31

 

Era ormai pomeriggio, quando Slidell mi riaccompagnò all’MCME. La caviglia mi faceva male, così, alle cinque, recuperai la corrispondenza ancora inevasa, insieme alle mie copie dei dossier su Creach e Majerick, e me ne andai a casa.

Piacevole sorpresa: Pete mi aveva riportato Birdie. Il gatto mi accolse sulla porta, strusciandosi intorno alle gambe, poi si posizionò per il suo numero del ti-guardo-fisso.

Anche se era presto, gli diedi da mangiare. Diavolo, non lo vedevo da giorni!

L’osservai mentre ripuliva la ciotola, poi ce ne andammo insieme nello studio per un po’ di coccole sul divano: grattini dietro le orecchie, fusa, grattini alla base della spina dorsale, coda all’insù e schiena inarcata in segno di apprezzamento.

Le palpebre mi si fecero pesanti. Sbadigliai. Tirai su i piedi e posai il capo sul bracciolo. Il gatto mi si acciambellò sul petto.

Il telefono di casa suonò. Debolmente. Troppo debolmente.

Mi alzai e presi il cordless dalla scrivania. Dal momento che non era stato riposto sul caricabatteria, era praticamente morto.

Imprecando, lo posizionai in modo corretto, mi trascinai in camera e portai di sotto l’altro ricevitore. Il display mostrava l’identificativo del chiamante: Pete. Certa che avrebbe ritentato più tardi, mi sdraiai. Birdie tornò a raggomitolarsi su di me.

Qualche istante dopo, ecco di nuovo il trillo, questa volta a tutto volume.

«Mmm.»

«Bentornata a casa, Fiorellino.»

«Cosa vuoi?» Intontita. E lottando contro la compressione polmonare dovuta a sei chili di gatto.

«Be’, è proprio un bel ringraziamento.»

«Grazie.»

«Ma prego, mia cara.»

«Dico sul serio, Pete. Grazie.»

«Piacere mio. Il piccoletto non è affatto una compagnia sgradevole.»

«Mmm.»

«Stavi sonnecchiando, principessa?»

«Il jetlag.»

«Tu hai sempre detto che non senti il jetlag.»

«Io non sento il jetlag.»

«Ho una notizia che ti farà scattare in piedi. Ho appena ricevuto una chiamata da Hunter Gross. L’ufficiale investigativo dell’articolo 32 ha auspicato che le accuse vengano ritirate.»

«È fantastico.» Sbadigliando.

«Hai sentito che cosa ho detto? John Gross sarà scagionato.»

«Mi aspettavo che l’udienza si sarebbe conclusa a suo favore.»

«Non sembri esattamente al settimo cielo.»

«Sono contenta per lui.»

«Certo la sua carriera, probabilmente, è finita nel cesso.»

«Davvero?»

«Mah, che ne sappiamo, in fondo?»

«Gross è uno che sa il fatto suo» commentai.

«Pensa alla dose di stress a cui è stato sottoposto.»

Pete aveva ragione. Su due cose. Non ero esattamente al settimo cielo. Chissà perché, Gross m’inquietava: troppo arrogante, troppo teso. E, sì, la pressione subita dal militare doveva essere stata terribile. Specie per uno con il suo profilo psicologico.

«Felice di avere fatto la mia parte» conclusi.

«Sai che sei famosa?»

«Eh?» Quello sì mi fece scattare in piedi. Con sommo disappunto di Birdie.

«Cerca il tuo nome in Google, insieme a “Stars and Stripes”.»

«La rivista militare?»

«No, la bandiera degli Stati Uniti.»

Lo misi in vivavoce e posai il ricevitore sul cuscino. Poi recuperai il mio laptop e lo accesi, seguii l’indicazione e cliccai sul link che apparve.

 

ESPERTA FORENSE TESTIMONIA
A FAVORE DEL MARINE INCRIMINATO

 

Seguiva l’intera storia, e il mio nome, come anticipato da Pete.

La dottoressa Temperance Brennan, in collaborazione con l’NCIS, si è recata in Afghanistan per effettuare una doppia esumazione e ha fornito una testimonianza chiave all’udienza dell’articolo 32, a Camp Lejeune, North Carolina.

Non lessi altro. Due citazioni sulla stampa in una settimana. Alla faccia del mantenere un profilo basso.

Chiusi bruscamente il laptop.

«Pronto?» Pete.

Afferrai il telefono. «Chi è responsabile di questo? Il legale di Gross?»

«Non c’erano dei giornalisti all’udienza?»

«Forse sì. Ho visto due spettatori.» Petulante.

