24

 

Un’ora dopo aver finito l’analisi, ero seduta al tavolo di rovere chiaro nella sala riunioni della gestione interna, alla base. Gli osservatori afghani erano stati congedati con la promessa di un resoconto completo e il permesso di riportare Aqsaee e Rasekh a Sheyn Bagh per riseppellirli.

Gli altri partecipanti alla missione occupavano esattamente gli stessi posti di mercoledì. Come me, del resto. Strani questi automatismi.

Due aloni scuri chiazzavano la camicia di Blanton sotto le ascelle, richiamando i cerchi che aveva sotto gli occhi. Era sparito all’uscita dall’ospedale e mi chiesi dove fosse andato. Che aveva fatto per sudare tanto?

«Tutto bene?» gli domandai, più per passare il tempo che per reale interessamento: eravamo in attesa del colonnello Fisher, come alla riunione precedente.

Lui alzò una sola spalla. «Forse sto covando qualcosa» disse.

Dopodiché, restammo tutti in silenzio. Trascorse qualche minuto. Blanton, la Welsted e io conoscevamo l’esito della perizia, Noonan, invece, no, ed era visibilmente teso.

Lui e la Welsted si alzarono dalla sedia, quando apparve la Fisher. Blanton e io rimanemmo seduti.

La donna chiuse la porta e prese posto al tavolo. «Allora.» Breve sorriso nella mia direzione. «Ha concluso la perizia?»

«Sì.»

«Mi dicono che le è toccata un po’ d’azione, là fuori.»

«Non si può dire certo che io mi sia annoiata.»

«Proceda.» Il colonnello si appoggiò allo schienale, le mani giunte in grembo.

«È il classico binomio notizia buona-notizia cattiva» esordii.

«Vada con la cattiva.»

«I resti del signor Rasekh erano di gran lunga troppo danneggiati per permettere qualsiasi conclusione in merito alla traiettoria del proiettile o alla causa del decesso in generale.»

La Fisher rispose con un breve cenno di assenso. «E quella buona?»

«Il signor Aqsaee era in uno stato migliore. Benché il danno postmortem fosse esteso, era evidente una lesione d’arma da fuoco nella regione toracica. Sono riuscita a osservare, descrivere e riprendere fori parziali di entrata e uscita su due frammenti di coste, una vertebra e sulle facce anteriore e posteriore dello sterno.»

Un sopracciglio della donna s’inarcò lievemente.

«L’osso centrale del torace.»

«Vada avanti.»

«Desidera una descrizione biomeccanica completa dell’andamento delle fratture?»

«La tenga per il suo rapporto. Al momento, saranno sufficienti le conclusioni.»

«Il sottotenente Gross non ha sparato alle spalle di Ahmad Ali Aqsaee.»

Benché già prima nessuno stesse parlando, la stanza si fece ancor più silenziosa.

Passò un momento, poi la Fisher disse: «Forse, in effetti, due parole di spiegazione sarebbero opportune».

«Sono riuscita a individuare tre lesioni d’entrata e due di uscita. Insieme, queste sedi descrivono il percorso di almeno due proiettili. In entrambi i casi le traiettorie sono in senso antero-posteriore.»

Di nuovo il sopracciglio.

«I proiettili sono entrati nel petto del signor Aqsaee per uscire dalla schiena.»

«Un risultato che avvalora la versione dei fatti del sottotenente Gross.»

«Sì.»

«È certa delle sue conclusioni?»

«Assolutamente.»

«Solo sulla base di qualche intaccatura nell’osso?»

«Oltre ai fori di entrata e uscita, le radiografie hanno rivelato la presenza di alcuni frammenti di metallo. Il loro orientamento convalida la teoria del movimento dall’avanti all’indietro. Li ho notati visionando le lastre dei resti di Aqsaee, tolti dal sudario e semiriarticolati.»

