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La sola auto nel parcheggio dello Yum-Tum era la vecchia Ford Escort della sera prima, probabilmente di Shannon King.

Presi un mazzetto di volantini dal sedile del passeggero, scesi e mi diressi all’entrata. Un’auto mi passò accanto, rombando, e la ghiaia scricchiolò sotto i piedi.

Alla luce del giorno, riuscii a identificare alcuni degli esercizi vicini: un produttore di utensili e minuteria, un complesso con il prato antistante disseminato di lastre di cemento, un posto dove si eseguivano serigrafie, un aggregato di edifici cadenti che aveva l’aria di un vecchio motel riconvertito in un insieme di appartamenti.

Senza telefono, senza piscina, senza un cane in giardino, come cantava Roger Miller.

La vetrina anteriore dello Yum-Tum era tappezzata di annunci: alcuni recenti, altri – la maggioranza – ingialliti e con gli angoli spiegazzati. Mi fermai a leggerne qualcuno attraverso il vetro lurido.

Cani e gatti smarriti, e un parrocchetto (buona fortuna!); la pubblicità del concorso di Miss Maglietta Bagnata in un bar forse chiuso ormai da tempo; un’autrice che reclamizzava il suo libro pubblicato in proprio: Il potere della mente sul peso corporeo. Ci credeva davvero?

La King era dietro il bancone, intenta a sfogliare un numero di «OK!». Le palpebre impiastricciate di trucco si sollevarono quando entrai, accompagnata da uno scampanellio.

«Ciao, Shannon.»

«Ehi.» Tono elusivo.

«Mi chiedevo se non potrei attaccare qualcuno di questi.» Le mostrai i volantini.

Osservò l’immagine, lesse il testo che vi avevo accluso, con poche informazioni sull’incidente e sulla vittima, più il mio recapito all’MCME e quello di Slidell al Dipartimento.

«Okay.» Indicò la direzione del motel con il pollice. «Magari i bavosi degli appartamenti, laggiù, hanno visto qualcosa.»

Rovistò sotto la cassa, tirò fuori un rotolo di nastro adesivo e me lo porse.

«Li metta pure in vetrina.»

«Anche uno sulla porta, posso?»

Le sopracciglia scure si aggrottarono.

«Hai il mio numero: se il gestore avesse qualcosa in contrario, digli di chiamarmi.»

«Checcazzo, gli dirò che il coroner ha insistito.» Posò un volantino a un’estremità del bancone, a faccia in su. «Ne tengo uno qui. Sa, per vedere come reagisce la gente, se ha l’aria colpevole eccetera.»

Fantastico. Avevo una ragazzina morta in frigo e una figlia in zona di guerra: ci mancava solo la minidetective in stile goticheggiante.

«Va bene, Shannon, ma limitati a osservare. Non attaccare discorso con nessuno.»

«Mi prende per un’idiota?»

«Certo che no!»

Appesi i volantini e uscii, sentendomi addosso gli occhi di Gothic Queen.

La giornata cominciava a farsi più calda e la cortina di nubi si andava frammentando. Sporadici sprazzi di sole mi scaldarono le spalle e i capelli.

Tolsi la giacca e arrivai in auto all’ex motel.

Il complesso, ora denominato I pini, comprendeva un lungo parallelepipedo che appariva ben poco motivato a reggersi in piedi. La vernice che un tempo aveva rivestito le pareti in calcestruzzo ricordava ormai una distesa di piaghe sanguinanti. Ciascuna delle dieci unità abitative aveva una sola finestra con tende e una sbiadita porta blu.

Camere in affitto a cinquanta cent…

Gli affittuari dei Pini, presumevo, erano per lo più inquilini a breve termine: alcuni passavano a una sistemazione migliore, altri… a miglior vita. Nessuno ci restava a lungo.

Auto ammaccate attendevano sulla striscia d’asfalto di fronte al parallelepipedo, come ronzini legati fuori dal saloon. Infilai la mia nel gruppo e scesi.

Bussai ai primi sei alloggi senza ottenere risposta. Feci scivolare un volantino sotto ogni porta e proseguii.

Ai numeri sette e otto mi aprirono donne dalla pelle scura, esclamando: «No comprendo», e la situazione non mutò quando tentai di porre le mie domande in spagnolo. Con occhi impauriti, presero il volantino e si affrettarono a rientrare.

Al nove, un uomo a torso nudo aprì di uno spiraglio, poi richiuse, sbattendo, prima che riuscissi a dire una parola; al dieci una voce latrò: «Fuori dai coglioni!».

Obbedii.

Percorrendo la Old Pineville e la piccola rete di arterie intorno alla Rountree, affissi l’immagine della ragazza ad alberi, palizzate e pali della luce, nonché a una sbarra oltre cui si estendeva un bosco, nel punto in cui s’interrompeva l’asfalto. Lasciai i volantini in ogni esercizio commerciale cui Slidell aveva fatto visita. Quasi tutti accettarono la mia opera grafica con scetticismo. Alcuni posero domande, ma i più si guardarono dal commentare.

