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South End, appena a sud del centro di Charlotte, è una zona piuttosto eterogenea con l’ambizione di ascendere alla vetta della scala sociale. E sta tentando di farlo in fretta.
Il quartiere risale agli anni Cinquanta del Diciannovesimo secolo, quando la costruzione di una ferrovia aveva collegato la Queen City a Columbia e Charleston, South Carolina. Con il passare dei decenni, sotto la spinta di una fiorente industria tessile, si era andata formando lungo i binari una comunità dedita al settore manifatturiero.
Avanti veloce fino agli ultimi anni del Ventesimo secolo. Largamente ignorato da una città che si considerava il volto del Nuovo Sud, South End aveva poco da offrire, a parte stabilimenti abbandonati, magazzini e un campo da baseball della Minor league, ma, negli anni Novanta, astuti immobiliaristi vi intravidero il simbolo del dollaro.
Oggi è un mélange di condomini, loft ed edifici industriali ristrutturati, che ospitano ristoranti, negozi, studi televisivi e una vasta gamma di industrie legate al design. Ci trovi di tutto, dall’impianto idraulico al tessuto, alla lampada haut-de-gamme.
Tracce del passato sopravvivono qua e là. Il Design Center of the Carolinas, la sede principale della Concentric Marketing e la Chalmers Memorial Associate Reformed Presbyterian Church respirano la stessa aria yuppie di vecchie officine, fabbriche abbandonate, terreni coperti di erbacce e uno strip club.
Il John-Henry’s Tavern sorgeva non lontano dall’incrocio tra Winifred e Bland, con parcheggi su entrambi i lati, dove intere ecozone verdeggiavano nelle crepe del cemento.
Di fronte al bar c’era un bunker senza finestre, coperto di graffiti e racchiuso da una recinzione in rete metallica. Un cartello ammoniva: VIETATO L’INGRESSO. Nulla indicava il nome della struttura o spiegava il senso della sua esistenza. Un’area rialzata, che un tempo era stata forse una piattaforma di carico, era cosparsa di rottami: fusti di birra arrugginiti, un tavolo fatto di assi messe insieme alla bell’e meglio, un vecchio pianoforte con un teschio nero e una falce di luna dipinti a spray sulla parte verticale.
Slidell girò a destra nella piccola porzione di parcheggio riservata al locale. Che forse era asfaltata, forse no: uno strato di terra e ghiaia rendeva la questione altamente opinabile.
Mise in folle e spense il motore. «Qui c’era parecchio movimento negli anni Sessanta.»
«Avrei detto negli anni Venti.»
«Carolina beach music, Carolina shag… Roba di quel genere. A un certo punto i proprietari piazzarono camionate di sabbia e lucine colorate nel cortile. Giovani coglioni fingevano di essere a Myrtle Beach, ballando sulle note di Maurice Williams.» Pronunciato Mo-rììz.
«Quando è stato?»
Lo stuzzicadenti che aveva in bocca migrò dall’angolo destro al sinistro. «Fine Settanta.»
Un sorriso m’increspò le labbra. «Ci hai dato dentro anche tu, qui, vero detective?»
Mi guardò come se gli avessi appena detto che il mondo era fatto di formaggio olandese.
Che idee mi venivano? Slidell, probabilmente, aveva già le rughe sull’anima intorno al sedicesimo compleanno.
«Ora chi viene, qui?» domandai.
«Coglioni un po’ più vecchi.»
«Quello cos’è?» Accennai con il capo alla costruzione dall’altra parte della strada.
«Nel tempo che fu, era uno stabilimento di non so cosa. È in stato di abbandono fin dagli anni Cinquanta. Si diceva che ne avrebbero fatto degli appartamenti: progetto arenato, immagino. Ora, più che altro, è un problema, a causa degli squatter.»
Per alcuni lunghi istanti osservammo in silenzio il nostro obiettivo.
Non fosse stato per l’insegna luminosa della Coors, visibile oltre la finestra bagnata di pioggia, il piccolo edificio di mattoni a vista avrebbe potuto essere un’abitazione privata: due corrimano in ferro battuto fiancheggiavano i gradini dell’ingresso e un comignolo spuntava dalla parte opposta della costruzione, indicando la presenza di un caminetto all’interno.
La porta d’entrata, un tempo rossa, e le finiture in legno, un tempo bianche, erano sbiadite e scrostate. Avevo già visto quel vecchio posto. Quando?
