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Il mattino dopo tirai tardi, più di quanto mi fosse capitato dal mio ritorno dall’Afghanistan. Il che non mi impediva di essere un fascio di nervi.

Presi caffè e cereali con l’uvetta, quindi sciacquai la scodella e la tazza, sentendomi come una con la pelle della taglia sbagliata. Il fallimento del blitz al Passion Fruit, la preoccupazione per le altre ragazze, che rischiavano di andare incontro alla stessa sorte di Candy, la frustrazione perché, di fatto, non conoscevo ancora la vera identità della giovane, il timore delle ire di Slidell, non ancora del tutto manifestate, il senso di colpa per la morte di Rosalie D’Ostillo.

E anche per avere scansato l’analisi del cranio ripescato dal WC.

Senza contare l’apprensione dovuta al fatto che un folle mi aveva lasciato una lingua mozzata sullo zerbino di casa.

La caviglia andava meglio. Decisi che era ora di metterla alla prova.

Chiamai il centralino dell’MCME e dissi alla signora Flowers che sarei arrivata in ufficio di lì a poco, dopo una corsetta. Mi chiese se intendessi fare il Booty Loop e io, sorpresa che conoscesse l’esistenza del percorso, risposi di sì anche se, in realtà, non avevo ancora deciso quale strada fare.

Infilai le Nike e la mia solita tenuta da jogging: leggings e una T-shirt extra large. Era un mattino freddo, ma soleggiato. In omaggio alla signora Flowers, partii in direzione del Booty Loop, una pista di otto chilometri che gira intorno al campus della Queens University. Il nomignolo si ispira ai fondoschiena di runner e cicliste che ne arricchiscono il panorama.

Non correvo da settimane e il primo chilometro e mezzo fu una faticaccia, ma la caviglia reggeva.

Al secondo, l’acido lattico mi bruciava i muscoli delle gambe, ma tenni duro, decisa a finire il circuito.

Sudata e ansante, arrivai alla Torre dell’orologio. Ero piegata in due con il fiatone, quando a un tratto mi sentii chiamare.

Raddrizzando la schiena, vidi un uomo che si alzava da una panchina e veniva verso di me. Era alto e magro e portava un berretto dei North Carolina Tar Heels, un paio di jeans, una giacca nera di nylon. In mano aveva un sacchetto di plastica.

Checcavolo…?

«Ho chiamato il suo ufficio. La donna al telefono mi ha detto che avrei potuto trovarla qui: mi è stata molto utile con le sue indicazioni.» Scott Blanton sorrise, scoprendo gli incisivi sovrapposti. «Spero non sia il momento sbagliato.»

Sbagliato? Ero fradicia, esausta e, soprattutto, spiazzata. L’ultima volta, l’avevo visto a Bagram. Perché ora me lo ritrovavo sulla pista da jogging a Charlotte?

Tese la mano libera.

Io sollevai la mia e mi scusai con un sorriso. «Sono sudata.»

Mi fece la radiografia con uno sguardo. «In forma, però.»

«Grazie.» Improvvisamente conscia dei leggings ultra-aderenti.

«Come va la caviglia?»

«Del tutto guarita.»

«Dopo l’esumazione, sono stato malissimo. Mi hanno tenuto in quarantena per due settimane, prima di rispedirmi a casa.»

Ricordai una delle nostre conversazioni in mensa: Blanton era di Gastonia.

«Sono certa che la sua famiglia è contenta di riaverla qui.» Scarsa come risposta, ma non avevo idea di cosa volesse da me quel tizio.

«E io scommetto che il suo gatto è stato felice di rivedere lei.»

Il commento mi sorprese, poi ricordai che, sempre in mensa, avevamo parlato anche di Birdie.

«Sì.» Mi scostai i capelli sudati dalla fronte.

Blanton infilò la mano nel sacchetto e ne trasse una scatola di cartone. Piatta e rettangolare.

Come quella in cui mi era stata consegnata la lingua della D’Ostillo.

Avvertendo un leggero senso di apprensione, mi guardai intorno. Studenti attraversavano il campus alle nostre spalle; auto percorrevano la Radcliff: non un flusso continuo, ma sufficiente a non farmi sentire isolata.

«Per lei, dottoressa.» Mi porse la scatola. «Per essere stata così in gamba.»

«Ho fatto solo il mio lavoro.»

«Allora lo consideri un ringraziamento per avere sopportato il mio pessimo carattere.»

Presi la scatola e sollevai il coperchio. Dentro c’era una pashmina simile a quelle che Katy e io avevamo ammirato al bazar di Bagram.

Era venuto fino a Charlotte e si era dato la pena di rintracciarmi solo per consegnarmi una sciarpa da due dollari?

«L’espressione sulla sua faccia sta dicendo: “stalker”. Oppure non le piace il colore.»

«No, no, è bellissima, ma… inaspettata.»

«Visto che sono in zona, ho pensato che gradisse un ricordo.»

Gastonia era almeno a quaranta minuti. Contando i semafori.