Noonan si sporse verso di me. «Sta dicendo che, per la più giovane delle due vittime, è sicuro al cento per cento?»

«Niente è mai sicuro al cento per cento.»

«Entro i limiti di una ragionevole certezza medica» specificò.

«Sì» confermai.

L’uomo si passò una mano sulla mascella. Poi espirò dal naso.

La Fisher aveva ancora qualche domanda.

«E i colpi di rimbalzo? Non potrebbe un proiettile entrare da dietro, rimbalzare sulle coste, sullo sterno o quello che è, e tornare indietro?»

Scossi il capo. «I proiettili non fanno il boomerang in quel modo. Se un colpo entra nel corpo della vittima…»

«Possiamo smetterla di chiamarli vittime, adesso?»

L’asprezza del tono fece trasalire tutti. Fu la Fisher a reagire.

«Lei cosa preferirebbe, signor Blanton?»

«Insorti? O che ne dite di aggressori?»

«Non c’è alcuna prova che Aqsaee o Rasekh fossero armati.»

L’uomo si riappoggiò bruscamente allo schienale, scuotendo il capo.

Il colonnello Fisher aveva un ultimo interrogativo.

«Gross potrebbe aver sparato ad Aqsaee sia nel petto sia alla schiena?»

«Tecnicamente è possibile, se la raffica continua di colpi lo avesse fatto girare su se stesso, ma non ho trovato traccia di fori d’entrata posteriori o d’uscita anteriori.»

«Quindi Gross potrebbe essere innocente.» Il tono del tenente Noonan era neutro: niente sorpresa, sollievo o scetticismo.

«La prego, non mi fraintenda» ammonii. «Sto solo dicendo che il signor Aqsaee era di fronte al sottotenente Gross o stava camminando verso di lui, quando è stato colpito.»

L’innocenza o colpevolezza di Gross erano ben altra questione e implicavano variabili indipendenti da ciò che dicevano le ossa. I due afghani avevano avuto atteggiamenti minacciosi? Gross si era giustamente ritenuto in pericolo? Ma tutto ciò era di competenza degli avvocati, non mia.

Intervenne la Fisher: «Apprezziamo la sua efficienza, dottoressa. Dal giorno dell’incidente, le relazioni con Sheyn Bagh sono state a dir poco tese. Se condotta in modo inadeguato, l’esumazione avrebbe compromesso quel po’ di armonia che eravamo riusciti a ristabilire.»

«Dubito che gli abitanti trarranno conforto dalle mie conclusioni.»

Lei ci pensò. «No, non ne saranno contenti, ma gli afghani – è triste dirlo – conoscono il prezzo della guerra: comprenderanno che, costretto dalle circostanze, un soldato abbia dovuto scegliere tra la propria vita e quella di un altro; che, sentendosi minacciato, abbia agito per salvare se stesso e i suoi uomini.»

Forse, ma mi domandai comunque come il colonnello e i suoi ufficiali avrebbero presentato la faccenda, per farla apparire nella luce migliore.

«Ha fatto un ottimo lavoro, qui, dottoressa Brennan, e gliene siamo grati, ma mi è stato chiesto di approfittare ancora di lei. Come forse saprà, l’udienza dell’articolo 32 per il sottotenente Gross era stata sospesa per consentire questa operazione. Ora sarà necessaria la sua presenza a Camp Lejeune.»

Me l’aspettavo. «Quando?»

«Immediatamente.»

Merda.

«Ci sarò.»

«La sua partenza è già stata organizzata. Il corpo dei Marines la ringrazia e io con lui.»

Ci alzammo, stringendoci la mano e ognuno di noi andò per la sua strada.

Katy non sarebbe stata disponibile per cena, così, fin dalla sera prima, ci eravamo accordate per fare insieme un giro di shopping.