Prima di entrare nell’ufficio della difesa pubblica, Katy aveva lavorato per un breve periodo dietro il bancone del Gin Mill, un trendy pub irlandese qualche isolato più in là, sulla Tyron. Forse mi era capitato di sbagliare svolta dopo avercela accompagnata.
La Taurus di Slidell condivideva lo spazio con un pickup e cinque auto i cui contachilometri dovevano esibire parecchie cifre.
Stavo per esprimere quella convinzione ad alta voce, quando un uomo in tuta da ginnastica sbucò da dietro l’edificio e barcollando raggiunse una Honda Civic bianca. Slidell e io lo guardammo salire e allontanarsi.
«Pronto?» domandai al detective.
Prendendo il suo grugnito per un sì, scesi sotto la pioggia, che si era ormai ridotta a un’acquerugiola lenta e costante. Il rumore delle gocce risuonava tutto intorno a me.
Slidell si issò fuori dal veicolo, si tirò su i pantaloni, si diede una tastata dietro, in vita, e fece una circonduzione delle spalle. Occhiata a destra, occhiata a sinistra, quindi salì spedito i gradini dell’ingresso e lo varcò. Lo seguii.
Come avevo previsto, il gestore del locale non investiva molto in illuminazione. Né in pulizia: l’aria puzzava di birra rancida, sudore umano, unto e fumo.
Via via che i miei occhi si abituavano alla semioscurità, la mia mente registrava particolari della sala e, dalla tensione delle spalle, sapevo che anche Slidell stava perlustrando l’ambiente con lo sguardo.
Tavoli di legno con sedie scompagnate occupavano gran parte dello spazio. Un jukebox era addossato alla parete di destra, uno specchio dalla pesante cornice dorata appeso accanto. Un po’ più in là, dritto davanti a noi, un bancone formava una L, il lato corto che guardava i tavoli.
Scorsi una seconda entrata sulla sinistra in fondo, di fronte all’estremità del lato lungo della L. In quel momento, la porta era tenuta aperta da una figura in ombra, che sembrava un gargoyle o un nano da giardino.
Una serie di bacheche tappezzava la parete, dalla porta di servizio all’estremo più vicino del bancone. Le sovrastava la scritta dipinta STORY BOARD e vi era affisso un fantastiliardo di fotografie.
Alla nostra destra, un arco dava in una saletta laterale, con un’altra mezza dozzina di tavoli, nessuno occupato. Uno stretto corridoio si addentrava nell’edificio, portando presumibilmente a cucine e toilette.
Tre uomini in abiti da lavoro, con scarponi antinfortunistica, occupavano un tavolo da quattro nella sala principale, tre mega-hamburger troneggiavano nei loro piatti.
Altri due tizi e una donna sedevano al bar, dando le spalle alla galleria fotografica, tra loro due sgabelli vuoti, equidistanti. I primi avevano felpe col cappuccio, jeans, scarpe sportive e, a una stima approssimativa dell’età, appariva plausibile che avessero fatto in tempo a scatenarsi al Tavern nel suo periodo Myrtle Beach.
La donna indossava pantaloni neri elasticizzati e una T-shirt rosa che ammoniva: SMETTILA DI GUARDARMI LE TETTE. Con i capelli striati di grigio e il volto cascante, sembrava abbastanza in là con gli anni da far da madre agli altri due. Il suo bicchiere conteneva un liquido color tè, probabilmente del bourbon.
Il barman eguagliava Slidell per mole, ma il suo peso era distribuito in modo più armonioso. E molto più compatto. Forse uno e settantasette in punta di piedi, aveva occhi azzurri lattiginosi e il cranio rasato. Sul suo braccio era tatuato un volatile di non so che specie.
Concluso il sopralluogo visivo, Slidell si diresse al bancone.
«Come va?»
Occhi Lattiginosi non smise di asciugarsi le mani con uno strofinaccio.
Skinny si guardò ostentatamente in giro. «Vedo che gli affari vanno a gonfie vele.»
«Che cosa prende?»
Il detective spostò di nuovo lo stuzzicadenti da un lato all’altro della bocca. «Un po’ più ospitale?»
«Lei è della polizia.» La sua era una constatazione.
«E tu sei un genio.»
I tre operai si zittirono di colpo. I bevitori di birra si riassestarono sugli sgabelli. Miss Tette si mise a origliare senza ritegno.
