L’uomo perfetto

Tre mesi prima…

Mio padre mi fissa da tre minuti con lo sguardo carico di una speranza snervante; riesco a malapena a sentire i miei pensieri. Sono seduta di fronte a lui, dall’altra parte della massiccia scrivania di legno, e sono nervosa. Più di quanto ricordi di essere mai stata. È tutta la settimana che mi preparo per quest’incontro, da quando mi ha dato il permesso di sottoporgli la mia proposta per il lancio anticipato della nostra nuova linea di abiti da uomo firmati. Ma una cosa è provare il discorso allo specchio, un’altra è trovarsi addosso gli occhi di Harold Banks. Non è semplice compiacere mio padre – anzi, è impossibile – e il suo ufficio mi mette sempre in soggezione. Mi ricorda un dettaglio che fatico a scordare: non sono quello che avrebbe voluto.

Il suo studio è una mostra di oggetti rari. Intorno a me ci sono manufatti precolombiani, vecchi arazzi, stampe incorniciate. Mio padre colleziona di tutto, ma solo il meglio di tutto, fatta eccezione per una cosa, quella che più avrebbe desiderato. I figli maschi. Al primo tentativo i miei genitori hanno avuto me. E prima che potessero riprovarci mia madre l’ha lasciato. Gli sono rimasta solo io.

Ho venticinque anni, i capelli scuri e gli occhi verdi; sono magra, grazie alle sane abitudini alimentari e agli allenamenti; sono una persona educata, per merito delle buone maniere che mi hanno insegnato le tate. Una brava ragazza non si mette mai nei guai. Sono la figlia perfetta secondo qualsiasi standard. Ma pur sempre una femmina – che sta facendo del proprio meglio per crescere in un’impresa i cui prodotti sono dedicati soprattutto agli uomini.

Aspettavo da tempo l’opportunità di dimostrare a mio padre che posso rivelarmi una risorsa per l’azienda – la nostra azienda.

Ma un uomo come mio padre non si fida delle chiacchiere. Si aspetta dei risultati e in fretta.

Per questo sono nervosa. Non voglio fare promesse che non posso mantenere. E questa nuova linea è stata un grosso investimento per noi. Avrebbe preferito che di questo lancio si occupasse qualcuno con più esperienza, e ne sono consapevole.

Io, però, ho altri piani e altre speranze.

«Hai avviato quell’associazione non profit per aiutare i bambini malati in Uganda?», domanda lui. Sembra non aver mai capito del tutto perché desideri lavorare nel suo campo invece di occuparmi di “cose da donne”.

«E cos’è successo all’idea di arredare la nuova casa? Non hai niente da comprare?».

Fingo che le sue parole non mi tocchino.

«Ho avviato l’associazione non profit l’anno scorso e va a gonfie vele. Il mio appartamento è perfetto, non c’è bisogno di aggiungere altro». Faccio una pausa. Esito, poi proseguo. «Posso lavorare nell’azienda, papà. Solo perché per il momento è guidata da un gruppo di uomini vecchio stampo, non significa che non possa farlo anche io. La mia laurea a Stanford vale quanto la loro. E poi credo che nessun uomo sappia meglio di una donna come dovrebbe essere il ragazzo perfetto».

Aggrotta la fronte, un altro silenzio imbarazzante.

“Di’ di sì”, prego mentalmente.

«Non mi deluderai, vero, Elizabeth?», mi chiede.

Il cuore salta un battito, all’improvviso mi rendo conto che l’ho convinto!

Annuisco brevemente e mantengo la voce ferma e formale, col tono che utilizza di solito mio padre e che mi è stato insegnato di conseguenza. «Non ti deluderò, papà. So di averlo fatto in passato, ma ora sono più attenta…».

«Lo sei davvero? Quel coglione con cui uscivi non era proprio un bel tipo. Ricco, sì, ma per niente educato. Piantare in asso mia figlia nel giorno in cui avrebbe conosciuto il suo potenziale suocero…».

«È per questo che non ci vediamo più. Non mi accontenterò di niente che non sia il meglio, come mi hai sempre detto tu, papà».

Annuisce compiaciuto e si sistema la cravatta. Credo di aver ereditato da lui il mio disturbo ossessivo-compulsivo. Non c’è riunione in cui non si aggiusti svariate volte la cravatta. «Sei perfetta e ti meriti un uomo alla tua altezza», mi assicura.

Mio padre mi ha sempre detto che sono perfetta – e ogni parte di me, fino alle immacolate scarpe col tacco firmate che indosso, mostra quanto mi impegni a ricoprire il ruolo.

Al suo complimento sorrido, anche se mi piacerebbe che avesse parlato con un po’ più di calore e che la frase “Perfetta… per essere una figlia femmina” non mi risuonasse in testa.

Voglio che mio padre mi rivolga una di quelle rare occhiate cariche d’orgoglio. Voglio che dica: “Mia figlia è la migliore in qualsiasi cosa”. Voglio dargli un motivo per sorridere. So che sta cercando qualcuno che lo sostituisca quando deciderà di farsi da parte – e non voglio che assuma un CEO che non è cresciuto nella nostra azienda, come invece ho fatto io, qualcuno che non vive e respira la Banks Limited come faccio io tuttora. Sono una Banks e se c’è qualcuno che deve ereditare il patrimonio di mio padre, quella sono io.