Mentre percorrevo la breve distanza tra la mia baracca e lo spaccio militare, uno splendido tramonto tingeva di rosso acceso le vette innevate. I prefabbricati cui passavo accanto splendevano di toni più caldi che durante il giorno e le ombre ripartivano il terreno in zone di luce e ombra.

Il bazar era gremito. Perlustrai l’ambiente con lo sguardo, ma non riuscii a distinguere mia figlia nel mare di mimetiche.

Mi sentii battere sullo zaino. «Come sentinella saresti un vero disastro.»

Mi voltai. Katy era a meno di un metro da me.

«Bisogna guardarsi sempre le spalle, mamma.»

«Tecnicamente, c’è lo zaino di mezzo.»

Sorrise. Portava la divisa da corvée, gli anfibi. E un M16 a tracolla. Era così strano vedere mia figlia armata.

«Un po’ di caffeina?» chiese.

«Sicuro.»

L’interno del Green Bean ricordava qualsiasi coffee house di casa. Il menù appeso alla parete offriva mille varietà di caffè e di tè. Una macchinetta per l’espresso sibilava ininterrottamente in sottofondo. O era per il cappuccino?

«Che veleno scegli?» domandai. «Offro io.»

«Normale. Solo un goccio di latte.»

Altra sorpresa: ora i gusti di mia figlia corrispondevano al suo taglio di capelli, semplice e pratico.

Occupammo due sedie addossate a un muro coperto di cimeli militari, tutti sul tema guerresco: teschi, spade, croci di ferro, stemmi con copricapo indiani (quelli del 335° squadrone piloti si facevano chiamare «i Capi»).

Katy notò che li osservavo. «Molte unità hanno stemmi e simboli. Sono una specie di emblema di famiglia.»

Lo sapevo, ma glielo lasciai spiegare. Non m’importava quale fosse l’argomento di conversazione: ero felice di passare del tempo con la mia bambina.

A un certo punto, Katy mi chiese dell’indagine.

«È andata bene» dissi.

«Perciò hai già finito?»

«Parto domani.»

Non rispose e mi domandai: era triste all’idea che me ne andassi? Sollevata? Avevo invaso un mondo che voleva mantenere solo suo?

«Ho conosciuto due donne a Manas.» Parlò dopo una pausa che mi sembrò durare all’infinito. «Al Pete’s Place

«Cos’è?»

«Un bar della base. A Manas il personale di servizio è autorizzato a bere due drink ogni ventiquattro ore, i Marines no.»

«Perché?»

«Credo che qualcuno abbia superato la dose e combinato casini. Non so l’intera storia, comunque sono molto più civilizzati lì che in Afghanistan.»

«Non apprezzi la politica alcohol-free

Alzò gli occhi al cielo. «Insomma, queste due donne erano madre e figlia, si erano arruolate, addestrate e trasferite alla base insieme.»

«Davvero?»

«Stavano in aviazione, assegnate a una specie di servizio di scorta.»

«Mi stai suggerendo di fare squadra con te?»

Risata fragorosa, poi un’altra pausa: «Tra un paio di giorni la mia unità uscirà di nuovo».

«Per andare dove?»

«Al nord. È tutto ciò che posso dire. In effetti è tutto ciò che so.»

«Capisco.» Capivo. E lo odiavo.

Finì l’ultimo sorso del suo caffè niente-zucchero-niente-panna e mi chiese: «Pronta per il megastore?».

Scoppiammo a ridere. Il «megastore» di Bagram era un dedalo di negozietti e chioschi che vendevano per lo più prodotti locali: articoli in legno, ottone, stoffa, gioielli, tappeti… E nient’altro.

«Guidami, regina dello shopping» le risposi.

E lei lo fece.

«I negozianti sono tutti afghani?» domandai, durante il nostro giro.

«Credo di sì. Arrivano la mattina, passano i controlli di sicurezza, piazzano i loro banchetti, ripassano i controlli e se ne vanno a casa. Parliamo di sedici-diciassette ore al giorno.»

