Prologo

 

Con il cuore in gola, strisciai verso i mattoni inclinati che delimitavano la nicchia. Allungai il collo per vedere al di là.

Ancora passi; poi in cima alle scale apparvero un paio di scarponi con accanto due piedini, uno nudo, l’altro infilato in una décolleté dal tacco vertiginoso.

I piedi cominciarono a scendere: quelli piccoli traballavano, la proprietaria sembrava debilitata. La parte inferiore delle gambe assumeva una strana angolazione, inducendo a pensare che il ginocchio non riuscisse a reggere il peso.

Mi sentii ribollire di rabbia. La donna era drogata. Il bastardo la stava trascinando.

Quattro gradini più giù, i due attraversarono uno spicchio di luce lunare. Non era una donna: era una ragazzina, con i capelli lunghi, braccia e gambe scarne come quelle dei profughi. Sotto il mento dell’uomo si vedeva un triangolo di T-shirt bianca, e l’impugnatura di una pistola gli spuntava dai pantaloni all’altezza della vita.

La coppia tornò in ombra. I corpi formavano una nera silhouette a due teste.

Disceso l’ultimo gradino, l’uomo spintonò la ragazza verso la porta della piattaforma di carico e con una mano l’afferrò per il collo. Lei inciampò, lui la tirò su in malo modo. Il capo le ballonzolava come quello di una bambola di pezza.

Qualche altro passo incerto, poi il mento della giovane si sollevò, il suo corpo s’inarcò e un grido ruppe il silenzio.

Il braccio libero di lui s’abbatté sulla giovane. Un guaito di dolore, poi la ragazza cadde riversa sul cemento.

L’uomo si chinò su un ginocchio. Il gomito gli andava su e giù, mentre sferrava pugni al piccolo corpo inerte.

«Fai resistenza, troietta?»

La colpì ancora e ancora.

La rabbia esplose incandescente dentro di me, sovrastando ogni istinto di conservazione.

Mi avviai verso di loro a passi rapidi e afferrai la Beretta. Controllai la sicura, grata per il tempo che avevo dedicato a far pratica al poligono.

Allungai la mano per prendere il cellulare: non era con la torcia. Frugai nell’altra tasca. Niente.

Mi era caduto? L’avevo lasciato a casa, uscendo in fretta?

Il senso di panico fu quasi incontenibile: ero isolata. Che fare?

Una vocina nella testa m’invitò alla cautela. Rimani nascosta. Aspetta. Slidell sa dove sei.

«Tanto sei morta.» La voce maschile risuonò, malevola e crudele.

Alzai la testa di scatto.

L’uomo stava sollevando la ragazza per i capelli.

Reggendo la Beretta a due mani davanti a me, uscii dal mio nascondiglio; lui, captato il rumore, s’immobilizzò. Mi fermai a circa cinque metri di distanza e, sfruttando un pilastro come copertura, mi piantai a gambe larghe spianando l’arma.

«Lasciala!» Il mio grido rimbalzò sui mattoni e sul cemento.

L’uomo era di spalle, i capelli della sua vittima stretti saldamente in pugno.

«Mani in alto» ordinai.

Lasciò la presa e si alzò. I palmi salirono lenti all’altezza delle orecchie.

«Voltati.»

Mentre si girava, fu di nuovo colpito da una lama di luce e, per un attimo, vidi il suo volto.

Quando scorse chi aveva di fronte, abbassò un po’ le mani. Intuii che mi vedeva meglio di quanto io scorgessi lui e cercai di appiattirmi ancor di più contro il pilastro.

«La troia è viva.»

Morirai anche tu, troia.

«Ci vogliono le palle per mandare minacce via e-mail.» La mia voce suonava più sicura di quanto non mi sentissi. «E per prendersela con delle ragazzine indifese.»

«I debiti si pagano. Conosci le regole.»

«Il tuo tempo per recuperare i crediti è finito, sadico figlio di puttana.»

«E chi lo dice?»

«La dozzina di poliziotti che fra poco ti piomberà addosso.»

L’uomo accostò all’orecchio una delle mani alzate. «Non sento sirene.»

«Allontanati dalla ragazza» ordinai.

Lui mi prese in giro facendo un passetto lezioso.

«Muoviti!» latrai. Il suo atteggiamento arrogante mi faceva venir voglia di sferrargli la Beretta sul cranio.

«Se no? Mi spari?»

«Già» risposi in tono gelido come acciaio. «Ti sparo.»

Lo avrei fatto? Non avevo mai aperto il fuoco su un essere umano.

Dove diavolo era Slidell? Il mio bluff si reggeva solo sul caffè e l’adrenalina e sapevo che il loro effetto presto si sarebbe esaurito.

La ragazza emise un gemito.

In quella frazione di secondo, persi il mio vantaggio.

Abbassai lo sguardo.

Lui balzò verso di me.

Una nuova dose di adrenalina mi entrò in circolo.

Puntai la pistola.

Lui si avvicinò ancora.

Mirai al triangolo bianco della T-shirt.

Feci fuoco.

La detonazione echeggiò con un fragore brutale. Il rinculo mi fece schizzare le mani verso l’alto, ma tenni la posizione.

L’uomo si accasciò.

Nelle tenebre vidi il triangolo scurirsi, e seppi che una macchia scarlatta si stava allargando sulla T-shirt. Un colpo perfetto. Il Triangolo della morte.

Silenzio, rotto solo dal mio respiro affannoso.

Un istante dopo i centri superiori si riallacciarono al tronco cerebrale.

Avevo ucciso un uomo.

Le mani mi tremavano, la bile mi inondò la gola.

Deglutii. Rinsaldai la presa sulla pistola e avanzai con cautela.

La ragazza giaceva immobile. Mi accovacciai e le poggiai sul collo due dita tremanti. Un battito, debole ma regolare.

Ruotai il busto, guardando gli occhi muti e malvagi di lui.

D’un tratto, ero esausta, nauseata da ciò che avevo fatto.

Mi domandai se nello stato in cui ero fossi in grado di prendere le giuste decisioni, di reggere fino in fondo.

E avevo dimenticato il cellulare a casa.

Avrei voluto sedermi, prendermi la testa tra le mani e lasciare scorrere le lacrime.

Invece, trassi qualche respiro profondo per rinfrancarmi, mi alzai e attraversai quelli che mi parvero mille chilometri di buio. Salii la scala con gambe di gomma.

In cima, l’unico passaggio svoltava a destra. Lo seguii fino a una porta chiusa.

Con la pistola stretta in una mano scivolosa di sudore, tesi l’altra e ruotai la maniglia.

La porta si aprì verso l’interno.

E mi ritrovai a fissare l’orrore puro.