23
Mi svegliò il rombo dei motori nel cielo sopra la mia testa.
La caviglia andava meglio, ma le tempie mi pulsavano: effetto combinato di jetlag, mancanza di una cena dignitosa e aria rarefatta del deserto.
Mi vestii in fretta e controllai la posta elettronica. Niente da Larabee. Erano passati dieci giorni dal ritrovamento della ragazza. Il caso del pirata della strada, temetti, si avviava a una rapida archiviazione.
In mensa, arraffai uova e crocchette di patate, mi versai del caffè e trovai un tavolo libero.
Avevo appena cominciato a mangiare che Blanton si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla mia, due mezzelune scure sotto gli occhi.
«Un altro giorno in paradiso.»
Pezzetti di bacon gli erano rimasti appiccicati all’ombra di barba malrasata sopra il labbro superiore. Considerai la possibilità di dirglielo. Non lo feci.
«Dormito bene?» chiesi.
Si abbassò la palpebra inferiore, esponendo la sclera iniettata di sangue. «Come un bambino!»
«Sarà un problema, signor Blanton. Oggi ci aspetta un lavoro piuttosto minuzioso.»
«Lavoro suo, non mio.»
«Ma il tutto dovrà essere documentato.»
«Non è il mio primo rodeo, piccola.» Sorrise, mi fece un saluto militare e si allontanò.
Mentre finivo il caffè, mi domandai: quello stronzo riusciva nell’intento di far sembrare Slidell sopportabile? La tazza atterrò sul vassoio. No, ma le distanze si stavano accorciando.
La Welsted e i delegati del villaggio erano già all’ospedale, quando arrivai.
«I resti sono stati radiografati» mi informò lei, mentre ci dirigevamo alla stanza che ci era stata assegnata. «Li faccio portare?»
«Dove sono le lastre, per favore?»
«Su una delle lettighe.»
Quando uscì, mi guardai intorno.
Mattonelle bianche, due lettighe di riserva, una piantana con lampada chirurgica, visori retroilluminati portatili, piano di lavoro con due capienti lavandini in acciaio inox integrati, piccolo assortimento di strumenti da taglio, calibri e lenti. Non ciò di cui disponevo a Charlotte o a Montréal, ma tutto ciò che mi serviva per fare il mio lavoro.
Blanton ci raggiunse, mentre un inserviente portava dentro i resti e, senza un commento, cominciò a predisporre l’attrezzatura foto e video. I due rappresentanti del villaggio osservavano, tesi nella postura, gli occhi irrequieti. Sembravano così agitati da aver bisogno di una buona dose di tranquillanti.
Mi accostai alla Welsted e parlai sottovoce. «Sarebbe forse meglio se assistessero dalla stanza accanto.» Accennai con il capo a una finestrella ricavata nella parete sopra i lavandini.
«Vado con loro» si offrì la donna.
Qualche istante dopo, si accese una luce e i tre riapparvero dall’altra parte del vetro.
Non senza un cenno d’incoraggiamento nella loro direzione, sfilai le radiografie di Rasekh dalla busta e le applicai ai visori.
Mentre mi spostavo da uno all’altro, azionando gli interruttori, ebbi un tuffo al cuore.
Rasekh era già stato dissotterrato, quando era giunto il colpo di mortaio e, in seguito, avevamo passato quasi un’ora a estrarre il sacco per cadaveri da sotto le rocce crollate. Per tutta la notte mi ero preoccupata al pensiero che la frana avesse danneggiato le ossa.
Osservai i resti che biancheggiavano all’interno del sudario. Le ossa lunghe sembravano ragionevolmente intatte, ma il tronco era un guazzabuglio e il cranio appariva schiacciato. Nulla era più articolato. Rasekh era in condizioni assai peggiori di quel che temevo.
Rivolsi un sorriso sicuro ai visi di là dal vetro. Una sicurezza che non provavo affatto.
«Pronto?» chiesi a Blanton, mentre infilavo i guanti in lattice.
«Tutti i dispositivi in funzione.»
L’uomo accese la videocamera. Io presi il mio iPhone e dettai ora, data, luogo e nomi dei presenti, quindi indossai la mascherina.
