21

 

Il Blackhawk MH-60 si alzò in volo, poi virò, inclinandosi tra pareti scistose e calcaree, pronto a percorrere quasi cinquecento chilometri fino a Sheyn Bagh.

O così mi era parso di capire: la Welsted aveva tentato di ragguagliarmi sul tragitto, ma con il fragore dei rotori e il vento che percuoteva fischiando il telaio, la conversazione era stata un buco nell’acqua. E la lettura del labiale non è il mio forte.

Era presto, le sei passate da poco, ma, dopo una notte quasi insonne, ero ansiosa di muovermi. Incubi in sequenza; la voce di Katy che mi chiamava dall’oscurità tra scoppi di proiettili d’artiglieria, Birdie che faceva le fusa in fondo a un pozzo profondo e altri scenari non meno bizzarri, le stesse immagini che si avvicendavano senza fine.

Mi ero vestita nel buio che precede l’alba e mi ero fiondata in mensa per una rapida colazione, poi, indossato il giubbotto antiproiettile, avevo ritrovato Blanton e la Welsted sulla pista di atterraggio.

Il Blackhawk era un portento d’ingegneria militare. Quattordici milioni di dollari d’acciaio antiproiettile e vetri in Lexan, azionati da due potenti motori turbo-albero.

Avrei diviso lo spazio con una mezza dozzina di militari. Facce stoiche, occhi spiritati; stretti come sardine incattivite in una scatola. Andavano da qualche parte a nord di Sheyn Bagh, a sedare un tumulto, mi ragguagliò la Welsted. Non fornì ulteriori spiegazioni e io non ne chiesi.

Il Blackhawk prese quota a una velocità da capogiro e si diresse rumorosamente verso la sua destinazione. Il sole sorgeva lungo la linea dell’orizzonte, scagliando dardi di luce. Il paesaggio era bello come può essere bella la tundra artica. Un fiume stretto, sotto di noi, pareva un nastro scuro su una distesa brulla e vuota.

Il mio sguardo migrò sulla Welsted, poi su Blanton. Qualcosa nelle loro posture indicava reciproca avversione. Se i loro occhi s’incontravano, subito guizzavano altrove, come calamite che si respingono; l’aria, tra loro, crepitava per la tensione repressa a stento.

Avevo già captato quella frizione il giorno prima, ma senza essere in grado di intuirne l’origine. Solo, un ronzio persistente alla base del tronco encefalico mi diceva che c’era qualcosa che non andava.

Avevano opinioni diverse in merito all’esumazione? Erano scontenti di doversi recare in un villaggio potenzialmente ostile per ordini superiori? O c’era di mezzo una faccenda personale?

Non pensarci. Concentrati sul compito da svolgere.

Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino. Il vetro speciale era solcato da tracce lattiginose nei punti in cui i proiettili antiaerei ci erano rimbalzati sopra. Perlustrai con lo sguardo il territorio sottostante, chiedendomi se qualcuno ci tenesse sotto tiro.

E mi sforzai di dimenticare anche quello.

Grazie a un forte vento di coda, arrivammo presto a Delaram, subito prima delle «otto e zero zero». Le pale del Blackhawk sollevarono sferzate di polvere giallastra, mentre toccavamo terra. Blanton scese per primo, seguito dai soldati. Tutti attraversarono la pista, correndo a testa bassa, le spalle curve contro il vento.

Seguii la Welsted al suolo, la sabbia che mi pungeva il viso e mi entrava negli angoli degli occhi. Mentre i soldati salivano su un camion e partivano insieme a un convoglio, l’agente dell’NCIS agitò la mano, indicando uno Humvee con il motore acceso e, sui sedili davanti, due Marines coperti di terra da capo a piedi.

«Questo posto è la fottuta sabbiera più grande del mondo.» Blanton sorrise caustico.

La Welsted ci superò con disinvoltura, salì a bordo. La seguimmo.

