25

 

Ventiquattro ore dopo, ci stavo ancora pensando.

A due ragazze, in effetti: Khandan a Bagram e Vittima-senza-nome a Charlotte.

La Welsted mi aveva organizzato i voli di ritorno e mi ero alzata insieme al sole per partire. Il viaggio di oltre undicimila chilometri, in grado di fiaccare la determinazione del viaggiatore più incallito, cominciò tristemente, per poi trasformarsi in un incubo.

Innanzitutto ci fu l’addio a Katy. Ci incontrammo sulla pista di decollo e ci abbracciammo. Era così forte.

«Starai bene?» chiese.

«Io sono quella che parte! Tu, piuttosto, promettimi che sarai prudente.»

«Tranquilla, mamma, baderò a me stessa.»

Quella placida sicurezza mi pervase di uno strano timore.

Ci abbracciammo ancora, poi mi avviai all’hangar.

Fu allora che cominciò il calvario. Il nostro C-130J aveva un rotore guasto. Vennero chiamati i meccanici e sappiamo tutti cosa significa.

Avendo già oltrepassato i controlli per la partenza, non potevo rientrare alla base. Trascorsi ore a sonnecchiare, guardare il football, bere caffè, andare in bagno, mangiare sandwich e muffin di plastica in compagnia di un centinaio di soldati, avieri e Marines sudaticci.

Alla fine c’imbarcammo e allacciammo le cinture. L’aereo si sollevò a fatica attraverso l’aria del deserto, squarciò le nuvole e prese quota. Mi appoggiai al gelido schienale vibrante, chiusi gli occhi.

Ed ecco le ragazze.

Khandan. Qualcosa in lei mi aveva affascinato. Katy diceva che era mentalmente disturbata, ma io ne dubitavo: l’intensità del suo sguardo non collimava con quella spiegazione.

Cosa aveva tentato di dirmi? Ero riuscita a cogliere soltanto una parola: Allah. Cercava aiuto? Un’elemosina? Una cliente? Una conversione? E perché incontrarla mi aveva turbato tanto?

Poi c’era la ragazza senza nome nella cella frigorifera dell’MCME. Silenzio radio di Larabee… Vicoli ciechi? Piste infruttuose? Slidell ci stava ancora provando? Dovevo rendere la mia testimonianza, tornare a casa e dedicarmi al caso. Lo avevo promesso a lei.

Quando atterrammo al Manas International, la testa mi pulsava, una lingua di fuoco mi percorreva la spina dorsale e la caviglia mi causava una sofferenza non indifferente. Questa volta trovai ad accogliermi un soldato con la faccia da lattante e baffetti che ricordavano la barba del granturco. La targhetta sull’uniforme da corvée diceva: ELKINS.

«Il sergente Mensforth era impegnato.» La voce del ragazzo era acuta e nasale. «L’aiuterò io con le pratiche di sicurezza.»

Lo seguii attraverso quel labirinto che era il centro di transito, zigzagando tra addetti statunitensi al servizio e guardie chirghise dai volti di pietra e dalle grosse armi.

Elkins indicò un mucchio di bagagli che pareva identico a quello in cui avevo rovistato all’andata.

Trovai i miei e li portai alla dogana, dove ogni singolo oggetto fu tolto e ispezionato, quasi che la mia fedina penale esibisse arresti per traffico di droga o di armi.

Procedemmo, quindi, al controllo passaporti. E mi rifiutarono l’autorizzazione a passare.

Non parlando chirghiso, mi fu impossibile comprendere quale fosse il problema. Nemmeno Elkins ci riuscì. Decidemmo di chiamare un interprete e ne seguirono infinite discussioni, nel corso delle quali un altoparlante annunciò il mio volo.

Alla fine, l’interprete ci comunicò che, all’arrivo, mi era stata rilasciata l’autorizzazione a un solo ingresso in Kirghizistan, mentre il transito in corso valeva come secondo ingresso.

Sessanta minuti e un fantastiliardo di telefonate dopo, la questione fu risolta. O fu pagata una mazzetta: non lo so. Mi fiondai al gate e m’imbarcai mentre si chiudevano le porte.

Cinque ore dopo il decollo, atterrai a Istanbul. Stavo controllando la posta elettronica nell’area ristoro della Turkish Airlines, quando una voce irritantemente calma e zuccherosa annunciò alcuni ritardi. Il mio volo era tra quelli. Poiché l’area ristoro era il posto più comodo in cui mettevo piede da una settimana, non mi strappai i capelli.

