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Quindici minuti dopo, una BMW cabrio nuova fiammante accostava al marciapiede. Rossa, con gli interni in pelle nera.
Moglie trofeo. Automobile trofeo. Repressi il forte impulso di alzare gli occhi al cielo.
Meno ambizioso è, in genere, il gusto di Pete nel vestire. Se, per il tribunale, il mio ex riesce a mettere insieme un completo e una cravatta, fuori dalle aule di giustizia, di solito, indossa polo e pantaloni di tela. «Fico ma comodo» è il suo principio ispiratore.
Perciò, quando mi lasciai cadere sul sedile del passeggero, accanto a lui, il sopracciglio mi salì di vari millimetri di fronte alla sua giaccia sportiva, alla camicia azzurra, al pantalone blu.
«Che eleganza!» Mocassini senza calze a parte.
«Devo cenare con una bella signora.»
La roteazione orbitale si mise in moto incontrollata.
«Bella macchina.» Tentando di sdrammatizzare.
«Un’occasione.»
«Mmm.»
«L’ho portata su ad Asheville, questo weekend. Fa le fusa come una gattina. Summer strillava a ogni tornante. E, un paio di volte, per poco non mi mettevo anch’io a gridare.»
Che bel coretto che mi sono persa!
«Da zero a cento in meno di quel che ci si mette a dire: “Da zero a cento”.»
Pete sapeva benissimo che i motori m’interessano assai poco. E io sapevo che si stava sforzando di evitare l’argomento delle nozze imminenti.
Mi aggrappai al bracciolo, mentre usciva sfrecciando dal parcheggio, girava a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra.
«Da zero a cento» declamai, sorridendo.
«E beccati l’impianto stereo!» Premette un tasto e Payphone dei Maroon 5 ci avvolse in una nube sonora che rese impossibile ogni ulteriore conversazione.
Subito dopo il campus della Queens University, Pete svoltò sul vialetto d’ingresso di Sharon Hall, percorse il tunnel di antiche magnolie, superò la dimora padronale dal colonnato bianco e frenò, sollevando ghiaia, nel posteggio tra la rimessa ristrutturata e il cosiddetto «Annesso». Girò la testa verso di me e fece su e giù con le sopracciglia.
«Okay.» Sganciai la cintura di sicurezza.
«Ti aspetto qui.»
«Ma devo farmi la doccia.»
«Non c’è fretta.»
Tesi il palmo.
Sfilò la chiave dal blocchetto d’avviamento, tolse una delle chiavi dal mazzo e me la porse.
«Grazie.» Azionai la maniglia.
«Tempe?»
«Sì?»
«Non lasciarla in casa, quando esci.»
Prima che fossi scesa, aveva già in mano il cellulare.
L’Annesso ha una stanza da letto e un bagno al piano di sopra; soggiorno, zona pranzo, cucina, studio/camera degli ospiti e un secondo bagno, di sotto. Giardinetto sul retro, striscia di verde sul davanti, rettangolo cementato su un lato. Per quanto ristretta, è una sistemazione che mi va a meraviglia.
Entrai in cucina e accesi la luce.
«Bird?»
Del gatto nemmeno l’ombra.
«Qui, piccolo.»
Nulla, a parte un lieve ticchettio, proveniente dal soggiorno.
Trovai Birdie sotto la credenza che ospita l’orologio di mia nonna. I gatti saranno anche privi, come dicono, della muscolatura facciale che determina l’espressione, ma il suo messaggio era fin troppo chiaro.
«Sei arrabbiato?»
Dopo una pausa a effetto, si alzò, stiracchiandosi, poi zampettò verso di me, freddo, ma disposto ad ascoltare una spiegazione. E a farsi offrire la cena.
Mi chinai a grattargli un orecchio peloso.
«Scusa, ma il menù di stasera è quello che è.»
In cucina, presi due uova dal frigo, ci mischiai insieme il contenuto di una scatola di sardine e scaldai il tutto. Quando il mix si rapprese, glielo versai nella ciotola, con l’aiuto di un cucchiaio.
Una cosa bisogna riconoscergliela: Bird non serba rancore. Mi diede l’assoluzione e tuffò il muso nella pappa.
Poiché passo le giornate a stretto contatto con decomposizione e rifiuti a rischio biologico, padroneggio discretamente la nobile arte della ripulita veloce e ho in bagno un assortimento di saponi, gel e oli per il corpo da fare invidia a una Spa. Quella sera ne agguantai uno a caso e uscii dalla doccia in cinque minuti, profumata di pompelmo.
Birdie entrò mentre meditavo sull’abbigliamento adatto per consegnare i documenti del divorzio a un ex marito. Incrociai il suo sguardo.