Quando abbassai la lampo del sacco di Rasekh, ne uscì un odore di muffa. Svolsi con cautela il sudario.
In un anno di tempo, Madre Natura aveva operato la sua inevitabile magia: permanevano giusto alcuni residui di legamenti, qua e là una delle fasce che un tempo avevano collegato le falangi, un brandello del tessuto che aveva rivestito una capsula articolare… Per il resto, più nulla: puro scheletro.
Ma ciò che il tempo e il deserto avevano lasciato era stato demolito in pochi secondi dalla frana.
Non una porzione del cranio o della mascella di Abdul Khalik Rasekh misurava più di cinque centimetri quadri, sei al massimo. Distinsi una bozza orbitaria, una fettina di arco zigomatico, un processo mastoideo, un condilo mandibolare, denti isolati.
Lo scheletro postcraniale non era messo molto meglio. Se femori e tibie apparivano integri, le altre ossa degli arti inferiori erano malamente fratturate e il bacino in frantumi.
Braccia e torace avevano subito il danno peggiore. Le ossa degli arti superiori erano praticamente polverizzate, come pure clavicole, scapole, sterno, vertebre, coste.
E ciò non era una buona cosa.
Ai Marines si insegna a mirare al baricentro di un bersaglio. Immaginiamo un tronco umano. Tracciamo una linea da un capezzolo all’altro, poi un’altra da ciascuno dei capezzoli alla gola. Qualunque proiettile colpisca quell’area, renderà inerme il soggetto per paralisi, shock o decesso.
Il Triangolo della morte.
Per effetto dei proiettili o dei detriti caduti, il triangolo di Rasekh era ridotto a un hamburger.
Respiro profondo. Cenno del capo verso gli osservatori per rassicurarli.
Cominciai a prelevare elementi riconoscibili e a disporli in una macabra ricostruzione dello scheletro. Mentre posizionavo ogni frammento, cercavo tracce di traumi da proiettile.
Per non perdere la concentrazione, ripassai mentalmente alcuni fondamentali.
Le lesioni d’arma da fuoco sono classificate secondo la distanza tra chi spara e la vittima. Le ferite a contatto diretto, in cui l’arma è premuta sul corpo, possono lasciare un alone di fuliggine, lo stampo della bocca dell’arma o persino una lacerazione dovuta all’azione dei gas di espansione della canna; le ferite a distanza ravvicinata possono lasciare, invece, una zona punteggiata, il cosiddetto «tatuaggio da polvere da sparo»; oltre una certa distanza, il tatuaggio non si produce più.
Ma tutto ciò era irrilevante: non c’erano tessuti, qui. Inoltre, le testimonianze ponevano già Gross a circa dieci-quindici metri da Aqsaee e Rasekh.
E io non vedevo alcuna traccia della sparatoria.
«Che arma ha usato Gross?» domandai. Ricordavo il dossier dell’NCIS, tuttavia volevo una conferma dei dati essenziali.
«Un M16. Artiglieria standard dei Marines.»
«Quanti colpi?» Parlavo anche per tentare di celare il mio nervosismo.
«L’M16 ha un caricatore da trenta colpi. Gross ha svuotato il suo.»
Un accanimento eccessivo anche per due bersagli.
«Che tipo di proiettili?»
«Cartuccia standard NATO 5,56 millimetri.»
«Velocità?»
«Novecentoquaranta metri al secondo. Qualunque cosa sotto i mille… popcorn!»
Nel suo modo non elegantissimo, Blanton si riferiva a una sequenza di eventi che si produce con certi tipi di proiettili che, se oscillano o imbardano, possono frammentarsi, spedendo metallo nei tessuti circostanti. Quel tipo di ferita era in grado di procurare danni assai maggiori di uno sparo netto da parte a parte.
«Le testimonianze dicono qualcosa sulla sequenza di fuoco?» domandai.
L’uomo scorse i suoi appunti.
«I testimoni hanno dichiarato di aver sentito una detonazione, poi una pausa, poi un’altra. Tutti concordano su un punto: lo scenario era un caos.»