L’alba illuminava l’orizzonte, quando presi posto nel mio piccolo scomparto in business class. Mentre leggevo il menù, il capitano fece un annuncio attraverso l’altoparlante.

«Signore e signori, abbiamo una fastidiosa lucina che lampeggia, qui, sul quadro comandi. Probabilmente non è nulla, ma ci hanno consigliato di rimanere al gate.»

Le hostess cominciarono subito a distribuire alcolici. Per gli astemi non era previsto granché.

Quando, finalmente, decollammo era tardo pomeriggio. Una volta in quota, cenai, guardai un film, poi abbassai lo schienale e spensi la luce. Anche se con qualche interruzione, riuscii a dormire.

Pur sapendo che la differenza di fuso era di sette ore, giunta a Washington non avevo idea dell’orario esatto. Prelevai i bagagli, mi trascinai attraverso dogana e immigrazione, quindi al gate per la nuova partenza.

Quante probabilità c’erano? Il volo era in ritardo!

A volte non si può far altro che constatare la futilità di un’esistenza governata dal caso.

Mentre aspettavo, controllai i messaggi sul cellulare. Ruff Noonan aveva chiamato per avvertirmi che a Camp Lejeune sapevano del mio arrivo, ritardi compresi, e qualcuno sarebbe venuto a prendermi all’atterraggio a Jacksonville, North Carolina.

Larabee chiedeva di essere chiamato appena fossi arrivata a Charlotte.

Pete voleva che gli telefonassi al mio arrivo negli Stati Uniti.

Nulla da Ryan.

Mandai una e-mail a Katy per farle sapere che ero tornata sul suolo americano.

Era mezzanotte passata, quando toccai terra all’Albert J. Ellis Airport di Jacksonville. Un sergente in uniforme da corvée si avvicinò, mentre recuperavo i miei bagagli dal nastro trasportatore. Robusto, di mezza età, ma con l’aspetto di uno che può sollevare una Toyota.

«Sergente maggiore Earl Rigg, signora. Ho l’incarico di accompagnarla a Camp Lejeune.» Si issò in spalla la mia borsa da viaggio. «Mi segua.»

Ci dirigemmo a nord, sulla Route 258, le luci che sfavillavano sul parabrezza. Rigg non era un chiacchierone. O forse avvertiva la mia stanchezza e la rispettava.

Guardai fuori dal finestrino, quasi senza vedere il panorama che mi scorreva davanti agli occhi: un banco dei pegni la cui insegna diceva: COMPRIAMO UNIFORMI, una sequenza infinita di fastfood e Wilson Bay, le cui acque erano uno sconfinato specchio nero.

Dopo un po’, ci fermammo davanti a un imponente muro di mattoni a vista con la scritta: CAMP LEJEUNE, CENTRO CORPI DI SPEDIZIONE OPERATIVI.

Rigg parlò solo una volta oltrepassati i controlli di sicurezza.

«Sembra una cui farebbe bene una buona dormita.»

«È così evidente?» Sorrisi. Credo.

«Sì, signora.»

Mentre attraversavamo la base, aprii di uno spiraglio il finestrino e inspirai l’aria tiepida della notte. Il profumo dell’erba appena tagliata, dei pini, dei cedri, mi svelò quanto fossi felice di ritrovarmi nel North Carolina.

Il Lejeune Inn, concepito per fornire alloggio temporaneo, era un edificio di mattoni strettamente funzionale: stile parallelepipedo spoglio, per intenderci.

«Lei vada a registrarsi alla reception» disse Rigg. «Io le porterò i bagagli.»

Mi diedero una stanza al primo piano. Il sergente apparve, mentre aprivo la porta.

«Buona notte, signora.» Un breve cenno del capo e se ne andò.

Mi guardai intorno.

Cucinino, tavolo con due sedie, cassetti e ripiani incassati nel muro – uno con un televisore sopra – e due letti.

Su un comodino tra i letti, una sveglia digitale segnava le dodici e quarantasette. Nel silenzio, la sentivo ronzare leggermente.

Dopo una minima toilette, mi spogliai e mi raggomitolai sotto le coperte. Il sonno mi rapì appena posai la testa sul cuscino.

Mi svegliai al trillo di un telefono.

«Mmm.»

«Sergente Rigg, signora. Il maggiore Hawthorn vorrebbe vederla alle dieci e zero zero.»

