In giro col Diavolo

Sorseggio il mio cappuccino di Starbucks seduta su una grossa poltrona nell’area camerini della Banks Limited. Continuo a guardare lungo il corridoio, sperando che nessun collega arrivi a spiare il mio progetto ancora in divenire.

«Dov’è LB?», domando a Michael, il nostro sarto, mentre cerco i progetti per la West Coast Fashion Week tra i miei file e li mando per mail alla mia nemesi, come promesso.

«Probabilmente sgattaiola nelle fogne, il posto a cui appartiene», mormora con in bocca degli spilli.

Ah, ecco uno dei mille motivi per cui adoro Michael.

Quando si tratta di scegliere il nuovo boss tra me e LB, so bene che Michael tifa per la sottoscritta.

Da un’ora il nostro sarto svolazza intorno a James come un’ape col miele, facendogli indossare tutti i completi che ho scelto. Noto che James è infastidito. Sembra di cattivo umore. A un tizio come lui deve dar fastidio che un altro uomo lo tocchi in un tripudio di “oooh” e “aaah”.

Ora Michael gli sta passando le mani sulla schiena, poi si fa da parte per contemplare il lavoro. «Peeerfetto, tesoro. Questa giacca avvolge il corpo muscoloso. Oh, sì, dolcezza, proprio così».

James mi fulmina con lo sguardo.

Vorrei che si comportasse un po’ meno da teppista di strada e un po’ di più come l’uomo che mi piacerebbe diventasse. Ma Michael lo adora, è evidente. E anche se non mi fido di molta gente, so di potermi fidare di lui.

Spostando gli occhi sull’abito nero pece che indossa James, gli tolgo un po’ di polvere immaginaria dal colletto. «Fa caldo qui dentro o lo sento solo io?»

«Oh, tesoro, ha proprio ragione». Michael indica James.

A quest’ultimo non sfugge il gesto e, dall’espressione sul suo volto, capisco che ne ha abbastanza di provare i vestiti. È ancora rapito dai gemelli che gli abbiamo dato. Tutte le camicie della Banks li necessitano. Quando glieli ho consegnati, lui ha commentato: “Io non porto gli orecchini”.

Gli ho mostrato come indossarli e lui mi ha rivolto un’occhiata cupa. «A cosa diavolo servono? I bottoni non bastano?».

Michael sistema il colletto di James prima di guardarmi. «Mi sembra elegante, che dici?»

«Assolutamente sì. Mi sembra perfetto». Passo in rassegna ancora qualche abito e mi soffermo su una delle giacche da sera. «Proviamo questa».

Michael sfila subito la giacca di dosso a James e schiocca le dita rivolto all’assistente, che si affretta a recuperarla.

«Immagino che tuo padre sia contentissimo del nostro nuovo volto. Me lo immagino già sui cartelloni», mi dice Michael.

Volto lo sguardo verso il corridoio. Non c’è nessuno. Se per portare a termine quello che ho in mente mi toccherà tenere nascosto James così, mi verrà un attacco di cuore. «Sì, mio padre è… entusiasta».

Michael solleva la testa. «Ma ha già incontrato questo nuovo meraviglioso testimonial? LB mi ha cercato stamattina. Lo conosci, voleva ficcanasare. Ha detto che tuo padre gli ha chiesto di tenere tutto sotto controllo».

Mi sento avvampare. Mi sento riempire da una rabbia mista a frustrazione rendendomi conto che mio padre non si fida di me. Risponde a stento alle mie chiamate ma ha tutto il tempo di parlare di me con LB. Sono mortificata, perché quando alzo la testa vedo gli occhi azzurrissimi di James fissi su di me.

Mi vede.

Davanti a lui, sono nuda, vulnerabile.

Scelgo tra le cravatte una rossa, visto che è il suo colore preferito. Evito di incrociare il suo sguardo bollente mentre gliela sistemo al collo. «Sai come fare il nodo?».

Scuote la testa. «Come ho detto, non ho messo la cravatta nemmeno al funerale dei miei».

Mmm. «Quindi immagino che tu non abbia intenzione di imparare, eh?».