«Senta, non ero al mio meglio, laggiù. Ero teso. Gli insetti… La Welsted che mi faceva diventare matto…» Sorriso sornione. «Perdonato?»

«Perdonato.»

Ora che avevo smesso di correre, sentivo l’aria fredda sulla pelle e sugli abiti sudati. Rabbrividii, ma Blanton non parve accorgersene.

«Ciò che abbiamo fatto è stato importante, qualunque sia l’esito finale. Quella di Sheyn Bagh era una brutta situazione, senza vincitori né vinti. Abbiamo aiutato il corso della giustizia.»

«Ha parlato con il sottotenente Gross?»

«No, ma ho sentito dire che scalpita per tornare in prima linea.» Mi guardava come se tentasse di perforarmi il cervello. «Allora. Come va il lavoro? Indaffarata come lo era laggiù?»

«Mmm.»

«Cattivi che fanno cose cattive alla gente… ad altri cattivi, si vorrebbe sperare, ma non è sempre così, vero?»

Si sporse in avanti con fare cospiratorio. Odorava di caffè e dopobarba Old Spice.

«Noi l’abbiamo sotto gli occhi, eh? Il male. Un giorno dopo l’altro. Dopo un po’ ti fotte il cervello. Perché accadono cose brutte alle brave persone? A gente come John Gross?»

Non mi sembrava un esempio calzante, ma tenni la bocca chiusa.

«Non so lei, ma io ho cominciato a credere che in questo mondo esista il male vero, tangibile. E non puoi prevedere quando, un bel mattino, te lo ritroverai sulla porta di casa.»

Sorrise come disapprovando se stesso.

«Ma mi guardi! Sto qui a filosofeggiare e lei ha freddo.»

Sollevò la pashmina dalla scatola che tenevo in mano, l’aprì e me l’avvolse intorno alle spalle. Mentre mi chinavo in avanti, notai un tatuaggio sulla parte inferiore del collo, forse un simbolo cinese.

Ero la sola persona rimasta sul pianeta senza inchiostro addosso?

«Abbia cura di sé, dottoressa Brennan.»

Prima che facessi in tempo a rispondere, girò sui tacchi e si avviò lungo il marciapiede. Lo guardai allontanarsi, finché non scomparve dietro l’angolo di Selwyn Avenue.

E avvertii un senso di sollievo.

Gesù, perché quel tipo mi metteva tanto a disagio?

D’improvviso, la mia caviglia non stava più così bene.

Arrivai a casa con una marcia leggera. Doccia, pranzo e mi diressi all’MCME.

Alle quattro e mezza avevo ormai finito con il cranio. La parte più sgradevole era stata grattare via i residui di escrementi, quella più semplice, escludere che la faccenda puzzasse. In senso figurato.

Il cranio era appartenuto a un giovane adulto, assai probabilmente di origine indiana. Suture e dentatura confermavano l’età, bozze sovraorbitarie sporgenti, cresta nucale evidente e processi mastoidei massicci, il sesso.

Le piccole viti collocate per tenere chiusa la mandibola dimostravano, invece, come l’articolo provenisse da un’azienda di forniture biologiche. L’esportazione di ossa umane autentiche era cessata ormai da decenni, ma, nel periodo in cui si era svolta legalmente, la maggior parte degli scheletri proveniva dall’India. Ciò, insieme alla struttura facciale, suggeriva un’ascendenza asiatica meridionale.

Scrissi un rapporto, dichiarando quanto sopra. Sarebbe toccato a Larabee e, se interpellata, alla polizia di Charlotte-Mecklenburg, capire come il cranio fosse finito in una latrina.

Motivata dalle mie performance esemplari degli ultimi giorni (bagaglio disfatto, jogging, expertise ultimato), mi fermai a fare scorta di provviste per la dispensa. Chi dice che rimando le cose?

Era quasi il tramonto, quando arrivai all’Annesso. Birdie sfrecciò dall’armadio a muro nel corridoio e venne a strusciarsi tra le mie gambe.

Lo presi in braccio, grattandolo sotto il mento. Mentre riponevo gli acquisti, mostrò vivo interesse per le operazioni e lo lasciai giocare con uno dei sacchetti.

Ero di sopra a riporre carta igienica e sapone nell’armadietto del bagno, quando ricordai l’allarme e scesi di corsa a inserirlo. Arrivando, avevo visto un’auto della polizia percorrere il vialetto. La sorveglianza di Slidell. Ancora.

Anche se non mi sarei mai sognata di ammetterlo, ero felice di avere gli agenti là fuori, almeno periodicamente. L’uccisione della D’Ostillo mi aveva turbata parecchio. Per non parlare della sua lingua in scatola, consegnata a domicilio.

Anche l’apparizione inaspettata di Blanton mi inquietava. Perché non spedirmi la sciarpa? E perché comprarla, poi? Davvero un tipo strano.

Come si era espresso? Ritrovarsi, un bel mattino, il male sulla porta di casa? Che fosse una velata minaccia?

Suonò il telefono.

«Gesù, doc. È un’ora che ti chiamo.»