Occhiata all’orologio. Le nove e ventiquattro.

«Sarò nella hall tra venti minuti.»

Doccia veloce, shampoo, denti. Un velo di fard, un atroce caffè istantaneo ed ero fuori dalla stanza. Rigg mi stava aspettando. Mi accolse con un cenno, poi subito si voltò, poco abituato, credo, a non fare il saluto.

La mattinata era calda, ma nuvolosa. Gli uccelli stavano di sentinella a decine sui fili dell’alta tensione e sui rami alti degli alberi.

Costeggiando la spiaggia, notai un’unità dei Marines impegnata in manovre nautiche: equipaggi di sei persone cavalcavano Zodiac tra i flutti e, sopra il rumore delle onde, giungeva la voce del sergente istruttore che abbaiava ordini.

L’ufficio legale e dell’avvocatura militare era situato al principio di Holcomb Boulevard. Rigg mi lasciò sulla porta.

«Chieda del maggiore Joe Hawthorn.»

La receptionist aveva lunghe gambe, pelle liscia e capelli ambrati raccolti. Il suo accento del Sud era più corposo del cheese grits di mia nonna.

«Temperance Brennan. Sono qui per parlare con Joe Hawthorn» annunciai.

«Sono desolata.» Come se si trattasse di un dolore personale. «Il maggiore Hawthorn è un filino in ritardo. Non le dispiacerebbe aspettare nel suo ufficio?»

Un filino?

«Nessun problema.»

«Mi segua, prego.»

Sorridente, si alzò, imboccando uno stretto corridoio sulla destra, i tacchi a spillo che picchiettavano sulle lucide piastrelle grigie. Varcammo una porta con una targhetta che enunciava nome e grado di Hawthorn.

«Posso portarle qualcosa? Caffè? Tè? Magari una bibita?»

«Caffè, grazie.»

L’ufficio mi accese nella mente un’immagine flash della signora Flowers. Il sottomano era perfettamente parallelo al bordo della scrivania, sul cui piano di lavoro era tutto disposto con estrema precisione: un blocco a fogli gialli, un tagliacarte, tre penne equidistanti tra loro, le punte allineate al millimetro.

Una fotografia incorniciata ritraeva un bel signore dai tratti anonimi con una graziosa moglie dai tratti ugualmente anonimi e due bambini ben vestiti e pettinati. Stavo immaginando i loro nomi, quando Miss Crostata di mele del Sud tornò, porgendomi un tovagliolino e un bicchiere di plastica di caffè fumante. Hawthorn arrivò proprio mentre lei se ne andava.

«Mi scusi per il ritardo.»

Il suo ufficio rispecchiava perfettamente l’aspetto dell’uomo. Le scarpe erano tirate a lucido, l’uniforme stirata di fresco e con la riga impeccabile, i baffi minuziosamente spuntati, la scriminatura tracciata con precisione laser.

Mi alzai e ci stringemmo la mano. Aveva il palmo asciutto, le unghie ben curate, le cuticole tagliate dalla manicure.

«Grazie per essere venuta. Sarà esausta, immagino.»

«Avrò tempo per recuperare.»

«Si accomodi, prego.» Accennando alla sedia da cui mi ero appena alzata.

Sedetti. Hawthorn andò alla poltroncina dietro la scrivania.

«Come saprà, l’udienza dell’articolo 32 riprende domani.» Hawthorn giunse i polpastrelli e vi appoggiò il mento. «Lo sa cos’è un articolo 32?»

«A grandi linee.»

«Dagli anni Cinquanta, la giustizia militare è amministrata in conformità al relativo codice, lo Uniform Code of Military Justice. Questo fornisce l’impianto giuridico che è fondamento sia del diritto penale sostanziale che della procedura penale per le forze armate degli Stati Uniti d’America.

«Molte delle norme sostanziali sono simili a quelle delle giurisdizioni statali e a quella federale. Le norme procedurali possono essere invece molto diverse.

«Secondo l’articolo 32 dell’UCMJ, nessuna accusa può essere deferita a una Corte Marziale generale per il processo, finché non sia stata svolta un’indagine imparziale sulla verità della questione, analogamente a quanto avviene con il Gran Giurì nel caso dei civili.»

Pete aveva sempre sostenuto che l’articolo 32 comportava, di fatto, diritti anche maggiori per l’accusato, in quanto permetteva a lui e ai suoi rappresentanti di essere presenti all’udienza, di controinterrogare i testimoni, di presentare delle prove: tutte cose non consentite di fronte al Gran Giurì.