«Se vuoi dimostrarmi di poter essere un CEO competente, sarà meglio che questo lancio sia il migliore mai fatto, Lizzy. Non accetterò un lavoro mediocre».

«Capito. Non ci sarà direttore migliore di me quando deciderai di andare in pensione, papà».

«Bene. Voglio darti l’opportunità di dimostrarmi che hai stoffa ma voglio anche essere schietto: se dovessi deludermi, inizierò a preparare LB per il ruolo». Mentre metabolizzo quest’ultima notizia spiacevole, lui unisce le mani come se avesse concluso il discorso. «Allora, chi è il volto della nuova linea di abiti?».

È il momento di agire. Mi allungo verso la mia valigetta e ne estraggo qualche raccoglitore. «Ho una lista di imprenditori scapoli, attraenti e di successo. Incarnano ciò che la nostra linea rappresenta: vitalità, virilità, forza, denaro, classe».

«Ferdinand Johnson. Mi piace», esclama mentre osserva la prima foto, poi la volta per leggere i dettagli che ho aggiunto sul retro.

Un sorriso vittorioso compare sul mio viso, mentre l’orgoglio mi gonfia il petto. «Ho un appuntamento con lui alle quindici».

«Gregory Hutchinson. Potrebbe andare». Annuisce di nuovo in segno d’approvazione e io sono sempre più fiera di me.

«Lo incontro alle tredici e trenta».

Inarca un sopracciglio, palesemente colpito, ma non si profonde in complimenti. Non ho mai ricevuto coccole da mio padre. Mia madre ci ha lasciati quando avevo solo quattro anni e sono cresciuta in un mondo pieno di uomini. Ho fatto del mio meglio per farmi notare. Ho lottato per spuntarla con i migliori del campo.

«Non ti preoccupare, ho tutto sotto controllo», gli dico mentre guarda le altre foto senza commentare ulteriormente.

«Va bene. Ma ti avviso, Lizzy: anche se sei mia figlia, non avrai alcun trattamento di favore. Il lavoro è lavoro, come…».

«Come mi hai già detto, papà, lo so», mormoro, infilando ordinatamente gli scatti nel raccoglitore che ripongo poi nella valigetta.

Esco dalla stanza, i tacchi picchiettano sul pavimento mentre percorro il corridoio. Trasudo sicurezza da ogni centimetro del corpo quando supero le due segretarie di mio padre e rivolgo loro un sorriso grato. È stato difficile riuscire a parlare con lui e altrettanto complicato ottenere un appuntamento con questi otto milionari. Ma riuscirò a scegliere il migliore e lo convincerò a farmi da testimonial. A farci da testimonial. Questo lancio è il mio bambino. La mia missione è che i nostri abiti siano sinonimo di classe ed eleganza – un punto fermo per i migliori esemplari maschili della specie.

Mio padre vuole l’uomo perfetto e io lo accontenterò.

«Mi dispiace, Lizzy, ma nessuna cifra mi convincerà mai ad accettare», ha detto Ferdinand Johnson una volta finito il caffè. Ha sistemato il tovagliolo di fianco e mi ha lasciata a fissare il conto.

«L’unico caso in cui potrei accettare è se triplicaste l’offerta», ha commentato Gregory Hutchinson. «E forse nemmeno allora. Non vale il mio tempo».

Keith Halls mi ha a stento lasciato finire. Ha passato tutto il tempo con gli occhi fissi sul mio décolleté, nonostante fosse ben nascosto dietro una camicia di seta molto formale. Mi sono trattenuta dal dire “Il mio viso è quassù, eh” almeno mille volte.

E gli altri?

Non è andata meglio…

«“Grazie ma non ho tempo di giocare a Barbie e Ken”? Ha detto così?». La mia migliore amica Jeanine è all’altro capo del telefono mentre mi allontano dal luogo dell’ultimo appuntamento, alle venti e trenta.

«Sì! Ed è andata più o meno così con tutti. Jeanine, è stato un massacro. Io… sono sconvolta da quanto siano stati scortesi, arroganti e palesemente disinteressati! E ora cosa diavolo faccio? Questa è la prima chance – l’unica – che mio padre mi abbia mai dato e non so che pesci pigliare!».

Otto appuntamenti. Otto. Nessuno vuole essere il volto della nuova linea di abiti della Banks Limited. Uno ha chiesto cinque milioni. Un altro continuava a guardare l’orologio. Un altro ancora mi ha ascoltata, ha annuito e poi mi ha chiesto: «Abbiamo finito? Gioco a tennis tra mezz’ora».

Questi milionari sono schifosamente viziati e sono scossa da quanto siano andati male gli incontri.

Tendo a rinfacciarmi ogni errore perché mi hanno insegnato che il fallimento non è un’opzione. Secondo mio padre – Harold Banks in persona – la famosa citazione per cui il fallimento sarebbe la strada per il successo è una stronzata. Esaltare le sconfitte, per lui, è una cosa che fanno solo i cretini quando non ce la fanno al primo tentativo.

È difficile seguire il suo esempio, ma io lo faccio.

Mentre cammino per la strada dopo la mia sfortunata serie di appuntamenti, mi rendo conto che non sopporto l’idea di tornare da lui a mani vuote.