Lo Humvee percorse rombando una strada sterrata che si estendeva, sbiancata come un osso dal passaggio dei mezzi militari. Non c’era molto da vedere: sabbia modellata dal vento in formazioni ondulate; alberi stentati dai frutti avvizziti; i resti mezzo carbonizzati di un’auto a bordo strada.

Il nostro autista era giovane: come mia figlia, o forse più, le guance spolverate di peluria color pesca. Il collega accanto a lui non era molto più grande.

Mi domandai cosa ne pensassero i genitori, della loro presenza lì. Nella mia mente si spalancò una botola e, d’un tratto, vidi la vittima del pirata della strada, a Charlotte. Quella con il fermacapelli e la borsetta rosa. Quella chiusa nel sacco per cadaveri.

Guardai fugacemente alla mia destra e colsi Blanton che mi fissava, gli occhi come due fessure, forse persino con un che di ostile. Uno sguardo calcolatore? Ma cosa aveva da calcolare? Perché gli scopi di quell’uomo, o dell’NCIS, avrebbero dovuto divergere dai miei? O da quelli della Welsted?

Forse non era nulla del genere. Blanton aveva detto chiaro che non gli piaceva muoversi al di là della rete metallica. Forse era spaventato: io pure mi sentivo fuori dal mio elemento, Dio solo sapeva quanto. Tutti eravamo tesi. Eppure, non riuscii a sbarazzarmi della sensazione di quegli occhi gelidi, intenti a studiarmi.

Lo Humvee arrivò a un vehicle check-point che si riduceva, in pratica, a una scatoletta di cemento. Due militari occupavano un paio di sedie pieghevoli, già sudati anche se il sole era sorto da poco. Uno si alzò e ci raggiunse correndo. Portava occhiali da aviatore.

La Welsted gli esibì alcuni documenti; lui li esaminò con uno sguardo, poi si chinò per vedere meglio all’interno del veicolo.

«NCIS?»

La donna accennò a Blanton con il capo.

«L’antropologa?»

Questa volta il cenno spettò a me.

Le lenti scure ruotarono nella mia direzione, indugiarono per vari istanti sulla mia persona. Ostili? Impossibile dirlo con gli occhi del ragazzo nascosti alla vista. Credevano che fossi lì per comprovare le accuse a carico del sottotenente Gross? Per mettere in agitazione gli abitanti, complicando il loro lavoro?

Il soldato fece segno con la mano di circolare.

«Ci siamo quasi.» La Welsted parlava senza voltarsi. «Il villaggio non è granché. Tipico centro di questa provincia. Pastorizia, agricoltura su scala limitata. In circostanze normali non incontreremmo alcuna ostilità.»

«E non siamo in circostanze normali?»

«No, signor Blanton. Non lo siamo.»

La mascella dell’uomo si contrasse. Che l’attrito tra i due fosse dovuto soltanto ai classici conflitti di giurisdizione cui assistevo regolarmente anche a Charlotte e a Montréal? Esercito contro marina? Militari contro civili? Trovai l’idea stranamente confortante.

Nessuno parlò per i successivi cinque o sei minuti di strada accidentata, poi: «Non definirei queste persone ignoranti, perché sarebbe sbagliato, oltre che pericoloso». La Welsted strizzò gli occhi per la foschia da calura, che si levava scintillando all’orizzonte. «Ma conducono una vita semplice. Noi facciamo il possibile per rispettare i loro usi e costumi, nella misura in cui non interferiscono con i nostri obiettivi.»

«Che sarebbero…?» domandai.

«L’obiettivo numero uno è proteggere il mondo libero. L’obiettivo numero due – nostro scopo specifico in questa missione – è assicurarsi che il personale statunitense agisca correttamente nel perseguimento dell’obiettivo numero uno.»

Dopo altri silenziosi chilometri di sballottamento e sbandamenti, Sheyn Bagh apparve in lontananza: un complesso di basse strutture in pietra, racchiuse su tre lati da un sottile muro di cinta e sovrastate, sul quarto, da una collina scoscesa.