«Al diavolo.»
Presi un paio di jeans e una T-shirt nera, completando il tutto con gli orecchini verdi di conchiglie e una giacca nera in cotone.
«Che ne dici?»
Inclinò il muso da un lato, ma non espresse giudizi.
Scesi in fretta nello studio, il gatto alle calcagna. Mentre recuperavo le carte, lui descrisse un otto intorno alle mie caviglie.
Lanciai un’occhiata all’orologio. Pete aspettava ormai da venti minuti buoni.
Bird inarcò la schiena e rizzò la coda. Gli feci un grattino dietro l’orecchio e lo accarezzai più volte per tutta la lunghezza del dorso.
Quando richiusi la portiera della BMW, Pete era ancora al telefono.
«Non inalare mentre spruzzi» stava dicendo. Pausa. «Okay, ma devo proprio andare, ora.» Pausa più breve. «Sì, ti richiamo quando sono per strada. Ti amo anch’io.» Sottovoce.
«Scusa. Birdie…»
«Nessun problema. Va bene la Ale House?»
«Sicuro.» Mica tanto. Megaschermo tivù, clienti che tifavano, imprecavano, dettavano strategie di gioco, livello d’inquinamento acustico sopra gli ottantacinque decibel. «Summer ha qualche problema alle vie respiratorie?»
Pete mi rivolse uno sguardo ebete.
«Deve fare le inalazioni?»
«Oh, no.» Scosse il capo. «Sta dipingendo bottiglie con la vernice anticata in spray. Da usare come centrotavola o che so io. Dovrebbe sembrare una cosa artistica.»
Preparativi del matrimonio. No, grazie.
Una breve, sincopata esplosione di Bob Marley e arrivammo alla Carolina Ale House, trionfo di schermi al pian terreno di un grattacielo tutto vetro e acciaio, nel cuore della città. Pete riuscì ad accaparrarsi un tavolo lontano dal bar. Non tranquillo, ma fuori dalla zona in cui era impossibile parlarsi.
Una cameriera lo accolse, esponendo più denti di una sega circolare, degnando me di un’occhiata da un millisecondo e mormorando che il suo nome era April.
«Una Fat Tire, giusto?» April accecò il mio ex con un altro flash di denti abbaglianti.
Lui le fece il gesto della pistola. «Ottima memoria.»
Io chiesi una Perrier con lime.
Pete scelse le costine di maiale, io optai per la bistecca ai ferri.
Fatte le ordinazioni, tirai fuori i documenti dalla borsa e glieli misi davanti. Lui vi posò lo sguardo, ma non li prese.
Un vuoto si dilatò da un capo all’altro del tavolo, una bolla di silenzio nel chiasso che lo circondava. Pochi fogli. Poche parole per liquidare un amore che aveva generato speranze, sogni e una bellissima figlia. Un amore distrutto da un tradimento.
Avrebbe dovuto esserci una cerimonia. Uno «smatrimonio»? Un rito di annullamento? Qualcosa di più della semplice Sentenza definitiva. Almeno un font più carino per la trascrizione.
«Scusa se ci ho messo tanto.» Rompendo il silenzio imbarazzato. «Non ci sono scuse, avrei dovuto…»
«Non è un problema, Fiorellino. Li farò depositare prima di mezzogiorno.»
«Non chiamarmi così.» Automatismi duri a morire.
«Okay…» Vecchio sorriso alla Pete. «Pasticcino.»
S’infilò le carte nella tasca della giacca, poi mi diede un buffetto sulla mano.
Il tocco. La sua pelle sulla mia. Così familiare.
Annaspai in cerca di un territorio neutro di conversazione.
«La tua causa per danno tanatologico? Come procede, avvocato?»
«Non lo saprò finché non faranno deporre il mio perito, domattina.»
Gli raccontai del processo cui ero sfuggita in mattinata. Lui mi raccontò di un dente che gli faceva male.
Grazie a Dio, April arrivò con i drink. Pete trangugiò la sua birra, io sorseggiai la mia Perrier.
«E tu?» Dopo un’altra pausa imbarazzata. «Come va con Monsieur Sbirro?»
Monsieur Sbirro, nomignolo che il mio ex aveva affibbiato ad Andrew Ryan, lieutenant-détective, Section des crimes contre la personne, Sûreté du Québec. Mio referente quando lavoro per il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal. E mio amante on e off. Al momento, off. Per sempre, forse.
«Sta bene.»
«Bon.» Detto da lui suonava come l’inglese bone, osso.
«Evita il francese, Pete.»
E anche di chiedermi di Ryan o finirò per esprimere ad alta voce le mie ansie per la sua freddezza degli ultimi tempi. Per la sua distanza.