Cosa mi aspettavo? Sono stata circondata da uomini del genere per tutta la vita; sono gli stessi che mio padre potrebbe considerare degni di me. I tizi come gli otto che ho appena incontrato sono la ragione per cui rimarrò single a vita. Sono così egocentrici che avrei potuto offrire loro il mondo intero e comunque non sarebbe stato abbastanza. Se aggiungete a loro mio padre, probabilmente mi divertirei di più se fossi suora.

«Non esistono più uomini perbene al mondo, interessati a lavorare e guadagnare bene?», domando a Jeanine, spostando lo sguardo sui piedi mentre cammino. «Cavolo, ho offerto un milione per il disturbo… Dovevano solo lanciare il prodotto con me, essere il volto della campagna per i nuovi abiti maschili, indossarli a un paio di eventi… nient’altro».

«Sai una cosa? Forse stai puntando un po’ troppo in alto con quelli già famosi». Jeanine fa una pausa. «Un milione di dollari sono spiccioli per Ferdinand Johnson. Magari dovresti abbassare il tiro».

Ha ragione. «Abbassare il tiro. E dove trovo un uomo che accetti?»

«Non lo so. Perché non fai un giro in centro e dai un’occhiata nei wine bar? Vedrai che troverai qualcuno in un batter d’occhio, è sempre così».

A quanto pare si è dimenticata che vivo in centro ad Atlanta. E da queste parti non ho mai visto nessuno che possa anche solo lontanamente rispettare i miei canoni. «Temo che abbassando il tiro mi ritroverei con il Daniel di turno».

«Ah, già», mormora schifata sentendo menzionare il mio terribile ex, troppo spaventato da mio padre persino per presentarsi all’appuntamento e conoscerlo. «Non tutti sono privi di spina dorsale come lui. Ci sono veri uomini là fuori, davvero. Allora, cosa farai?»

«Adesso? Voglio sbronzarmi come faceva Hemingway. I suoi migliori lavori sono nati quando aveva in mano una bottiglia. Voglio fare un tentativo».

«Be’, brinderei con te se potessi. Ma al momento non riesco. Uno degli stagisti ha fatto un disastro, quindi stasera mi tocca lavorare».

Continuo a camminare senza sapere minimamente dove sto andando. So solo che non voglio tornare a casa. E sicuramente nemmeno da mio padre, domani, a mani vuote. «Dio mio, forse non sono fatta per questo lavoro. Forse dovrei lavorare per qualcun altro, qualcuno che sia più semplice da accontentare».

«Sei una Banks, tesoro. Sei in tutto e per tutto figlia di tuo padre. Ti verrà in mente qualcosa e te la caverai, Liz». Jeanine sta cercando di motivarmi, ma è dura darle ascolto.

«Ho pensato a qualcosa, in effetti. Mi ubriacherò e domani non andrò a lavorare», spiego.

Lei ride, poi esclama: «Okay. Bevi un drink. Offro io. Poi va’ a casa e mettiti a riflettere – qualcosa ti verrà in mente».

«Vedo un locale. Un bar squallido, il che è perfetto perché non voglio incontrare nessuno che conosco nella mia ora di disperazione. Ti chiamo domani…».

«Lizzy, sei sicura che…».

Riattacco prima che possa protestare e fisso l’insegna: TIM’S BAR.

Wow. Devo aver girato in qualche via che non conosco senza accorgermene e ora sono in un quartiere non molto bello della città, con la mia borsa di Hermès e le Louboutin ai piedi. Lancio uno sguardo furtivo alle vie buie. Qualcosa si muove nell’ombra, nel vicolo accanto a me, probabilmente un personaggio inquietante. Zone come questa ne sono piene. Oddio. All’improvviso mi sento nuda. È come se avessi scritto “Rapinami” sulla fronte.

Non mi sono mai davvero ubriacata in un locale, per paura di mettere in imbarazzo mio padre. In questo posto però, il Tim’s Bar, di sicuro nessuno ha mai sentito parlare di lui o dei nostri prodotti. Proprio quello di cui ho bisogno.

Ma non posso entrare, vero? Chissà che genere di persone rozze e spaventose ci sono lì dentro. Se parliamo di duri, il massimo a cui sono arrivata è Sensei Tim, il mio istruttore di judo del martedì e giovedì; viveva in periferia e integrava lo stipendio vendendo candele profumate.

Mentre sto riflettendo, un uomo inquietante esce dall’ombra. Non ha denti e ha delle fessure al posto degli occhi. Se possibile, è ancora più spaventoso alla luce dei lampioni. «Ciao, dolcezza», sibila.

Oh, mio Dio, no.

Respiro a fondo, spingo la porta del locale ed entro in fretta, poi mi blocco subito per darmi un’occhiata intorno.

Una cinquantina di teste si voltano nella mia direzione, come se fossi l’attrazione della serata. Sembra che persino il disco nel vecchio juke-box all’angolo abbia smesso di suonare.

Mi sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. C’è un bancone lungo e quasi vuoto, un paio di clienti mangiano nachos e patatine con la salsa a un tavolo.

Ma mentre cammino sul pavimento di cemento, tutti gli occhi sono fissi su di me.

Cosa ci faccio qui?

Ah, sì, è vero: cerco di farmi rapinare.

No, questa è una regolare attività commerciale, come le altre. Sono certa che saranno felici di servirmi.