Mi tornò in mente come rizzasse il pelo, sentendo la vecchia battuta di Groucho Marx secondo cui la giustizia militare sta alla giustizia, come la musica militare sta alla musica.

La voce di Hawthorn mi strappò dai miei pensieri.

«Il governo ha presentato tutte le sue prove. Io ho intenzione di chiamare un solo testimone: lei. Ho esaminato il suo rapporto e voglio semplicemente ripercorrerlo con lei, come farebbe un qualsiasi avvocato civile.»

Si appoggiò allo schienale.

«Vorrà sapere qualcosa del protagonista, suppongo.»

«Qualunque cosa lei ritenga pertinente, sì.»

«Il padre del sottotenente Gross era in aviazione, quindi il ragazzo è cresciuto come il tipico figlio di un militare, sballottato da una base all’altra. Aveva le forze armate nel sangue, per così dire.»

«A volte succede il contrario.»

«Sì, ma non nel caso di John. Finite le superiori – con i voti più alti del suo corso, devo aggiungere – andò dritto a un ufficio reclutamento dei Marines.»

«Non dell’aviazione?»

Hawthorn lasciò cadere i palmi sul sottomano. «Credo che volesse dimostrare qualcosa a suo padre.»

Non indagai sul significato dell’affermazione.

«Si arruolò con un contratto 18x, che offriva la possibilità di essere subito destinato a mansioni di combattimento. Dopo il training, si offrì volontario e fu assegnato all’operazione Tempesta nel deserto. A intermittenza, ha servito in Medio Oriente dal 1991 al 1994.»

«Un bel lasso di tempo.»

«Sì.» Il maggiore sembrò sul punto di commentare oltre, ma preferì astenersi. «Al termine dell’ultimo periodo, non si riarruolò. Aveva dimostrato ciò che voleva, sia a se stesso, sia al padre… E aveva altri progetti per la sua vita. Usando i buoni riservati ai militari per finanziarsi un’istruzione – e lavorando a tempo pieno nel frattempo – si iscrisse alla North Carolina State University. Dopo la laurea in scienze politiche, ha insegnato per anni in un liceo di Charlotte. O di Charleston, forse.»

«Ma, a un certo punto deve essersi riarruolato.»

«Nove novembre 2005. Questa data le dice niente, dottoressa Brennan?»

Scossi il capo.

«A John sì. Quel giorno, alcuni kamikaze si fecero saltare in tre alberghi americani di Amman, Giordania: il Radisson, il Grand Hyatt e un Days Inn. Il Radisson fu quello più colpito. Marito e moglie erano entrati nella sala da ballo, in cui si stava svolgendo un ricevimento di nozze con novecento invitati. Nell’esplosione perirono trentotto persone, compresi i padri dello sposo e della sposa.»

Ricordavo gli attentati. Sessanta morti in totale, centoventi feriti.

«Dopo episodi del genere, il numero delle persone che tornano ad arruolarsi tende a salire. Dopo l’11 settembre, le code agli uffici di reclutamento erano chilometriche.»

Suonò il telefono di Hawthorn. Il maggiore guardò il display, ma non rispose.

«John si sentì chiamato in causa personalmente. È una mia interpretazione: lui non ha mai usato queste precise parole. È ciò che ho dedotto dalle nostre numerose conversazioni.»

«Capisco.»

«Quel ragazzo aveva trascorso tre anni in Iraq, tentando di rendere il mondo più sicuro. Il massacro era la prova che il suo lavoro non era bastato.»

«Ma si trattava di un altro conflitto, di mandanti diversi!»

«Verissimo, ma per un soldato, spesso, è semplicemente il male, visto in senso generico. Saddam, Gheddafi, l’Ayatollah, i talebani… Un’unica, perniciosa entità con facce diverse: come un’idra, un serpente dalle molte teste.»

«E John la pensava così?»

«Dopo gli attentati, Gross cominciò a vedere il terrorismo come un fatto molto personale, una minaccia concreta. Agli Stati Uniti, al nostro stile di vita.»

«Lasciò il lavoro e si arruolò di nuovo.»

«Fece domanda al corso per ufficiali, ma, data la sua età, l’ammissione si rivelò inizialmente problematica.»

Feci un rapido calcolo. «All’epoca aveva già superato la trentina.»