La Welsted aveva ragione: il posto non era un granché, a meno che non si fosse amanti del minimalismo più estremo, ma lo scenario era soprannaturale.

Il villaggio sorgeva ai piedi di un rilievo il cui lato sud si innalzava ripido per una sessantina di metri, fino a un pianoro disseminato di massi tondeggianti di forma singolare. Il pendio – più un dirupo che il versante di un colle – era costituito da peculiari formazioni appuntite, simili a savoiardi messi in verticale a varie altezze. Alla luce caliginosa del mattino, riuscii a distinguere piccoli fori nelle rocce, come le cellette di un alveare, poi, via via che si avvicinavano, i fori divennero porte, finestre e gradini d’ingresso.

Stavo per chiedere, ma la Welsted mi prevenne.

«Metà del villaggio è costruita sul fianco della collina. La roccia è abbastanza solida da fornire buone fondamenta, ma anche abbastanza porosa da poter essere scavata.»

«Forse è così che Osama era riuscito a dileguarsi» disse acido l’agente dell’NCIS.

Tanto per cambiare, la donna ignorò il commento di Blanton e proseguì la sua spiegazione: «Questi agglomerati sono come iceberg: solo una piccola percentuale è visibile».

Oltrepassammo un’apertura nel muro e ci fermammo nello spiazzo erboso al centro del villaggio. Una capra alzò la testa da un vicolo che sbucava tra due edifici, belò e si avvicinò lentamente allo Humvee.

Le dita del marine seduto accanto al guidatore si serrarono sull’impugnatura del fucile. Spostando la bocca dell’arma in vista, al finestrino, gridò qualcosa in una lingua che dedussi essere pashtu. Un ragazzino di dieci o undici anni corse verso di noi e riportò l’animale nel viottolo da cui era uscito.

«Questi bastardi ficcano esplosivo anche nel culo degli amici della fattoria.» La voce di Blanton era tesa.

Il marine aprì la portiera e scese. La Welsted lo seguì.

Ci venne incontro un trio di uomini in abiti colore del deserto. Kefiah ne avvolgevano il capo, sandali ne calzavano i piedi polverosi.

Uno dei due era più alto degli altri. Uno aveva un neo che ricordava una margherita. Tutti e tre erano magri, con volti butterati e segnati da cicatrici. Non riuscii a indovinarne l’età: avevano l’aspetto di pietra vivente.

«Lasciate parlare me.» La Welsted fece il giro dello Humvee e avanzò di qualche passo.

Gli uomini si fermarono a meno di due metri da lei. Seguì uno scambio di saluti cerimoniosi. Nessun sorriso.

Guardando, non potei fare a meno di domandarmi… Avevo di fronte gli odiati talebani? Quelli che picchiavano le proprie donne? Che tagliavano loro nasi e orecchie, sordi alle invocazioni di pietà? Mutilavano e umiliavano le vittime di uno stupro? Distruggevano le scuole pur di impedire alle bambine di imparare a leggere? Uccidevano i medici occidentali volontari per evitare che fornissero vaccini antipolio?

Oppure erano semplici agricoltori, che tentavano solo di tirare avanti in pace, trascorrendo i loro giorni a pascolare capre, coltivare campi e crescere la prole?

Mentre la Welsted conferiva con il comitato di accoglienza, mi guardai intorno.

Finestre mi fissavano come orbite vuote. Ma lo erano davvero? C’erano occhi, nell’ombra, a seguire ogni nostro movimento?

La canna di un AK47 – vecchio, ma sicuramente funzionante – scostò un uscio. Un fermaporta letale.

Qua e là, gruppetti di due o tre uomini ci guardavano con sospetto; ragazzini se ne stavano immobili a osservare, dimentichi del gioco. Non una donna in vista.

Dopo un breve scambio, i tre afghani si ritrassero un momento, confabulando tra loro, poi si riavvicinarono alla Welsted. Il più alto parlò, lei rispose. Lui esitò, quindi annuì in segno di assenso.

Il capitano tornò al veicolo.