Mi faccio coraggio, prendo posto su uno sgabello al bancone e dico al barman, che è impegnato a guardare il cellulare: «Tequila, la migliore che avete, liscia». Uso un tono burbero, sperando che mi qualifichi come una persona in grado di badare a sé stessa, nel caso qualcuno avesse posato gli occhi sulla mia borsa.

Non alza lo sguardo, sorride allo schermo e versa il liquore da una bottiglia che si chiama Montezuma, poi mi serve il bicchiere con la mano libera. Ma cosa diavolo è Montezuma?

“Ottimo servizio”. «Mmm, ho chiesto la migliore che avete».

Mi guarda per la prima volta. Increspa le labbra infastidito. «Questa è la migliore, principessa. E anche l’unica che abbiamo».

Non voglio irritarlo ulteriormente, visto che le sue braccia, piene di tatuaggi, sembrano tronchi d’albero.

Prendo il bicchierino e bevo la tequila d’un fiato. È tremenda, sembra un solvente per vernici, mi fa venire le lacrime agli occhi. Non importa. Batto sul bancone per chiederne un’altra. Quando la curiosità ha il sopravvento, chiedo: «Cosa stai guardando sul telefono?»

«Jimmy».

«Jimmy chi?»

«Jimmy Rowan. Lo stuntman su YouTube, mai sentito? Un giorno si farà ammazzare».

«Speriamo non oggi». Aggrotto la fronte e sbircio lo schermo. «E che genere di cose fa? Sono pericolose?».

Il barman volta il cellulare verso di me. Un tizio con un casco e una tuta di nylon si sta lanciando da un aereo. Parla in camera e dice: «Mi hanno sfidato ad aprire il paracadute quindici secondi dopo rispetto a quando lo aprirebbe una persona sana di mente. Quindi iniziamo a contare da… adesso».

Spalanco gli occhi e mi si stringe lo stomaco dalla preoccupazione per l’idiota che viene inquadrato.

Quattordici…

Il frastuono del vento gli spezza la voce.

«Tredici». Il barman sta contando.

Osservo quel matto in caduta libera e la terra sotto di lui che si avvicina.

«Che cretino», mormoro. Ma non riesco a staccare gli occhi dal video.

«Cinque!», esclama il barman.

Distolgo lo sguardo. «Dimmi che sopravvive».

«Oh, sì, certo». Mi mostra il telefono quando quel tizio tira finalmente la corda del paracadute e, pochi secondi dopo, si schianta a terra. Dopo un lamento comincia a ridere di gusto. Non posso evitare di sorridere e scuotere la testa.

«E l’ha fatto perché…».

«Perché l’hanno sfidato. Cinquecento dollari».

«E ha fatto quello per cinquecento dollari?»

«Ne riceve di più con le visualizzazioni dei video. Deve pur portare a casa la pagnotta, no?». Il barman mi squadra. «Non tutti hanno un fondo fiduciario a portata di mano».

Cavolo, e io volevo solo un tizio che indossasse i nostri abiti e sorridesse a un paio di eventi. «Perché io non trovo un uomo del genere?», chiedo ad alta voce, scuotendo la testa e spingendo in avanti il bicchiere vuoto. «Barista. Un altro, per favore».

Il terzo.

Mi versa da bere. «Un tipo raffinato, quel Jimmy».

«In quale dizionario?».

Lui mi guarda senza aver capito, mentre si rimette in tasca il cellulare e lucida un bicchiere. «Eh?»

«In quale dizionario lo trovi sotto la definizione di “raffinato”?».

Spalanca gli occhi come se avessi appena detto una cosa blasfema. «Be’, forse non come te. Non ha una Rolls-Royce. Ma in questa zona è una divinità. Viene spesso qui». Indica con un cenno del capo un angolo buio del locale, con un divanetto, alla destra del bancone. «Quello è il suo ufficio».

Squadro il tavolo disordinato e mi chiedo che genere di uomo lasci un treppiede, una videocamera e un vecchio portatile, tutti montati, in un bar. Deve fidarsi molto delle persone che gestiscono questo posto. Oppure i clienti hanno paura di lui.

«Jimmy Rowan farebbe qualsiasi cosa per scommessa – è un uomo di parola».

«Se ha fatto quel gesto folle per cinquecento dollari, cosa farebbe per mezzo milione o più?», mormoro, sorridendo e scuotendo la testa al pensiero. Almeno riesco ancora a sorridere.

«Cavolo, signora, qualsiasi cosa. Perché? È un’offerta?». Mi guarda con rinnovato interesse, in modo viscido. Come se volessi comprare i servizi di Jimmy. Ma con chi diavolo pensa di avere a che fare? «Le signore impazziscono per lui».

Oddio, proprio come temevo ha frainteso.

«No, grazie mille», borbotto. «Le signore o le donne in generale? Non penso che una vera signora opterebbe per un folle come lui».

Solleva lo sguardo alle mie spalle. Nella stanza piomba il silenzio e poi il barista mormora: «Parli del diavolo…».

Sento uno schianto, seguito da un gran baccano.

«Cosa succede?». Mi guardo intorno.

Il barman sorride. «Jimmy Rowan».

Sposto gli occhi sulla porta e il mio cuore salta un battito. L’alta e rude macchina del sesso a cui il barman si riferisce non assomiglia per nulla a un Jimmy. È troppo imponente e affascinante e… be’, figo.