«Andiamo! Hai salvato le chiappe al ragazzo. Goditi la gloria.»

Alzai gli occhi al cielo. Inutile, dato che il mio ex marito non poteva vedermi.

Qualche istante di silenzio, poi: «Hai lasciato un PC sulla mia scrivania?».

«Sì. Era lentissimo, così gli sto facendo una scansione antivirus.»

«Hai preso in considerazione l’ipotesi che sia semplicemente un pezzo d’antiquariato?»

«Lo uso solo per le e-mail personali. Tutti i miei file sono nel sistema dello studio.»

«Fai una follia, Pete: comprane uno nuovo.»

«Forse.»

«Perché qui? Perché non hai lanciato la scansione a casa tua?»

«Summer ha occupato tutte le prese di corrente. Sta caricando lucine decorative per il ricevimento. Saranno mezzo miliardo.»

«Sei rimasto da me, mentre non c’ero?»

«Avrò guardato un po’ il football.»

«Grazie per le provviste.»

«Figurati, Fiorellino.»

«Quanti giorni hanno le lasagne?»

«Comprate ieri. Fatti un pisolino, ora. Sembri davvero esausta.»

Una volta riagganciato, controllai la posta elettronica. Niente da Katy. Niente da Ryan.

«Ovvio» dissi più forte di quanto avrei voluto.

Bird alzò la testa dalle zampe, ma non commentò.

L’icona dell’antispam mostrava settantaquattro messaggi. Li cancellai tutti uno per uno, espellendo frustrazione repressa a ogni invio irritato.

Finché l’oggetto di uno dei messaggi non mi paralizzò il dito a mezz’aria.

Morirai anche tu, troia.

Cosa mi aveva bloccato? Di certo non la scurrilità – avevo appena cancellato un mare di e-mail dal linguaggio ugualmente volgare – e tuttavia, il senso… Morirai anche tu?

Ignorando la vocina nella mia testa, aprii il messaggio. Vuoto.

Controllai la data di arrivo: il giorno prima. Anche l’articolo su «Stars and Stripes» era apparso nelle ventiquattro ore precedenti.

Il mittente era citizenjustice@hotmail.com.

Un gruppo politico? Uno squilibrato? Un ragazzino con troppa libertà di accesso alla rete e scarsa supervisione da parte dei genitori?

O era una questione personale? Una minaccia rivolta specificamente a me?

Vedo le e-mail ricevute su account diversi, coordinati da un unico programma di gestione della posta. Quella minatoria non era giunta tramite il mio account privato Gmail, ma attraverso il sistema dell’ufficio del medico legale. L’indirizzo era facile da trovare, compariva sul mio biglietto da visita. Diamine, l’avevo persino scritto sui volantini affissi da un capo all’altro di Old Pineville Road e South Boulevard!

Citizenjustice era forse un ex detenuto? Uno che aveva scontato una pena in carcere a causa della mia testimonianza? O, al contrario, il parente, l’amico di una vittima, scontento perché la mia deposizione aveva fatto scagionare qualcuno, comportato la perdita di un indennità economica nel corso di una causa civile?

Mi scervellai in cerca di altre possibilità.

Uno studente insoddisfatto del suo voto? Un vicino che non apprezzava il mio gatto? Uno sconosciuto psicotico cui avevo soffiato il parcheggio senza rendermene conto?

Fissai il messaggio. Dirlo a Slidell? Al diavolo! Facevo volentieri a meno del suo scetticismo o, peggio, della sua paternalistica sorveglianza.

Magari non era nulla di cui preoccuparsi.

Chiusi il computer, mangiai le lasagne, presi un’aspirina per la caviglia e mi raggomitolai nel letto.

Il sonno calò come un sipario alla fine della rappresentazione.

Sciii-cianc!

Spalancai gli occhi.

Tesi le orecchie, chiedendomi se stessi sognando o avessi davvero udito quel suono.

Sciii-cianc!

Decisamente reale. E all’interno della casa.

Il polso mi andò alle stelle.

Battei le palpebre, sforzandomi di ripristinare in fretta la mia capacità di messa a fuoco, e trattenni il respiro.

Perlustrai la stanza con lo sguardo, attenta al minimo movimento. Vidi solo ombre. Udii solo silenzio.

La sveglia sul comodino segnava le due e trentotto.

Sciii-cianc!

Il cuore prese a martellare ancor di più.

Il rumore veniva dal piano di sotto e ricordava il carrello di una macchina da scrivere risbattuto indietro.

Allungai la mano per prendere il telefono. Maledizione! Avevo lasciato il cordless nello studio e l’iPhone nella borsa.