«Dicono che ci sono state tensioni tra i nostri soldati e alcuni abitanti del posto. In seguito all’incidente. Il tizio avverte che l’esumazione dovrà essere effettuata con cautela e…»

«Rispetto» indovinai.

«Esattamente.»

«Per favore, li assicuri che tratterò i corpi con la massima deferenza.»

La Welsted tradusse e gli uomini commentarono tra loro. Di nuovo, il più alto annuì.

«Mettiamo in moto questo stramaledetto circo.» Gli occhi di Blanton correvano da un edificio all’altro, da un vicolo all’altro, da un volto curioso all’altro; le vene gli pulsavano sulle tempie.

Furono chiamati due ragazzi: due adolescenti dagli arti lunghi e scarni, con un principio di barbetta stentata. Ciascuno aveva una pala sulla spalla ossuta.

Apparivano stanchi, ma eccitati. Scavare in un cimitero! Un atto proibito, blasfemo, che però veniva consentito per un giorno.

Blanton parlò alla Welsted, senza levare gli occhi di dosso all’uomo più alto.

«Chiariamo bene al muj, qui, che filmerò tutto. Non voglio storie perché ho fatto incazzare gli antenati o tentato di rubare l’anima a qualcuno.»

Lei tradusse la questione e l’uomo alto rispose.

«Non vogliono che riprendiamo le donne» riferì il capitano.

«Addio servizio su “Cosmopolitan”!» L’agente dell’NCIS sputò per terra. «Muoviamo le chiappe, forza.»

«Ci dia un taglio con questo atteggiamento.» Il tono della Welsted era veleno puro.

Blanton e io radunammo fotocamere, pale e altre attrezzature; lei prese il vaglio. L’uomo alto fece un gesto in direzione del vicolo da cui era sbucata la capra. Il nostro autista si mise in testa alla fila, il suo collega in coda: entrambi apparivano nervosi come cervi fuori dal bosco.

Mentre procedevamo incolonnati verso l’estremo ovest del villaggio, mi sentivo addosso occhi invisibili. Ma udivo solo il tonfo dei nostri passi, e campanelle a vento in lontananza.

Il cimitero si trovava poco più di cento metri fuori le mura. Sopra incombeva l’affioramento roccioso, che dominava il luogo come una Masada in miniatura.

Le sepolture erano modeste, senza le lapidi ornate o le statue che si trovano nei vecchi camposanti americani. Talune avevano rozzi segni di riconoscimento, fatti della stessa roccia usata per costruire i muri, ma molte erano spoglie, contornate da pietre disposte a formare un ovale.

Alcune presentavano ancora un cumulo ben definito, mentre altre erano mezze crollate: i morti recenti e quelli di lunga data, tutti allineati in file, come pianticelle in un campo. Solo che c’erano ossa, non semi, sottoterra.

Senza una parola, raggiungemmo le due tombe in questione. Quella di Aqsaee era all’ingresso del cimitero. Rasekh giaceva molto più in là, tanto che il suo ovale di pietre era quasi in pendenza, all’inizio del declivio.

La Welsted mi guardò. Le dissi che avremmo cominciato con Rasekh. Non c’era una ragione particolare: eravamo già lì.

Con i corpi tesi, gli occhi che guizzavano intorno senza requie, i due Marines presero posizione accanto all’entrata del cimitero. Non avrei saputo dire se quella vigilanza nervosa accrescesse o diminuisse il mio senso di sicurezza.

Mentre Blanton girava video, scattava fotografie e i due ragazzi toglievano le pietre del perimetro, usai una punta metallica per sondare le diverse densità del sottosuolo e stabilire la configurazione della tomba.

Poi, con poche istruzioni della Welsted, i ragazzi affondarono le pale nell’arido terreno del deserto. Mentre lavoravano a gambe larghe, le braccia che facevano energicamente su e giù, mi accovacciai sul ciglio della fossa che si andava approfondendo, attenta a variazioni di colore del suolo che indicassero la presenza di materia in decomposizione.