Non lo riconosco dal video. Ma indossava un casco durante la ripresa finita su YouTube. Adesso ha una chioma scura e spettinata. Un paio di jeans consunti che fasciano alla perfezione la vita stretta. La maglietta nera, all’apparenza vecchia e sgualcita, avvolge muscoli che solo un uomo davvero atletico può avere.

Mi rendo conto che lo sto fissando come se non avessi mai visto un uomo prima d’ora, quindi arriccio le labbra, disgustata dal mio comportamento, dando la colpa alla tequila a buon mercato. Torno a concentrarmi sul drink.

Sento un fischio acuto. «Luke!».

«Jimmy!», lo saluta il barman.

Mi volto di nuovo, incapace di fermare il fremito che sento nella pancia. I miei occhi si posano su di lui e continuano ribelli a fissarlo. I capelli sono un po’ troppo lunghi, arrivano al colletto della T-shirt e si incurvano sulle punte. Neri come la notte. Sorride salutando i ragazzi che lo accolgono. Le donne sembrano raddrizzarsi sulle sedie o spingere in fuori seni e fianchi. Alcune gli vanno persino incontro. Lui trasuda sicurezza e forza e, al contempo, c’è una piega scherzosa nel suo sorriso che lo fa sembrare giovane e diabolico.

Sembra… sporco. Non curato.

E wow. A nessuno sembra importare la trasandatezza.

Qui è come una specie di celebrità.

Gli sbircio il petto e non posso fare a meno di notare il modo in cui la maglietta si tende sulle ampie spalle. I bicipiti sono muscolosi, si vede da come il tessuto si allarga sulla pelle quando si muove. I jeans abbracciano i fianchi magri; ha le gambe lunghe, le cosce fasciate dai pantaloni. Un brivido che mi mette a disagio mi percorre la schiena quando alza lo sguardo, come se sentisse i miei occhi addosso.

«Jimmy!», lo chiama una ragazza, avvicinandosi a lui da un angolo del locale.

Sbuffo e scuoto la testa, aggrottando la fronte davanti ai comportamenti sciocchi di queste tizie. Al mio verso, Jimmy torna a guardarmi e noto una fossetta sotto la barba arruffata quando i nostri sguardi si incrociano.

Barba. Sorriso malizioso. Abbronzatura dorata. Denti bianchissimi. Occhi così brillanti e azzurri che rimango stupita quando li posa su di me.

Perché mi eccita? Potrà anche essere figo, ma non è per nulla il mio tipo. Io sono io e lui è così… rozzo; è l’uomo più primitivo che abbia mai visto.

Mi sistemo sullo sgabello e mi volto per bere un sorso di tequila, preparandomi a un’altra occhiata.

Lo sbircio di nascosto e mi si stringe lo stomaco. Mio Dio, mi sta fissando spudoratamente.

Inarca un sopracciglio e io mi paralizzo sul posto. Torno a concentrarmi sul drink e sento una risatina maschile alle mie spalle.

«Jimmy… maledetto coglione!», esclama qualcuno.

Mi volto. Ora sta guardando un altro tizio che ha fatto cadere la sedia alzandosi.

Il sopracciglio di Jimmy è di nuovo inarcato. Per qualche motivo, il timbro basso della sua voce mi fa drizzare i peli sulle braccia. «Te l’ho detto che ti avrei trovato», dice minaccioso.

«Sono qui, bastardo», esclama l’altro.

Si guardano in cagnesco, scansando i tavoli fino ad arrivare in una zona sgombra dove possono affrontarsi.

«Mi hai reso le cose davvero facili», mormora Jimmy con un ghigno. Flette le braccia e i bicipiti si gonfiano tanto che temo squarceranno la maglietta.

Perché diavolo sono qui? Nel mezzo di una rissa da bar? Jeanine mi direbbe di uscire subito, ma mi avrebbe anche detto di non entrare in un locale del genere. Resto però stranamente inchiodata allo sgabello. In un istante, Jimmy balza addosso all’uomo.

Il suo rivale crolla sul tavolo che ha alle spalle, le cui gambe si rompono con un forte schianto; finisce così sdraiato a terra con Jimmy Rowan sopra.

«Ah, cazzo, Jimmy!», si lamenta il barista saltando oltre il bancone e correndo verso la rissa. «Andare a picchiarvi fuori. FUORI! VA’ FUORI, JAMES!».

Aspetta, si chiama James.

Come… Bond. James Bond.

Il barista e un altro uomo trascinano via James, che scuote la testa e abbassa gli occhi sul suo avversario a terra. «Okay, okay».

Lo lasciano e lui si passa nervosamente una mano sul collo prima di sollevare la testa e guardarmi di nuovo. Sussulto. Poi lui sembra ricadere preda della rabbia e si getta di nuovo sul tizio.

La folla osserva i due che si prendono a pugni e rotolano a terra. Mentre la lotta continua, io rimango paralizzata sullo sgabello. Sono sconvolta ma non riesco a distogliere lo sguardo. È come osservare un incidente ferroviario.

«JIMMY!», urla metà del locale, mentre l’altra metà si limita a osservare, come me. Devo ammettere che molti sembrano divertiti. Io no.

Due tizi allontanano nuovamente James che impreca furioso mentre lo trattengono; incolla ancora una volta gli occhi ai miei.