Passando, i venditori ci invitavano senza troppa invadenza a guardare le merci. Ogni tanto ci fermavamo. Stavo ammirando una sciarpa riccamente intessuta, quando qualcosa mi sfiorò la mano libera. Mi voltai.

Una ragazza afghana di quindici-sedici anni era in piedi vicino a me, gli occhi fissi sul mio volto.

«Ciao.» Sorrisi.

Lei bisbigliò qualcosa, in pashtu o in dari. Colsi solo una parola: «Allah».

«Mi dispiace» dissi. «Non capisco.»

Ripeté la stessa frase, o almeno così mi parve, gli occhi che le correvano alla sua destra e alla sua sinistra. Di nuovo, Allah fu tutto ciò che afferrai.

Voleva qualcosa? O cercava solo di fare proselitismo?

Katy stava esaminando un foulard appeso a un’altra rastrelliera; le feci segno di raggiungermi.

«Tu capisci ciò che dice?»

«Non ci badare.» Abbassò la voce. «Quella ragazza è un po’ fuori.»

«Cosa vuoi dire?»

«Gliel’ho già visto fare altre volte.»

«Fare che?»

«Importunare le donne in abiti civili.» Con un buffetto, mi sospinse oltre. «Una delle mie compagne di branda dice che è suonata.»

Mi lasciai condurre, ma, quando ci fermammo di nuovo, lanciai un’occhiata dietro di me.

La ragazza mi stava ancora fissando. Poi un uomo uscì dal negozio e la esortò a entrare.

«Mamma…»

Mi voltai.

«Vieni a vedere.»

Inquieta, cercai di concentrarmi sul tappeto che aveva attirato l’interesse di mia figlia. Stavo per commentare, quando il suono di un allarme squarciò l’aria.

«Attacco in arrivo.» Katy lasciò il tappeto. «Andiamo via di qui.»

Attraversammo la strada di corsa, svoltammo bruscamente a destra ed entrammo incespicando in una bassa struttura di cemento coperta di sacchi di sabbia. Le panche erano già occupate da altri, e altri ancora arrivarono dopo di noi.

In pochi secondi il bunker fu pieno. Non avvertivo panico intorno a me, ma la placida rassegnazione della routine.

Mentre aspettavamo al buio, con le sirene che ululavano, sentii di nuovo il tocco lieve sulla mano. Gettai un’occhiata alla mia sinistra e riconobbi la silhouette: la ragazza «Allah» era dietro di me, nell’ombra. Alle sue spalle c’era l’uomo che l’aveva riportata nel negozio.

Passò del tempo.

La giovane era così vicina che sentivo il tremore del suo corpo. A un certo punto emise come un piagnucolio. L’uomo le parlò in tono brusco. Udii la parola «Khandan». Il suo nome?

Poi suonò il via libera. Raccogliemmo le nostre cose e uscimmo, sgomitando nella ressa.

«Non ti sconvolge più di tanto, vedo» dissi a Katy, infilandomi lo zaino.

Lei scrollò le spalle. «Più un fastidio che altro. Ci si abitua, la vita continua.»

Normalmente sì, ma molti erano morti nelle basi statunitensi per attacchi missilistici o colpi di mortaio di quel genere.

Durante quello scambio, passarono l’uomo e la ragazza. Lui non ci prestò attenzione, ma gli occhi di lei si fissarono nei miei. Tristi? Sorpresi? Supplichevoli?

Sì, era quello che m’inquietava. La ragazza sembrava così bisognosa. Di che?

Ma non c’era più.

«Secondo te, cosa cercava di dirmi?» chiesi a Katy.

«Te l’ho detto, mamma, è un po’ fuori di testa. Lascia perdere.»

Ci provai.

Ma quella notte, sola sulla branda, il volto della ragazza continuò a tornarmi in mente.

Rividi i suoi occhi scuri e imploranti all’infinito.