Michael non batte ciglio. Mi fa spostare e gli mostra come fare un nodo.

Riusciresti a spiegare bene a James come e quando indossare ciascun abito?», domando.

James mi guarda. «Credi che non sappia infilare una giacca? Il fatto che non abbia mai annodato una cravatta non fa di me un idiota».

Alzo gli occhi al cielo. «C’è un abito giusto per ogni occasione e devi imparare».

Mi fa il saluto militare.

«Oh, quel serpente di LB», esclama Michael con un cenno del capo, «ha contattato alcuni di noi chiedendo se volessimo partecipare a una sua scommessa. Ci credi? Sta scommettendo sul tuo fallimento, Lizzy. Quel parassita ha proprio una bella faccia tosta!».

«Credo che per oggi basti così, grazie, Michael», lo ringrazio arrossendo ancora una volta, perché James ci sta ascoltando.

«Grazie un corno», sospira James con le narici dilatate, mentre si strappa la cravatta dal collo e strattona la giacca con rabbia per toglierla. «Maledetta camicia di forza».

Quando scende dal piedistallo, fatico a guardarlo negli occhi per paura di cosa potrei leggervi dentro.

«Ora posso portarti in un posto?».

Sollevo il viso di scatto, sorpresa. Indossa una camicia bianca, aperta in alto a mostrare una porzione del petto abbronzato.

«Solo se è una cena di lavoro. Possiamo sfruttare l’occasione per lavorare sul galateo», replico. Ho bisogno di uscire da qui.

Lui ride e si riabbottona la camicia. «Chiamala come vuoi, se ti fa stare meglio». Poi indica il proprio corpo, avvolto nella camicia e nei pantaloni. Potrebbe quasi passare per un uomo del mio mondo. «Ho la tua approvazione?».

Oh, cavolo, sì. Annuisco stupidamente.

«Possiamo prendere la mia macchina». Cerco le chiavi mentre ci dirigiamo al parcheggio.

Decido che è il momento di insegnargli come comportarsi con una signora. Quindi mi fermo davanti alla portiera del conducente.

«Me la apri, per favore?».

James ha già quasi raggiunto il lato del passeggero, come se avesse fretta di andarsene.

Si ferma confuso. «Perché? Le mani le hai anche tu».

«Sì, ma servono per reggere i fiori che mi regali, non per aprire una portiera se c’è un uomo nei paraggi», gli spiego.

Sbuffa frustrato e infastidito mentre fa il giro dell’auto, prende le chiavi e con un bip apre la macchina, spalancando poi lo sportello.

Le nostre spalle si sfiorano mentre salgo a bordo.

«Vuoi che ti allacci anche la cintura?», domanda con voce più burbera di prima.

Esito, non riesco a interpretare la sua espressione. «Se vuoi…», rispondo con voce dura.

Lo fa.

Le sue dita contro il mio corpo mentre prende la cintura mi fanno irrigidire e vengo percorsa dai brividi.

Riprendo a respirare quando si scosta. Sento nelle narici il profumo che ieri gli ho spruzzato addosso. Gli ho preso il mio Tom Ford preferito. Mi chiedo se sia per questo che mi attrae tanto.

Sono un po’ preoccupata riguardo al posto malfamato in cui potrebbe portarmi. Non mi piacciono molto i fast food; puzzano di cibo finto ed è tutto unto. Se non ricordo male, da ragazzina ho visto diversi documentari secondo cui le persone dovrebbero starsene alla larga da quelle porcherie. Ma James mi guida nel traffico e alla fine ci troviamo a mangiare un hamburger da Shake Shack. Non l’avevo mai provato.

Ma sicuramente ci tornerò.

«Mio Dio, è il miglior hamburger del mondo», dichiaro mezz’ora più tardi. Siamo seduti uno accanto all’altra a un tavolino in un angolo del locale. Non posso insegnargli le basi del galateo qui, ma… lascerò correre.

«Buono, vero?».

Annuisco, leccandomi le dita dopo l’ultimo morso, felice di avere ancora le patatine da mangiare. «Come ho fatto a perdermi una cosa del genere?»