Mi fissa con le narici dilatate e in quello sguardo non c’è traccia di pentimento né di scuse. Continua a guardarmi: è un’occhiata sensuale e sfacciata, che vuole essere notata.

Mi passo la lingua sulle labbra, mi tremano le mani mentre le infilo nella borsa per prendere dei soldi. Li lascio sul bancone. James ha il fiato corto, il petto si alza e si abbassa freneticamente sotto la maglietta tesa mentre io mi sistemo la borsa in spalla, prendo la giacca e mi avvio verso l’uscita.

Sento i suoi occhi addosso a ogni passo e mi ricordo vagamente che indosso un completo da lavoro. Ho la giacca in mano, la camicia è troppo bianca e i capezzoli spingono contro il tessuto. La gonna mi sembra più corta di quanto sia in realtà, un po’ più stretta di quanto ricordassi.

Non vedo l’ora di uscire di qui.

Cosa mi fa sta facendo quest’uomo?

«Tutto okay, amico?», continua a chiedere il barista a James Rowan. La star di YouTube. Lo spericolato.

James gli rivolge un cenno d’assenso, la fronte aggrottata, lo sguardo su di me.

Il barista sorride seguendo i suoi occhi, come se sapesse qualcosa che io non so.

E che non sono sicura di voler sapere.

Sembrano tutti stupiti che l’attenzione di James continui a tornare su di me.

E io sono ugualmente stupita perché non riesco a togliergli gli occhi di dosso.

Sento le ginocchia molli. Ogni passo verso la porta rende le mie gambe più deboli.

Improvvisamente l’altro uomo mormora: «Stai sbavando dietro quella ragazza? Sembra che non riesca a scappare abbastanza in fretta. Cinquanta dollari – ti sfido a cercare di scoparti…».

Di colpo James gli vola di nuovo addosso, liberandosi dei due che lo tenevano fermo. Io sussulto e corro alla porta, pronta per andarmene, ma qualcosa mi trattiene. Qualcosa – un sussurro – mi impedisce di aprire la porta. Mi guardo alle spalle, lo osservo mentre si muove.

Questo è un uomo che farebbe qualsiasi cosa per soldi.

Qualsiasi cosa.

Quell’idea mi fa esitare. “Mio Dio, Elizabeth, non ci starai davvero pensando? È impossibile. Non funzionerebbe mai. È la tequila a parlare, non sei lucida, non sei razionale”.

Eppure ci sto pensando sul serio. Respiro a fondo per farmi coraggio e torno verso il bancone, avvicinandomi al trambusto.

«Signori!», grido, mettendomi tra i due e fermandoli. Potrei beccarmi un pugno in faccia per questo gesto stupido. «Sono certa che la cosa si possa risolvere da persone civili, parlandone».

Gli uomini si interrompono e mi guardano come se fossi pazza. Solo in quel momento mi rendo conto di quanto suoni stupida la mia frase. I tipi come questi non parlano. Grugniscono come cavernicoli e poi sistemano gli screzi facendo a pugni. Fine.

«Ehi», mi sussurra lui, osservando la collana di perle che indosso prima di abbassare la voce. «Hillary Clinton. Bel completo. Ora levati».

Abbasso gli occhi sul mio abito. Non è mica un tailleur con i pantaloni, non assomiglio alla Clinton. So di essere troppo ben vestita per questo posto, ma…

James rivolge un’occhiata feroce al tizio corpulento. «Ultimo avvertimento. Se quel buono a nulla si avvicina ancora a Charlie…», ringhia chiudendo le mani a pugno.

«Fottiti, Rowan».

James mi gira intorno e mi spinge dietro di sé così in fretta da lasciarmi senza fiato, poi si scosta e colpisce l’avversario con un pugno alla mascella. La rissa continua. Io barcollo, il cuore batte forte, carico d’adrenalina.

Ci vogliono tre uomini per bloccare lui e due per fermare l’altro; finalmente, il tizio viene trascinato abbastanza indietro da concedermi sufficiente spazio per parlare con James.

Riesco a incrociare nuovamente il suo sguardo e qualcosa nello strano silenzio del locale mi rende ancora più nervosa di quanto non sia.

Lo lasciano andare e lui sposta subito l’attenzione su di me. Mi squadra da capo a piedi ancora una volta. Piega le labbra in un accenno di sorriso mentre mi osserva. Ma all’improvviso aggrotta la fronte.

«Cosa cazzo pensi di fare?». Il suo ringhio è roco e profondo, mi provoca un brivido di paura ed emozione che mi attraversa le gambe. Fa qualche minaccioso passo in avanti, sempre più serio. «Vuoi farti uccidere, signora?»

«Uccidere no, notare sì». Sono tesa perché mi è troppo vicino, quindi allungo una mano. «James, io sono…».

«Jimmy per gli amici», ci interrompe il barista.

Faccio una pausa. Ci penso un attimo. Voglio essere sua amica? No. Voglio essere sua socia in affari? Forse. «James andrà bene», replico.

Quell’uomo temerario continua a fissarmi, gli occhi ridotti a fessure.

«Mi occuperò di te quando avrò finito», mormora con un sorriso malizioso. Annuisce come per calmarmi e io resto a bocca aperta a guardarlo mentre torna dal suo avversario.

Non sono abituata a essere ignorata. Soprattutto non da un fighissimo idiota che ha rischiato la vita per cinquecento miseri dollari.