Alzai lo sguardo sui delegati. I loro volti erano ancora appiccicati al vetro, cupi e risoluti. Anche il mio dava probabilmente la stessa impressione.
Dopo aver disposto l’intero contenuto del sacco, cominciai a descrivere ciò che vedevo, procedendo, com’è mia abitudine, dal capo e andando verso i piedi.
«Alcuni tratti identificabili del cranio indicano un uomo di mezza età.» Li elencai. «Dentatura frammentata e incompleta, ma coerente per età e sesso con il profilo del soggetto, Abdul Khalik Rasekh.»
«È strettamente necessario?» Blanton suonava spazientito.
«I ricordi sbiadiscono, le cose si fanno sempre più confuse. L’identificazione è sempre il primo passo di un’esumazione.»
Proseguii attraverso lo scempio, annotando i caratteri rilevanti per stabilire il profilo biologico di Rasekh. Un frammento di sinfisi pubica confermò la mia stima dell’età. La forma dell’osso del pube mi disse che i resti appartenevano a un individuo di sesso maschile.
Ma le schegge e i frammenti che rappresentavano il tronco erano troppo frantumati per fornire informazioni sulla causa del decesso.
Malgrado il proposito di non perdere la calma, l’agitazione s’insinuava nella mia voce e Blanton se ne rese conto.
«Tutto okay, doc?»
«Assolutamente.»
Scostandomi i capelli dalla fronte con il dorso della mano, ricontrollai ogni frammento della regione toracica di Rasekh, questa volta usando lenti d’ingrandimento. Era come guardare un biscotto in briciole, schiacciato dal mattarello.
Mentre procedevo, ecco rispuntare il mal di testa del risveglio. Un senso di oppressione mi montava nel petto. Avrei pensato che la traiettoria di un proiettile fosse facile da analizzare: ero stata spedita a migliaia di chilometri per farlo. E invece stavo fallendo.
Esaminando un segmento d’omero di sessanta centimetri, notai una picchiettatura quasi invisibile che tagliava trasversalmente la superficie.
«Qui forse c’è qualcosa.» Inclinai l’osso in modo che la videocamera di Blanton potesse riprendere i segni.
«Forse un tatuaggio da polvere da sparo, ma è uniformemente distribuito.»
«Quindi non c’è modo di stabilire la traiettoria» dedusse lui.
«No» confermai, dopo qualche altro istante passato a osservare, aguzzando la vista, da varie angolazioni.
Delusa, dettai una descrizione dell’anomalia. Blanton scattò vari primi piani con una Nikon, poi alcune Polaroid di supporto.
«Questi gingilli si sono evoluti parecchio rispetto ai primi tempi.» Blanton estrasse la fotografia e la posò sul banco di lavoro. «Quattordici megapixel, stampe inkless 8 × 13. In caso di emergenza, il dettaglio è discreto. Ho visto troppi disastri combinati da presunte attrezzature ipertecnologiche a prova di errore. Faccio sempre qualche scatto di riserva.»
Chapeau, signor Blanton.
Continuai a cercare, un frammento dopo l’altro.
E mi ritrovai con un pugno di mosche.
Scoraggiata, raddrizzai la schiena e ruotai le spalle. L’orologio segnava le dodici e dieci.
«Pausa?» chiese Blanton.
Scossi il capo. «Ora che le ossa sono disposte, Rasekh se ne torna in radiologia.»
Lui mandò a chiamare Harold, il tecnico che aveva radiografato i resti ancora avvolti nei sudari, che arrivò nel giro di pochi istanti.
Ascoltate le mie indicazioni, Harold uscì, portandosi via la lettiga.
«A meno che le lastre non evidenzino qualcosa che mi è sfuggito – cosa improbabile – Rasekh è un buco nell’acqua. Passiamo oltre.»
Dettai il nome del secondo uomo: Ahmad Ali Aqsaee. Dopo aver aggiunto le altre informazioni pertinenti, visionai le lastre dei resti ancora chiusi nel sudario.
E mi rilassai di un micron.