Scesi dal letto e arrivai alla porta in punta di piedi, attenta a evitare le assi che sapevo avrebbero cigolato.

Con il fiato sospeso, mi misi in ascolto.

Niente passi furtivi, niente fruscii di stoffa lungo la parete, nessun movimento.

Qualcosa di impalpabile mi sfiorò il polpaccio nudo. Mi ritrassi di colpo, con il cuore in gola. Guardai giù.

Due occhi tondi splendevano nel buio.

Feci segno a Bird con il palmo rivolto verso il basso – fermo! – ma giunse ancora il rumore e lui sgattaiolò via dalla porta socchiusa.

Sciii-cianc!

Una frase mi balenò nella mente.

Morirai anche tu, troia.

E una scarica di adrenalina mi percorse tutto il corpo.

Lanciai un’occhiata alle mie spalle, cercando nella stanza qualcosa da usare come arma.

Il troll preso in Norvegia? La tazza dell’LSJML? Il vaso di MacKenzie Childs?

Optai per una scultura in bronzo: due scimmiette che si tenevano per mano; un oggetto pesante e pieno di spigoli.

Stringendolo, avanzai lungo il corridoio. Nella semioscurità, lo specchio a parete offriva una vista spettrale dei gradini: nessuno acquattato di sotto con un coltello o una pistola in mano.

Birdie era seduto in cima alla scala e, sentendomi arrivare, cominciò a scendere lentamente.

SCIII-CIANC!

Il gatto s’immobilizzò, schioccò la coda, poi risalì a razzo e scomparve nel bagno.

Respirando a mala pena, feci un gradino alla volta. La caviglia m’inviava piccole fitte di avvertimento.

Giunta in fondo alle scale mi fermai e tesi di nuovo l’orecchio.

SCIII-CIANC!

Più forte.

Gesù, che diavolo era?

Sbirciai nel salotto e, più in là, nella zona pranzo.

Non vedendo nulla di allarmante, proseguii verso lo studio. Il suono sembrava provenire da quella direzione.

Aprii la porta.

Sciii-cianc!

I miei occhi guizzarono intorno in cerca di un telefono. Un cordless giaceva sul divano, l’altro era in piedi sulla scrivania. La minuscola spia rossa del caricatore proiettava un lieve chiarore sul sottomano.

Qualcosa baluginò nel buio.

Di nuovo.

Lo sguardo mi corse al portatile di Pete. Sotto i miei occhi, il lettore CD uscì e rientrò rapidamente.

Sciii-cianc!

Checcavolo…

Abbassai la mano che stringeva il bronzo, mi avvicinai al tavolo e sollevai il coperchio del Dell, aprendolo completamente. Sullo schermo, scritte giallo brillante scorrevano su uno sfondo viola scuro.

 

FREGATO! FREGATO! FREGATO! FREGATO! FREGATO!

 

Per una volta quel luddista del mio ex aveva ragione: si era preso un virus.

Chiusi il computer, lo riaccesi e attesi tutta la trafila del riavvio di Windows. La scritta non c’era più. Il lettore CD era fermo al suo posto.

«Mi devi un favore, amico» mormorai.

Stavo attraversando la sala da pranzo, quando la mia attenzione fu attratta da una lieve alterazione delle ombre che screziavano il tappeto, sotto la finestra, dall’altra parte del tavolo.

Mi fermai. Era l’adrenalina che giocava brutti scherzi al mio cervello? Il PC esaurito?

No. Come il suono del lettore, anche l’increspatura delle ombre era reale.

Tornando verso la parete, scostai le tende e guardai fuori.

La notte era senza luna, il parco di Sharon Hall buio come una tomba.

Eppure, laggiù, sotto la magnolia… Uno sprazzo più chiaro? Una silhouette?

Rimasi acquattata per un minuto buono a sbirciare, ma… niente, non vidi più nulla (sempre che avessi visto qualcosa).

Pensiero improvviso.

Avevo chiuso bene? Inserito l’allarme? Al mio arrivo c’era stata la sorpresa di trovare Birdie: distratta dalla sua presenza – e sfinita com’ero – l’avevo dimenticato? Non sarebbe stata la prima volta. Sono piuttosto coscienziosa quando esco, ma trascuro spesso le misure di sicurezza se sono in casa.

Lo sguardo mi cadde sui dossier che avevo lasciato sul tavolo: Creach e Majerick, due criminali, uno dei quali particolarmente violento.

Controllai ogni porta, ogni finestra e inserii l’allarme. Mentre recuperavo un cordless dallo studio, udii un motore che si avviava.

Tornai a letto con un filo di apprensione.