Pesto i piedi e incrocio le braccia al petto.

«No! Se non vieni subito a parlarmi, me ne andrò». Raddrizzando le spalle, aggiungo: «Ho un’offerta vantaggiosa da proporti».

Non so se l’ultima parte sia riferita a me o a James, ma visto che sono in ballo, voglio spiegare il motivo per cui sto reclamando l’attenzione di quest’uomo.

Oh, mio Dio. Lo sto facendo davvero. Ma sono matta?

Sono fuori di testa.

Una parte di me vorrebbe che lui rifiutasse e mi ridesse in faccia, così tornerei a casa a leccarmi le ferite. Il giorno seguente mi sveglierei e riderei di questo gesto disperato, del tentativo di corrompere un uomo attraente qualunque – che probabilmente non sa nemmeno cosa siano dei gemelli – per convincerlo a diventare il volto della Banks Limited. E poi potrei tornare a concentrarmi sugli affari per trovare una soluzione realistica al mio problema.

Ma non è quello che succede.

James si volta e mi rivolge un’espressione stupita. Ride. Si lecca il sangue all’angolo della bocca e quel gesto mi fa spostare gli occhi su quel punto. Nella mia mente si affollano delle fantasie erotiche. Le mie labbra sulle sue, quel corpo possente contro il mio…

Deglutisco a fatica e metto da parte quei pensieri, sconvolta anche solo dal fatto che mi siano venuti. Non è questa l’Elizabeth che conosco. E non posso nemmeno credere all’intensità del suo sguardo: sotto le sopracciglia scure, attraverso una cascata di ciglia nerissime, i suoi occhi color topazio, quando si posano su di me, fanno sparire tutti gli altri nel locale.

Sente la stessa attrazione che provo io?

Ho paura di scoprirlo.

Mi rivolge un sorriso sfrontato. Come se stesse pensando di fare qualche cosa strana con me, qui, di fronte a tutti. I miei capezzoli si induriscono ancora di più, a ricordarmi che non mi negherei se mi volesse.

Mi schiarisco la gola e stiro con mani tremanti le pieghe della camicia. In realtà mi sto solo assicurando che sia al suo posto.

«Sono Elizabeth». Tengo per me il cognome.

James mi osserva in un modo che mi fa arrossire. «Ho un conto in sospeso, come vedi, Elizabeth…».

«Io… ho un’altra proposta di lavoro per te», ripeto prima di perdere la sua attenzione. «Credo che la troverai molto interessante».

«Ah, sì? Questa devo proprio sentirla».

Mi chiedo se non sia troppo ubriaca per ragionare lucidamente. Gli indico il bancone del bar e mi avvio in quella direzione, ben conscia del suo corpo possente alle spalle. Noto che il barista ci guarda divertito. Mi versa ancora da bere. Mando giù in fretta la tequila e sussulto quando mi brucia lo stomaco. Mi volto verso lo scalmanato di YouTube.

James “Jimmy” Rowan mi guarda con aria spavalda. Aveva lo sguardo incollato al mio sedere quando mi sono girata – e non posso credere di essere caduta tanto in basso. Il mio corpo continua a fremere per la vicinanza con il suo. Mi sforzo di controllare le mie labbra. Non so come sia possibile, ma sto cercando il nuovo volto della campagna della Banks Limited in un bar malfamato e sto parlando con un cretino barbuto e spericolato che si chiama Jimmy.

Ma sono disperata e non mi piace sentirmi così.

Osservo le sue spalle larghe. I capelli scuri e scompigliati. Solleva la testa come se percepisse il mio esame. I nostri sguardi si incrociano. Leggo nei suoi dell’intelligenza – forse non quella di un laureato a Harvard, ma magari con una piccola… okay, un’enorme aggiustata… potrebbe funzionare. Improvvisamente mi si stringe ancora lo stomaco.

Sì, andrà bene.

Mi porterò a casa questo tizio.

Porgo un pezzo da cento dollari al barista. «Grazie».

«Wow. Non c’è di che».

«Andiamo, James», esclamo e lui mi guarda torvo. Rivolge un’occhiata confusa a Luke ma mi segue comunque fuori.

Jimmy

Prima di tutto, non ho pianificato niente di tutto ciò. Stavo venendo in ufficio quando ho incontrato Denny e gli altri. Ho deciso che avevo voglia di farlo a pezzi. Però non ho potuto raggiungere il mio obiettivo, perché Hillary Clinton vuole parlare d’affari. Con me.

Certo.

Sto ancora cercando di raccapezzarmi… Ah, sì, forse ho capito di che affari parla. Non è la prima volta che una donna ricca e di classe viene al Tim’s Bar e tratta me o il mio amico Luke come se fossimo spogliarellisti.

Mi piace scopare, come a qualsiasi altro uomo, ma ho un orgoglio e quindi ho sempre rifiutato le loro proposte. E allora come mai non ho cacciato via anche questa qui, con il suo bel completo elegante?

Le osservo il profilo mentre digita sul cellulare. Immagino stia chiamando un taxi. Le tremano le mani. È minuta, almeno una trentina di centimetri più bassa di me. I capelli scuri le arrivano alle spalle. La pelle è color porcellana. Assomiglia a una di quelle bambole che la gente espone in una teca. Roba da guardare e basta.

Quindi perché mi prudono le mani dalla voglia di allungarmi e toccarla dalla testa ai piedi?