Scoraggiata, avanzai faticosamente lungo South Boulevard, poi raggiunsi le tre banchine della linea tramviaria più vicine al luogo dell’incidente.

Stavo facendo un fischio al mio fido destriero a quattro ruote, quando l’iPhone annunciò una chiamata in arrivo.

«Temperance Brennan» risposi infilandomi al volante della Mazda e agganciando la cintura con la mano libera.

«Luther Dew.»

«Come posso aiutarla, agente Dew?»

«Avevo sperato di trovarla in ufficio.» Risentito?

«Ci sto andando ora.»

«Mi chiedevo se non potrei passare, magari tra una trentina di minuti?»

«Non ho ancora finito l’analisi dei cani.»

Un modo elegante per dire che non l’avevo ancora cominciata.

«Ha fatto delle radiografie?»

«Sì.» Avevo chiesto a Joe Hawkins di eseguirle.

«Mi domandavo se non potrei avere le lastre. Da allegare al mio rapporto.»

«Può fare delle fotografie, ma gli originali restano al nostro ufficio.»

«Basterà.»

«Sa dove si trova la sede?»

«Sì. A tra mezz’ora.»

Linea morta.

E una buona giornata anche a lei, agente Dew.

Mentre il palmo spingeva la leva del cambio, dal mio stomaco si levò un brontolio di avvertimento.

Rapida occhiata all’ora. Quasi le due. Avrei mangiato un boccone non appena Dew se ne fosse andato, magari un hamburger con patatine fritte.

Chi volevo prendere in giro? Le probabilità di consumare un pasto nelle ore successive erano inferiori a quelle di trovare Birdie ai fornelli con tanto di grembiulino, la sera, al mio rientro a casa.

Comprare qualcosa allo Yum-Tum? Non ero così disperata. Forse non lo sarei stata in tutta la mia esistenza.

Infilai nel lettore un CD di Scott Joplin, alzai il volume a palla e ripartii, battendo le dita sul volante al ritmo del Maple leaf rag.

Venti minuti e una fermata al supermercato più tardi, entravo nel parcheggio dell’MCME. La signora Flowers mi aprì, sorridente come sempre.

Attesi il solito, puntuale aggiornamento.

«Non ha messaggi telefonici. Il dottor Larabee è fuori sede. Nessuno ha preso appuntamento con lei.»

«Grazie. Tra poco arriverà qui una persona dell’ICE: agente speciale Luther Dew.»

«Per i cani mummificati?» Sopracciglia tracciate a matita si sollevarono quasi impercettibilmente sulla fronte incipriata.

«Joe ha fatto le radiografie?»

«Le ha lasciate nella sala autopsia piccola.»

«Grazie. Mi dia un cenno, per favore, prima di mandarmi Dew.»

«Certamente.»

Andando in ufficio, lanciai un’occhiata alla lavagna cancellabile. Niente di nuovo per me.

Stavo controllando la posta in arrivo, quando squillò il telefono.

Grandioso.

«Il suo agente speciale è qui.» Niente voce tremula, niente respiro affannoso.

Piccola precisazione: benché raffinata come ogni fanciulla di Dixie che si rispetti, in presenza di un esemplare alto, moro, bello e dell’altro sesso, la signora Flowers non solo arrossisce, ma diviene tutta un fremito, alla Marylin Monroe.

Dal suo tono neutro dedussi che Dew non doveva essere un adone.

«Può trattenerlo una decina di minuti?»

«Certo.»

Nella sala autopsia, a ogni visore era applicata una lastra, e grosse buste marroni giacevano accanto a tre delle quattro vaschette di plastica.

Passando dall’uno all’altro, accesi gli interruttori e visionai le radiografie dei contenuti del primo involto.

Bene.

Tolsi le immagini e passai alle altre serie. Stavo esaminando l’ultima lastra, quando un rumore di passi echeggiò nel corridoio.

Mi voltai.

Un roseo beluga riempiva la soglia. Non indossava papillon, cappello floscio e bretelle alla Truman Capote.

Dew aveva, invece, camicia bianca, cravatta azzurra e un gessato blu. Un gessato blu extra large. Circa uno e ottantasette centimetri, stimai. Per minimo centotrenta chili.

Gli andai incontro, a mano tesa. «Tempe Brennan.»

«Luther Dew.» Presa salda, ma non uno schiacciasassi al testosterone.

I suoi occhi guizzarono alle mie spalle, poi tornarono su di me.

«Grazie per aver trovato il tempo di ricevermi.» La vocetta acuta strideva con il corpo sovradimensionato.

«Ci mancherebbe.»

Lo sguardo dell’agente corse di nuovo ai raggi X. Gli occhi, notai, avevano la sclera stranamente violacea.