Se davvero la mia storia con Ryan era un capitolo chiuso, la rottura non sarebbe stata una catastrofe come quella con Pete. Niente amarezza, niente angoscia, nessuna figlia sbigottita cui dare spiegazioni. Niente trasloco, divisione della proprietà, coda all’anagrafe per cambiare indirizzo. Solo un abisso di tristezza.
Non sopportavo di parlarne. Di pensarci.
«Sono piena di lavoro, qui» dissi.
«Qualcosa d’interessante?»
«Quattro cani mummificati dal Perú.»
Pete inarcò un sopracciglio, perplesso.
Gli raccontai degli involti confiscati all’aeroporto di Charlotte.
Arrivarono le ordinazioni e, per un minuto buono, ci dedicammo a sale, pepe, burro, panna acida e ketchup. April chiese se desideravo altro ghiaccio.
E i miei pensieri corsero subito alla ragazza nella cella frigorifera.
«Abbiamo anche una quindicenne» dissi a Pete. «Investita ieri notte vicino a Old Pineville Road.»
«I genitori saranno distrutti dal dolore.»
«Non sappiamo chi sia.»
«Gesù. Il caso è di Larabee?»
Annuii. «Qualche pista d’indagine c’è. Se solo Slidell muovesse quel grosso culo. Nella sua mente…»
«… Che è piuttosto limitata.»
Sorrisi. «Nella sua mente limitata, la ragazza era un’immigrata clandestina dedita alla prostituzione.»
«Sulla base di quali prove?»
«Borsetta rosa, buchi nel braccio e dentatura guasta.»
«Tutto qui?»
«Capelli decolorati, carnagione scura e un biglietto scritto in spagnolo nella borsa.»
«Skinny pensa che venga dall’altra parte del confine.»
Confermai con un cenno.
Pete rise tra sé, scuotendo il capo. Aveva conosciuto Slidell e sapeva quanto potesse essere ostinato.
Il chiasso del locale cessò di colpo, poi un gemito collettivo riempì la sala: un qualche evento sportivo non stava andando secondo gli auspici per la squadra di casa.
Quando il mio ex marito mise giù le posate e si pulì la bocca, le sue costine erano spolpate e accatastate nel piatto.
«Posso parlarti di una brutta faccenda?»
«Certo.»
«Ho un amico, Hunter Gross. Non credo che tu lo conosca. Suo nipote, John, è sottotenente dei Marines.»
«Semper fidelis.» Rapido saluto militare.
Pete era stato nel corpo e teneva ancora la bandiera dei Marines su un piccolo piedestallo nel suo ufficio. Ogni anno, il 10 novembre, festeggiava il suo compleanno con i vecchi amici del corso ufficiali.
«Fino a qualche mese fa, John era al comando di un plotone in Afghanistan. Se ho capito bene, lui e i suoi uomini avevano ricevuto ordine di perlustrare un villaggio.» S’interruppe, con una strana espressione in volto. «Non conosco i particolari, ma il ragazzo è stato accusato di avere ucciso dei civili disarmati.»
«Gesù.»
«Hunter dice che non è colpevole. Ci mette la mano sul fuoco.»
«Lo zio. Il tuo amico.»
«Sì.»
«Tu che idea ti sei fatto?»
Scrollò le spalle. «Non so cosa pensare. Hunter insiste che il ragazzo è un buon marine, che voleva far carriera nel corpo, ma io non lo conosco.»
«Dov’è ora?»
«A congelarsi le chiappe a Camp Lejeune, in attesa che si concluda l’inchiesta.»
«Sollevato dal servizio?»
Annuì.
«Brutta storia.» Che altro si poteva commentare?
«Già. Un inferno per la famiglia.»
Assassino spietato? Ufficiale incapace? Buon soldato che aveva preso la decisione sbagliata nell’impeto del momento? Situazione difficile da valutare.
Proprio nei luoghi in cui si trovava mia figlia.
Pete appallottolò il tovagliolo di carta e lo gettò nel piatto. Mi guardò. Mi lesse nella mente.
«Stai pensando a Katy, vero?»
Non risposi.
«Lei non è un ufficiale. Non guida plotoni da nessuna parte» disse Pete.
«È nell’artiglieria» precisai io.
«Lontano dalla prima linea.»
«A lanciare razzi contro gente che ci odia.»
«Non tutti, in Afghanistan, odiano gli americani.»
«Lo so, ma la vita è così… imprevedibile, laggiù. Potrebbe restare uccisa mentre va a fare colazione.»
«Anch’io.»
«Lo sai cosa voglio dire.»
«Sa badare a se stessa.»