Il suo tremito aumenta mentre la osservo, come se percepisse il mio sguardo su di sé. Sorrido. Cavolo, mi piace renderla così nervosa.

Una parte di me vuole che il suo imbarazzo cresca, l’altra preferirebbe passare subito al momento in cui entrambi ci spogliamo.

Scommetto che è quello che vuole. E io non scommetto mai a cuor leggero.

«Ti sei persa tornando da…». Stringo gli occhi riflettendo in silenzio. «Un pic-nic?»

«Un pic-nic? Sul serio?». Mi rivolge un’occhiata stupita. «Per quello che ne sai, potrei persino vivere in fondo alla strada!». Ho sottolineato quanto è fuori luogo in questo posto e la cosa sembra averla infastidita.

Rido. «Non credo. Lo saprei se vivessi in zona».

«Perché, conosci forse tutti quelli che abitano qui?». Mi osserva con attenzione. Con fin troppa attenzione, oserei dire.

«Tutte le belle donne».

«Sono sicura che tu conosca il nome, il cognome e anche il secondo nome di tutte».

«Piuttosto i nomignoli», replico, sorridendo mentre le faccio l’occhiolino. «E quelli spesso cambiano man mano che si prosegue coi preliminari, il sesso e le chiacchiere fra le lenzuola».

Lei sussulta e mi chiedo se, oltre che ovviamente ricca, sia anche viziata. La guardo. Chissà se a letto è gentile e educata o se si lascia andare. Solleva il mento. «La macchina sta arrivando», esclama, sistemandosi il completo con le mani.

«Ho tutta la notte», mormoro con calma, incrociando le braccia al petto.

«Anch’io», commenta disinvolta.

«Proprio quello che volevo sentire». Le rivolgo un sorriso. «Mi piacciono le donne pazienti. Vuol dire che non mi metteranno fretta una volta arrivati al dunque».

Ride sarcastica. «Già… perché mai dovrei essere di fretta quando sono in piedi all’angolo di – dove siamo? – con un uomo che non ho mai visto prima e che ho incontrato in un bar sconosciuto?».

Rido, poi allungo la mano e sfioro la collana di perle che indossa. Noto che per un attimo le manca il fiato, e dopo un istante mi scosto. «Non ti ha costretto nessuno. In caso contrario, dimmi pure dove trovare quei farabutti e me ne occuperò io… Credo però che tu sia entrata spontaneamente nel locale stasera. Non penso ti ci abbiano trascinata. E per quanto riguarda l’uomo che non conosci, sono io e verrò a casa con te». Le sfioro il labbro inferiore col pollice mentre la fisso. «Perché mi hai costretto. E sto ancora aspettando che tu mi dica il motivo, piccola».

Deglutisce a fatica, poi distoglie lo sguardo dai miei bicipiti e si mordicchia il labbro.

«Mentre aspettiamo, ho qualche domanda da farti».

«Per esempio?»

«Per esempio, perché ti piace saltare dagli aerei per pochi spiccioli?»

«“Pochi spiccioli”? Signorina, cinquecento dollari non sono spiccioli. Capisco che a una come te possa sembrare così, ma per la maggior parte della gente è una somma considerevole». Indico le sue scarpe con un cenno del capo. «Scommetto che con cinquecento dollari non si compra nemmeno un paio di quelle».

Preferisce non rispondere e si morde di nuovo il labbro.

Cavolo, perché vorrei essere io a stuzzicare quella bocca?

Mi passo una mano sul collo e decido di rivelarle qualcosa di cui di solito non parlo con gli sconosciuti. D’altronde sto cercando di fare colpo su di lei ed è normale che sia così. È davvero figa. La desidero nel letto con me, tanto quanto poco fa volevo fare a pezzi quei due tizi.

«Sai… Ci sono alcune aziende che iniziano a interessarsi al mio canale, ma fatico a farmi pagare le inserzioni pubblicitarie quanto vorrei. E quindi… devo continuare a tenere viva l’attenzione. Devo ottenere visualizzazioni e follower. Le offerte aumenteranno quando diventerò più famoso».

Mi guarda interessata. Forse non aveva preso in considerazione l’idea che potessi avere un cervello sotto i capelli.

«Quindi la tua offerta è superiore?», le domando. Non ho ancora capito se vuole propormi di andare a letto con lei. Se fosse così, non le chiederei un soldo. Ma sono curioso di sapere cosa vuole da me e di scoprire se stiamo parlando di sesso o di affari veri, di quelli che si fanno a porte chiuse, dove si firmano contratti e ci sono in ballo un sacco di soldi.

Mi chiedo se segua il mio canale. Se sia venuta a cercarmi perché nessuno è bravo quanto Jimmy Rowan.

Elizabeth annuisce e, come se i suoi pensieri fossero sconci quanto i miei, arrossisce. «Certo che sì. Ma solo se accetterai le mie condizioni».

Una macchina accosta di fronte a noi e l’autista scende. «Signorina Banks?»

«Sono io. Ecco l’auto», mi dice indicandomi la Lexus nera. Tenta di nascondere le guance rosse e il mio uccello diventa ancora più duro all’idea di averla tutta per me sui sedili posteriori.

In quel momento capisco chi è davvero questa donna da sogno. Questo mi trattiene forse dal seguirla? Col cavolo.