«Che c’è, detective?»

«Ho portato dentro la Tarzec per interrogarla. Non mi aspettavo di ottenere granché, e così è stato: zero totale. Ho dovuto rilasciarla.»

«E le dichiarazioni dei redditi? La documentazione relativa ai dipendenti? Il mutuo o l’affitto dell’esercizio?»

«Ci sto lavorando, ma ho preso contatti con quel tizio dell’ICE.»

«Luther Dew.»

«Sì. Che gran cazzone.»

«Forse se gli dicessi quel che ci aveva raccontato la D’Ostillo…»

«Ho fatto anche di più. Sono passato a lasciargli qualche foto.»

«Del corpo di Rosalie?»

«Credevo che avrebbe tirato su il pranzo, invece… In ogni caso, ora ha capito il concetto: probabilmente, c’è sotto ben più di quattro cani morti. E ha condiviso con me qualche informazione.»

Aspettai.

«Rockett si reca spesso nello Stato della stella solitaria, il Texas.»

«Dew come lo ha saputo?»

«Quelli dell’ICE stanno indagando a tappeto. Tabulati telefonici, rendiconti delle carte di credito… solite cose.»

«Rockett guida?»

«A volte, ma senti questa: altre volte ci va in aereo. Sola andata.»

«Dove?»

«A Houston. O Phoenix, poi prosegue fino a El Paso.»

«Dove alloggia?»

«Questo non è chiaro.»

«Passa mai il confine con il Messico?»

«Alla polizia doganale risultano suoi voli in Guatemala, Ecuador e Perú. Potrebbero essere legittimi spostamenti d’affari, sostiene Dew. Acquisto merci. Non risulta che sia passato dal Texas al Messico in auto.»

Stavo per chiedere di più, ma mi prevenne.

«E neppure dall’Arizona, dal Nuovo Messico o dalla California.»

«Quelle visite corrispondono a vendite qui?»

«È questo il punto: no. L’ICE ha confrontato le date con le fatture.»

«Forse i giri in macchina servono a preparare spedizioni del tutto legali, ma i voli di sola andata no.»

Non avevo bisogno di specificare oltre il mio pensiero. Tutti siamo perfettamente consapevoli della porosità del confine meridionale degli Stati Uniti. Più di tremila chilometri, in gran parte non sorvegliati. Sappiamo dei lavoratori clandestini che attraversano il deserto o cercano di passare a nuoto il Rio Grande; abbiamo sentito dei «coyote», che chiedono soldi per far entrare manodopera non autorizzata nel Paese, a volte abbandonando quella gente alla morte per evitare un arresto.

«Dubito che sia così semplice» commentò il detective. «Non dimenticare che Rockett si è fatto beccare al Charlotte-Douglas, importando illegalmente roba per via aerea.»

«Con l’oggettistica è più facile: la imballi e la spedisci. Le persone sono tutt’altro problema. Devono mangiare, bere, respirare.»

Ci pensammo su per qualche istante.

«Quindi, come funzionerebbe? In un modo o nell’altro, Rockett fa arrivare ragazze in Messico. Dall’America Latina, dall’Est Europa o sa il cavolo. Se non hanno un passaporto, gliene procura uno falso. O forse non si prende nemmeno il disturbo: con o senza documenti, le fa passare oltreconfine – a piedi o in camion – poi, in macchina, le porta a est.»

«Fila» osservai.

«Una cosa è certa: Rockett non se ne va in Texas ad assistere ai rodei.»

«Già.»

Di nuovo silenzio. In sottofondo, sentivo telefoni squillare. Supposi che Slidell chiamasse dalla sua scrivania alla centrale.

«Novità su Ray Majerick?» chiesi.

«Ancora alla macchia, ma lo prenderemo.»

«E Citizenjustice? Qualche traccia?»

«L’ho girato ai ragazzi della Sezione informatica, ma sono pieni di lavoro.»

Suonò il campanello. Le mie dita si serrarono sul ricevitore. Non aspettavo nessuno.

Suonò ancora.

E ancora.

«Che c’è?»

«Qualcuno alla porta» dissi a Slidell. «Mi hai piazzato una pattuglia fuori, giusto?»

«Fanno il giro ogni ora. Di più non potevo fare. Siamo a corto di personale.»

«Resti in linea?»

«Certo!»

Il campanello suonò di nuovo.

E di nuovo… troppo rapidamente.

Con il cordless ancora stretto in mano, salii di sopra e cercai di sbirciare dalla finestra che dava sull’ingresso di casa. La luce della veranda era spenta. Sotto la grondaia riuscii a distinguere la spalla e la gamba di un uomo, mocassini scalcagnati.

«Vuoi che mandi un’auto?» stava chiedendo Slidell.

Mi riaccostai il telefono all’orecchio.

«Aspetta.»

Corsi di sotto, arrivai in punta di piedi alla porta e avvicinai l’occhio allo spioncino.

«Oh mio Dio…»

«Doc? Tutto okay?»

Sconvolta, tolsi il chiavistello e aprii la porta.