Per trenta minuti risuonò nell’aria il rumore delle pale conficcate nel terreno, insieme a quello della terra estratta, che ricadeva sul cumulo sempre più alto.

Alcuni uomini si radunarono alle mura del villaggio, osservando in un silenzio truce. Ogni tanto alzavo fugacemente gli occhi nella loro direzione. Benché troppo lontani per decifrarne le espressioni, sapevo che ci stavano scrutando con attenzione.

Passò un’ora. Novanta minuti. Il sole si alzò nel cielo e, con lui, la temperatura.

Dopo aver scattato una terza serie di foto, Blanton si spostò ai margini del gruppo e si accese una sigaretta. Un vecchio gli andò vicino, tese il palmo. Lui diede una scrollatina al pacchetto per farne uscire un’altra e gliela porse.

Alla fine, colsi il cambiamento rivelatore.

«Fermi» intimai.

I ragazzi smisero di scavare. Raddrizzarono le schiene e si guardarono, poi i loro occhi si fissarono su di me.

«Chieda loro di allontanarsi, per favore» dissi rivolta alla Welsted.

I due obbedirono al comando.

La fossa era profonda circa novanta centimetri. Sul fondo, un ovale scuro andava affiorando dal terreno marrone-giallastro e, lì in mezzo, vedevo spuntare qualcosa: un lembo di stoffa.

Sentii dei passi, poi un’ombra oscurò la sepoltura.

«Trovato il nostro?»

Ignorando la domanda di Blanton, mi misi a pancia in giù, chiusi gli occhi e inspirai a fondo attraverso le narici.

L’odore di carne in decomposizione è inconfondibile: fetido e dolciastro, come di avanzi che marciscono nel bidone della spazzatura.

Captai solo terra e un accenno di materia organica: i corpi dovevano essersi mummificati, oppure si erano ormai ridotti al solo scheletro.

Un’ombra si affiancò a quella di Blanton.

«Serve una mano?»

«Prendetemi paletta e pennello dallo zaino, grazie.»

La Welsted tornò in un lampo. «Che c’è, lì?»

«Probabilmente un lembo del sudario.»

«È il momento di tirar fuori un sacco per cadaveri?»

«Sì.»

Con la paletta, raschiai il terreno intorno alla stoffa e sotto, rivelando pian piano i contorni di ciò che conteneva. Quando ne ebbi scoperto abbastanza, tirai con cautela un fragile bordo.

Nel sudario c’era esattamente ciò che avevo sperato. Riconobbi una clavicola, una scapola, del tessuto legamentoso scuro e coriaceo.

Feci segno ai due ragazzi di procedere con le palette, dando loro una rapida dimostrazione.

Un’ora dopo, le ossa avvolte nel sudario di Rasekh giacevano sul terreno. Io ero inginocchiata a chiudere il sacco per cadaveri, quando, in lontananza, udii un rumore: un ronzio sommesso, come di un’ape indolente sotto il sole.

Alzai gli occhi, perlustrando il cielo. Non vidi nulla.

Il ronzio si fece più forte e vi si aggiunse un rumore di passi frettolosi.

Mi guardai intorno.

Dall’altra parte del cimitero, Blanton aveva due occhi tondi tondi su un volto pallido come un cencio. Gli abitanti accanto al muro non c’erano più. La Welsted, tornata allo Humvee, scrutava il cielo e così facevano i due Marines. Il mio team di scavatori si era dileguato.

Il cervello umano è una stazione di smistamento che opera a due livelli. Mentre la corteccia cerebrale elaborava quei fatti, il mio cervello primitivo stava già ordinando di pompare adrenalina.

Il ronzio divenne una sorta di gemito, più vicino, più forte. La peluria invisibile dentro le mie orecchie vibrava in modo fastidioso.

«Giù!» gridò il marine che, sullo Humvee, aveva occupato il posto accanto al guidatore. «Ora!»

Mi rannicchiai a terra, le mani sopra la testa.

E il mondo esplose.