Lo disse con tanta convinzione che fui tentata di credergli. E tuttavia… Le immagini si formarono spontaneamente nella mia testa: Katy a terra accanto a uno Humvee in fiamme; su una strada nel deserto; in un sacco per cadaveri.
Come la ragazza nella cella frigorifera.
Anche lei, forse, aveva una madre, che, in quel momento, si stava chiedendo dove fosse, perché non chiamasse. Qualcuno si assicurava che la sua bambina stesse bene?
Mandai giù l’ultimo sorso di Perrier, ormai per lo più ridotta a ghiaccio sciolto.
«La mia auto…»
«Andiamo!»
Pete mimò il gesto dello scrivere; April e la sua dentatura riapparvero con il conto.
Seguì il solito braccio di ferro. Lui ebbe la meglio, pagò in contanti e lasciò una mancia in grado di finanziare una campagna presidenziale.
Cinque minuti di Rihanna ed eccoci nel parcheggio del tribunale. Scesi e girai intorno alla BMW. Pete abbassò il vetro.
«Quindi, da domani siamo ufficialmente liberi.» Cristo, l’avevo detto veramente?
«Sissignora.» Scarso quanto me.
Ci scambiammo un goffo abbraccio attraverso il finestrino. Leggermente più lungo del necessario?
«Vi auguro ogni bene. A te e a Summer.»
«Grazie. Ci sentiamo, okay?»
«Certo.»
«Vuoi che aspetti finché non sei seduta al volante?»
«Sono una bimba grande, ormai.»
«Ma piuttosto imbranata con le chiavi.»
Pescai di tasca quelle di riserva che avevo preso dalla scrivania e a lui resi il doppione di casa.
Un attimo dopo se n’era andato.
La mia borsa era ancora sul sedile della Mazda. Insieme alle odiate scarpe.
Sotto di me, veicoli in transito producevano sibili sommessi sulla 4a Strada. In lontananza un ubriaco farfugliava Lucy in the sky.
Lasciai cadere le chiavi di riserva nella borsa e recuperai il cellulare.
Slidell rispose dopo due squilli.
«Ehi, doc.» Sentivo la radiocronaca di una partita di baseball in sottofondo.
«Come va il caso del pirata della strada?»
«Domani…»
«Hai setacciato il quartiere? Ci sono dei negozi su Old Pineville Road.»
«Come dicevo…»
«Le carrozzerie?»
«Ci sto lavorando.»
«Calzature e abbigliamento?»
«Ci sto lavorando.»
«Ambulatori dentistici?»
Nessuna risposta.
«Sei passato alla Saint Vincent de Paul?»
«Lo farò.»
«Quando?» Il suo atteggiamento supponente cominciava a darmi sui nervi.
«Senti, non abbiamo niente. E non troveremo niente. Se era clandestina, nessuno uscirà allo scoperto per lei. Se batteva il marciapiede, idem.»
In cuor mio sospettavo che il detective avesse ragione, eppure…
«Perché non mettete la sua foto sul giornale?»
«Hai sentito quel che ho appena detto?»
«Male non fa, giusto?»
«Neanche buttare cacche di capra in mare.» Sospiro profondo. «Non ti sto liquidando, doc, ma qualche ora fa è stata segnalata la scomparsa di una tizia, che tra le altre cose è in rapporti di amicizia con il sindaco: madre single, due figli, lavoro fisso in una farmacia. Sparita. Il capo ha detto che non ho più una vita, finché la signora non riappare.»
Linea morta. Aveva messo giù.
Rimasi lì, irritata, ma decisa a non abbattermi. Se a volte era lento a uscire dai box, Slidell, di solito, recuperava in pista. A meno che non fosse sotto stress. Ed ecco il caso di persona scomparsa con precedenza assoluta che gli pioveva in testa.
Mi tornò in mente la ragazza dal fermacapelli rosa.
E Katy, l’ultima volta che l’avevo vista, a Fort Hood, il giorno del diploma al corso di addestramento. Invece di un fermacapelli, portava una divisa da corvée, scarponi e un basco nero; il suo corpo era duro come la roccia, i lunghi capelli biondi raccolti sulla nuca.
Per tutta la cerimonia avevo ricacciato indietro lacrime d’orgoglio e di paura.
La stessa paura che avvertivo in quel momento, sola nel parcheggio.
E se Katy fosse sparita, senza che nessuno si disturbasse a cercarla? Ad appurare se era viva o morta?
Il cervello umano è una stazione di smistamento che opera a due livelli.
Mentre la mia mano girava la chiave nel blocchetto d’avviamento, i miei centri superiori inviavano immagini di una strada solitaria a due corsie.
Anziché far rotta su Myers Park, per tornare a casa, presi per il centro, verso la I-77.
Imboccai lo svincolo in direzione sud.
Destinazione Woodlawn.