«La licenza è in regola.» Occhi Lattiginosi indicò la parete alle proprie spalle con il pollice.
Slidell piazzò i palmi sul bancone, divaricò le gambe e torreggiò sull’uomo che aveva di fronte.
«Che ne dici se cominciamo dal tuo nome?»
«Che ne dice se cominciamo da un distintivo?»
Skinny esibì rapidamente il suo.
«Nome? O ti sembra che stia facendo delle domande troppo complesse?»
«Sam.»
Il detective inarcò le sopracciglia con un’espressione che voleva dire: «E poi?».
«Sam Poland.»
«Da quanto lavori qui?»
«Di cosa stiamo parlando?»
«Che hai combinato, Sam? Sei saltato addosso a qualche ragazza?» La donna rise sguaiatamente alla sua stessa battuta, poi buttò giù un sorso.
«Chiudi il becco, Linda.» Poland fece segno a Slidell e si spostarono più in là, vicino al punto in cui mi trovavo io. «La tipa chi è?» Accennando con il capo nella mia direzione.
«Lady Gaga. Mettiamo su una band.»
Al barman si contrasse la mascella, ma non replicò.
«Torniamo a noi, Sam. Da quanto lavori al Country Club, qui?»
«Dodici anni.»
«Parlami di Dominick Rockett.»
Poland fissò lo strofinaccio che aveva tra le mani. Notai che erano rosse e chiazzate. Eczema, sospettai.
«Dico a te, stronzo.»
«Queste sono molestie verbali!»
«Rockett viene qui a bere?»
Il barman alzò le spalle.
«Significa sì?»
«Non chiedo la carta d’identità ai clienti palesemente maggiorenni.»
«È uno che sembra essersi lavato la faccia con la fiamma ossidrica. Ti dice niente?»
«Forse mi è capitato di vedere un tizio che risponde alla descrizione.»
«Insieme a John-Henry Story?»
«Chi?»
«Sai, Sam, comincio a pensare che tu voglia farmi perdere tempo. E io m’incazzo quando la gente mi fa perdere tempo.»
«Spiacente di non esserle d’aiuto.»
«Stai dicendo che non hai mai sentito parlare di John-Henry Story?»
Poland alzò le spalle. Di nuovo.
Con una rapidità sorprendente, considerata la sua mole, Slidell allungò la mano e arpionò il collo di Poland, portandoselo a un centimetro dal viso.
In sala, ogni brusio cessò del tutto.
«Mi sembra strano, Sam, visto che Story è l’uomo che ti staccava gli assegni.»
Poland tentò di divincolarsi; Slidell lo bloccava come in una morsa.
«Posso uscire di qui, arrivare alla mia auto e immettere il tuo nome in ogni banca dati della città, della contea, dello Stato e dell’intero universo. Non rispetti un’ingiunzione? Non paghi una tassa? Sei in ritardo con l’assegno di mantenimento? Un solo passo falso e il tuo culo è mio.»
Le parole di Slidell gli spedirono in faccia goccioline di saliva, che brillarono alla luce azzurra e verde dell’insegna al neon dietro il bancone.
Neppure Linda osò commentare.
Pensando che Poland avrebbe parlato più liberamente senza di me a portata d’orecchio, mi spostai verso le bacheche e finsi di interessarmi alle fotografie.
La raccolta sembrava tornare indietro fino all’epoca di Nixon. Alcune istantanee avevano un bordo dentellato che sapeva d’altri tempi, altre erano normalissime stampe da centro commerciale, altre ancora Polaroid ormai sbiadite.
Ne sollevai qualcuna, riportando alla luce quelle sottostanti.
Una, in bianco e nero, piuttosto spiegazzata, mostrava una vecchia Chevy coupé dai pneumatici bianchi; il guidatore aveva un cappello di feltro e il braccio appoggiato fuori dal finestrino. Una seconda stampa, a colori, ritraeva un ragazzino con una paglietta in testa e, intorno, il nastro di Lyndon Johnson; una terza immortalava due paia di natiche nude.
Decine di immagini risalivano al periodo Myrtle Beach. In uno scatto dopo l’altro, coppie di ballerini danzavano sotto fili di lucine colorate, sedevano ai tavoli o facevano smorfie all’obbiettivo, gomito a gomito, in uno sfoggio di cameratesca allegria.