«Prego, venga.» Indicai il visore più vicino.

Il collo carnoso di Dew si ammonticchiava in strati, a ogni spostamento della testa, che si piegava da un lato, poi dall’altro, nel tentativo di distinguere ossa lunghe, coste e altre parti anatomiche sovrapposte.

«Non sembrano umane» concluse.

«Canine al cento per cento. Guardi il muso, i denti, le vertebre della coda» dissi, indicando man mano.

«Gli altri reperti sono simili?»

Annuii. «Anche se per ora ho effettuato soltanto un esame preliminare.» Alla faccia dell’eufemismo. «Uno sembrerebbe un cucciolo.»

Dew passò ancora qualche istante a studiare lo scheletro, di un bianco splendente sulla lastra.

«Apprezzo il fatto che stia limitando l’analisi a metodi non invasivi.»

«A meno che non m’imbatta in qualcosa di sospetto, dovrei riuscire a lasciare integri gli involucri.»

«Gli archeologi peruviani gliene saranno grati.» Tirò fuori una piccola Nikon automatica e me l’agitò davanti. «Posso?»

Gli prestai assistenza, cambiando le lastre sui visori, finché non ebbe fotografato i quattro set completi; poi l’agente scattò immagini dei fagotti ancora chiusi.

Alla fine, restammo un momento a osservare i cani.

Mi colse un pensiero. Che diamine!

«La vittima del pirata della strada resta ancora priva d’identità.»

Mi rivolse uno sguardo ebete.

«La ragazza che, secondo il detective Slidell, dovrebbe essere un’immigrata clandestina. Vuole dare un’occhiata al corpo?»

«Non vedo proprio che utilità…»

«Siamo qui. La salma è lì. Male non può fare.»

Senza lasciargli il tempo di obiettare, lo scortai alla cella frigorifera, portai nel centro la lettiga in questione e abbassai la zip del sacco per cadaveri.

Va riconosciuto che non tagliò la corda. Né mostrò alcuna emozione.

Passò qualche istante, poi: «È tutto molto triste, dottoressa Brennan, ma, davvero, non sono in grado di aiutarla. C’è un posto in cui possiamo parlare?»

Richiusi la lampo e ci spostammo nel mio ufficio. Dew ne riempiva una vasta porzione. Attesi che palesasse ciò che aveva in mente.

«Nell’ambito dell’indagine sui cani requisiti, l’ICE ha cominciato a esaminare le finanze di Dominick Rockett.»

Interpretò il mio silenzio come una mancata comprensione.

«Stiamo controllando i suoi resoconti bancari, per esempio, gli acquisti, le dichiarazioni dei redditi, tra le altre cose.»

L’agente parlava come se leggesse da un manuale di addestramento.

«Il signor Rockett possiede beni difficili da giustificare con la pensione militare e l’indennità d’invalidità, insieme agli introiti dell’attività d’importazione.»

«E quindi?» Sapevo cosa intendeva dire, ma Dew sembrava attendersi un feedback.

«Quindi Dominick Rockett potrebbe essere un pesce più grosso di quanto pensiamo.»

«Crede che sia un contrabbandiere?»

L’uomo spostò il suo tonnellaggio con sorprendente agilità. «Quei cani potrebbero essere la punta di un iceberg. Estremamente redditizio e preoccupante.»

Il mio stomaco scelse proprio quel momento per dar voce a un’altra richiesta d’aiuto.

Mi sentii arrossire e forse arrossì anche Dew. Impossibile dirlo: il volto era già paonazzo di suo.

«L’ho trattenuta troppo a lungo.» Si alzò.

«Mi terrà informata sugli sviluppi del caso?» chiesi.

«Certo, visto che è stata così disponibile a collaborare.»

Collaborare? Cos’ero, un sospettato?

«Grazie.» Presi dalla borsa uno dei volantini. «E magari girerà qualche domanda ai suoi colleghi sulla mia sconosciuta da identificare…»

Stava osservando la foto, quando squillò il telefono dell’ufficio.

«Spiacente d’interrompere.» La voce della signora Flowers suonava tesa. «Ma la persona insiste e pare piuttosto sconvolta.»

L’immagine di Katy mi balenò nella mente.

«Rispondo.» Con la salivazione a zero.

Mentre mimavo uno «Scusi» a Dew, i rumori di sottofondo all’altro capo della linea mutarono.

«… foto sul volantino?» La voce era bassa, la linea molto disturbata.

«Si riferisce alla vittima del pirata della strada?» domandai, stupita.

«Ragazza morta?» Il timbro pareva femminile.

«Sì, è morta.»

«… farle del male… Paura…»

«Paura di che cosa?»

Interferenze.

«… avevano tutte…»

«Signora, può riappendere e richiamare?»

«… male… dirlo a qualcuno.»

«Lei sa chi è quella ragazza?»

Clic.

Fine della comunicazione.