità. Avevo già un piede sulle scale, quando suonò il telefono.

Sperando fosse Ryan, risposi al volo.

Non era lui.

«Yo, doc.»

«Che c’è, detective?»

«Hai l’entusiasmo di una trota morta.»

«Perché mi hai chiamata?»

«Ho una notizia che ti lascerà di stucco.»

Aveva ragione.