C’erano foto di un Capodanno, con palloncini che ornavano il caminetto, il soffitto, i muri. Di avventori in calzoncini o prendisole ai tavoli del dehors. Di ubriachi con cappelli verde Irlanda e quadrifogli.
Operai e donne in tacchi a spillo e Spandex. Coppie avvinte, uomini d’affari in giacca e cravatta. Venti-trentenni vestiti Nike o Adidas da capo a piedi. Squadre sportive in tuta. Universitari a gruppetti di quattro o sei.
Negli anni, mode e pettinature erano cambiate. Frangette lunghe, permanenti selvagge, teste rasate, piercing su nasi e labbra… Era come analizzare gli strati di uno scavo archeologico.
Alle mie spalle, Slidell stava ancora tartassando Poland. Linda e i bevitori di birra restavano in silenzio; i lavoratori al tavolo avevano ripreso a chiacchierare in tono sommesso.
Passando da una bacheca all’altra, mi chiesi come fosse nata quella collezione.
Qualunque fosse l’origine, però, l’idea sembrava ormai aver perso ogni attrattiva: ben poche immagini erano un prodotto dell’era digitale.
Stavo finendo di guardare l’ultima serie, quando vidi John-Henry Story. O non era lui?
Muovendomi con discrezione, staccai la puntina con l’unghia del pollice e presi la fotografia.
Oh sì! Rattus rattus.
Story era accanto a una donna in prendisole verde brillante con un décolleté da urlo. Entrambi stavano levando un calice di champagne: lei sorrideva, lui no.
Sullo sgabello vicino alla donna, sedeva un ragazzo biondo che, a giudicare dall’inclinazione del busto, doveva essere alla ventesima birra. La data ricamata sul suo giubbetto scolastico era quella di due anni prima.
Elettrizzata, continuai a scavare.
E la terra sembrava dare buoni frutti.
Conosco il terribile prezzo della guerra: ho visto immagini di veterani in alta uniforme, a testa alta, al braccio delle loro belle mogli, l’orgoglio dipinto sui volti devastati.
E sapevo che Dominick Rockett aveva riportato ustioni gravi. Eppure non ero preparata. Sul lato sinistro, ciglia e sopracciglia non c’erano più e la fronte gibbosa sovrastava un’orbita priva di palpebre. Le labbra erano torte e deformate, la narice si fondeva con una guancia della consistenza di pappa d’avena rappresa.
Sul lato destro, escludendo il diradamento dei capelli e una pelle innaturalmente tirata, il volto appariva normale. L’uomo della fotografia portava un berretto di maglia calato sulla fronte.
Contemplando quella devastazione, provai pietà: la stessa immagine nello specchio ogni giorno della sua vita, e nella mente, ogni volta che un estraneo distoglieva gli occhi, che un bambino lo fissava o urlava spaventato.
Dio, che prezzo.
Il mio sguardo migrò sull’altro uomo che, nell’immagine, divideva il tavolo con Rockett: nerboruto, con guance scavate e occhietti da roditore.
Lanciando una rapida occhiata alle mie spalle, staccai anche la seconda istantanea e la infilai nella borsa, quindi tornai verso il bancone.
Slidell aveva mollato la presa, ma stava ancora torchiando il barman. I bevitori di birra e Miss Tette fissavano insistentemente i rispettivi drink.
«… ti sto dicendo, amico, che non lo so.»
«Non sai granché di niente, vero, testone?»
Dopo essermi sgolata a tossicchiare in modo non proprio discreto, Skinny si degnò di guardarmi. Accennai alla porta con il capo.
Lui aggrottò le sopracciglia, poi piazzò un altro paio di domande. Ottenne ben poco, ma, almeno, aveva chiarito il concetto: l’ispettore Callaghan stava indagando.
Sbatté un biglietto da visita sul bancone, invitando il barman, come da prassi, a telefonare se gli fosse venuto in mente qualcosa.
E ce ne andammo. Sulla Taurus, tirai fuori le foto sgraffignate nel bar e identificai i soggetti. Lui osservò le facce senza un commento. Cosa che mi sorprese.
«Perciò Story e Rockett erano compagni di bevute» osservò infine.
«Non lo so, ma qui c’è la prova che si conoscevano.»
«Ti va di ficcare un po’ il naso a casa di Rockett?»
«Oh yeah, ma ricorda: Dew non vuole metterlo sul chi va là.»
«D’accordo.»
Prima ancora che il gancio della mia cintura facesse clic, eravamo già sgommati via.