Aqsaee era in condizioni migliori di Rasekh. Il che era logico: quando il mortaio aveva colpito, si trovava ancora sottoterra. Nondimeno, il normale danneggiamento postmortem appariva esteso.
Andai alla lettiga, abbassai la lampo del sacco e scostai la stoffa.
Accanto a me, Blanton trattenne udibilmente il fiato.
Come Rasekh, Aqsaee era ormai privo di tessuti molli residui, ma il suo scheletro differiva dal primo per una caratteristica impressionante.
Il profano pensa in genere che l’osso sia bianco: ha in mente gli scheletri di Halloween, i modelli del laboratorio di biologia, a scuola, oppure la classica carcassa di bisonte dei film western. In realtà, il tessuto osseo assume spesso la pigmentazione del substrato in cui si trova seppellito.
E ciò era avvenuto al ragazzo. Il suo scheletro aveva il colore del cuoio invecchiato.
«Non si vede tutti i giorni una cosa simile» commentò Blanton.
«Non è così rara» spiegai. «Probabilmente sono i minerali contenuti nelle rocce o nel terreno.»
«Perché solo lui?»
«Forse la composizione del sottosuolo è differente nella parte posteriore del cimitero. Magari un ruscellamento dal fianco della collina è filtrato nella sepoltura di Rasekh, portandosi via gli elementi in questione.»
«La colorazione non le creerà problemi nell’analisi?»
«No.»
Adottai con la più giovane delle due vittime lo stesso approccio utilizzato con l’altra, solo, con trepidazione leggermente minore.
Confermai che tutti i caratteri di scheletro e dentatura erano coerenti con il profilo biologico di Aqsaee. Maschio. Diciassette anni.
«Doc.»
Guardai Blanton.
«Il resto della squadra ha bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.»
Acconsentii con riluttanza. Trenta minuti dopo eravamo di ritorno e cominciai la ricerca dei traumi.
Lo scheletro era perfettamente integro. Niente fratture. Niente fori di proiettili.
Blanton scattò primi piani da varie angolazioni.
La mandibola era rotta in corrispondenza della linea mediana, ma avevo il sospetto che il danno fosse avvenuto postmortem, per la pressione esercitata dal terreno sovrastante.
Le riprese fotografiche proseguirono.
Braccia e gambe non mostravano evidenza di traumi. Passai alla cassa toracica.
Il torace di Aqsaee era danneggiato quasi altrettanto malamente di quello di Rasekh. Esaminando le coste frammentate, le clavicole fratturate, vertebre, scapole e sterno schiacciati e abrasi, avvertii nuovamente il senso di oppressione.
I miei occhi saettarono senza volerlo alla finestrella degli osservatori. Dall’altra parte, vedevo la Welsted e i due delegati che discutevano concitatamente. L’uomo alto gesticolava. Mentre lo guardavo, si voltò e puntò il dito contro il vetro.
Anche Blanton si accorse dell’alterco.
«Vado a sentire.»
O a gettare benzina sul fuoco? Forse, ma non tentai di fermarlo: la mia attenzione era tutta per la regione toracica di Aqsaee.
Uno a uno, sollevai e ispezionai ogni frammento. Vi ero intenta da una decina di minuti, quando scorsi un’anomalia su un segmento di costa lungo due centimetri. Benché incompleto, la forma circolare era inconfondibile. Lo misi da parte.
Sette minuti dopo trovai un’altra irregolarità parziale, poi un’altra ancora.
Con crescente eccitazione, identificai e orientai quattro frammenti rozzamente triangolari che, in vita, erano appartenuti allo sterno.
Il mio cuore accelerò i battiti.
Procedendo con cautela, girai e ricollegai gli elementi in modo da osservare il retro dell’osso.
E dovetti trattenermi dal fare un balletto d’esultanza come un calciatore dopo il goal.
Bang, bang!
La mia testa ruotò di scatto verso il vetro: l’uomo alto lo aveva colpito con il pugno. Blanton stava cercando di calmarlo. La Welsted non si vedeva più.
Ma ero troppo euforica per badare ai loro scambi d’opinione.
Avrei mandato le ossa a radiografare. Anche se non era necessario.
Ora sapevo cosa era successo.