«Come l’America delle aziende, quella delle forze armate preferisce che i suoi dirigenti comincino presto. Alla sua età, John avrebbe dovuto già essere a metà della carriera di ufficiale. Ciò nonostante, alla fine, fu ammesso.» Hawthorn raddrizzò il tagliacarte. «Anche il suo passato militare non gli ha facilitato le cose.»

«Il suo passato?»

«Il fatto che avesse già avuto esperienza della vita nell’esercito. È dura compiere il salto da soldato di truppa a ufficiale.»

«Lui, però, ci è riuscito.»

Il maggiore annuì. «Ha finito il corso per ufficiali tra i migliori del suo anno, ha scelto la specializzazione in fanteria ed è partito volontario per l’Afghanistan. Era al quarto turno laggiù, quando è avvenuto l’episodio di Sheyn Bagh.»

«Che cosa pensavano di lui i colleghi ufficiali?» Appoggiai il tovagliolino e il bicchiere vuoto sul bordo della scrivania.

«Onesto, lavoratore, nervi saldi nelle situazioni di emergenza. Uno l’ha definito un “fanatico figlio di puttana”, mi perdoni la scurrilità.»

«Insomma, uno con la passione per il suo lavoro» commentai.

Hawthorn fece un mezzo sorriso. «Qualcuno direbbe che un marine non è mai abbastanza appassionato.»

«E i suoi sottoposti?»

Gli occhi del maggiore si posarono fugacemente sul bicchiere e sul tovagliolino, che rovinavano la simmetrica armonia del suo tavolo. Senza nemmeno accorgersene, raddrizzò il sottomano già diritto.

«Le opinioni sono molteplici, ovviamente. Per lo più positive.»

«Non quella di Grant Eggers, però.»

«Il caporale Eggers è il testimone chiave dell’accusa.»

Tutto chiaro.

«Il sottotenente Gross come sta vivendo tutta questa faccenda?»

«John ama il suo Paese e ama il corpo dei Marines, ma si sente tradito. Detesta il fatto di ritrovarsi bloccato qui a Jacksonville. Preferirebbe ritornare in Afghanistan. È sicuro che sarà scagionato. Come lo sono io.»

Sorrise e puntò il dito verso i miei fastidiosi rifiuti. «Posso?»

«Certo, grazie.»

Buttò bicchiere e tovagliolino da qualche parte sotto la scrivania.

«Allora» proseguì, raddrizzando la schiena. «Entriamo nel dettaglio della sua testimonianza.»

Durante l’ora successiva rivedemmo i punti fondamentali. Hawthorn ascoltò, pose qualche domanda, prese qualche appunto. Quando ebbi finito, si alzò e mi ringraziò di nuovo.

«Se avrà bisogno di ulteriori chiarimenti, mi troverà qui al Lejeune Inn» lo informai, sperando ardentemente che non mi chiamasse.

Fuori, trovai Rigg ad aspettarmi con il suo furgone.

Mentre attraversavamo la base, ripensai ai commenti del maggiore.

«Appassionato» aveva detto.

Quanto?, mi domandai.

Rigg mi lasciò sotto il portico, mi annunciò che sarebbe venuto a prendermi alle otto e trenta, la mattina seguente. Salii in camera e chiamai Ryan. Segreteria. Benché non avesse risposto ad alcuno dei miei messaggi precedenti, ne lasciai un altro.

Frustrata – e affamata – arrivai a piedi a uno Wendy e mi feci un doppio cheeseburger con patatine. Dio, era bello essere a casa.

Al ritorno nella stanza, l’orologio ronzante segnava l’una e un quarto. Già pentita dell’etto di grasso che avevo ingurgitato, mi sdraiai. Fuori, gli uccelli di sentinella cantavano a squarciagola.

Chiusi gli occhi.

Di nuovo, fui svegliata da un telefono. Nella stanza era calato il buio.

«Pronto?»

Silenzio.

«Pronto?»

Ma era un silenzio che suonava artificiale, come se qualcuno stesse ascoltando. O premendo la mano sul ricevitore.

Clic.

Prego, risparmiati le scuse, stronzo.

Arrivai al distributore in fondo al corridoio, comprai una Diet Coke, tornai e accesi il laptop. Mentre importavo alcune immagini in PowerPoint, il pensiero mi tornava continuamente a Gross.

Le ossa dissepolte nel deserto afghano erano la chiave della sua salvezza?