«Cosa? Non avevi mai mangiato da Shake Shack?».

Rabbrividisco e ammetto: «Ho mangiato raramente in un fast food».

Come mi aspettavo, mi guarda come se fosse appena atterrata sulla Terra con una navicella aliena.

«Davvero? E come mai? Ti va di parlarne? E ti andrebbe di dirmi cosa succede con tuo padre?». Si scosta e mi osserva.

Sono così sorpresa dalla sua domanda che per un lungo momento non so proprio cosa dire, quindi preferisco bere un sorso della mia Diet Coke.

Poso il bicchiere e apro la bocca, cercando di farne uscire una qualche debole bugia. Invece dico: «Ho avuto solo un attimo di rabbia. Mio padre è un uomo rigido, è difficile conquistare la sua fiducia. Vorrei che avesse chiamato me invece di LB, il suo braccio destro. Gli ho telefonato stamattina per salutarlo e…». Scuoto la testa. «Manco a dirlo, ho capito che avrebbe preferito non sentirmi».

James si appoggia allo schienale e mi guarda per un attimo. «Non posso dire che mi ricordo cosa si provi in una situazione del genere. E nemmeno ad avere un padre difficile. Ma se sta chiedendo a qualcuno di tenerti d’occhio, vuol dire che a modo suo ci tiene».

Non sto respirando, letteralmente. «No», replico aggrottando la fronte. «Mio padre vuole qualcuno che controlli gli affari, soprattutto la parte che sto gestendo io. Teme che faccia un passo falso».

«Capisco».

«So che mi vuole bene, ma da quando mia madre ci ha abbandonati… è come se continuasse a controllarmi per assicurarsi che non faccia lo stesso».

«Sei una donna adulta».

Alzo gli occhi al cielo. «Dillo a mio padre».

«Abbiamo perso la nostra famiglia tempo fa», aggiunge avvicinandosi appena. Ha le sopracciglia aggrottate, come se provasse dolore solo a parlarne. «Per molto tempo Charlie non ha voluto mangiare né parlare. E io non sono stato molto d’aiuto. I nostri genitori e nostra sorella hanno avuto un incidente. Invece di essere felice perché ero sopravvissuto, ce l’avevo con loro perché mi avevano lasciato qui. Ci ho messo qualche mese per metabolizzare la cosa e nel frattempo Charlie è diventato il bambino che tutti bullizzano. Ora gli serve un’iniezione di fiducia. E sicuramente quella non gli arriverà dalle botte che prende uscendo da scuola ogni giorno». Sospira e serra la mascella, giocando con una patatina per un attimo prima di lanciarla nel vassoio. «Comunque, ho dei piani per il suo futuro. Grandi piani».

«Per esempio?»

«Voglio mandarlo in una buona scuola privata. Voglio che abbia la possibilità di costruirsi qualcosa».

Annuisco. Questa confessione mi piace e mi piace anche lui. Perdere mia madre mi ha ferito, ma per quanto ne so è viva. Chissà come dev’essere perdere la propria famiglia per intero.

«Quindi l’hai cresciuto da solo? Non avevi parenti che ti potessero aiutare?»

«Nessuno in condizioni di dare una mano. Mia cugina Maria è rimasta con noi durante l’anno scolastico. I suoi erano tossicodipendenti e lei li amava più di quanto loro amassero lei. Erano i miei il suo unico punto fermo, e sicuramente non potevo cacciarla dopo la loro morte».

«Quindi hai aiutato anche lei?». Non riesco a crederci. «Ma quanti anni avevi?»

«Ne avevo appena compiuti diciotto».

«James».

Scuote la testa e solleva una mano. «Non ti dispiacere per me. Ho fatto quello che c’era da fare. E quello che volevo fare».

«E Maria?».

Sorride lentamente. «Si è laureata con lode. Si è innamorata della radiologia ed è diventata tecnico di laboratorio. Si è sposata col suo primo paziente. Incredibile, no?»

«Sono felice per lei, per loro!».

La sua risata è ipnotica. «Anch’io. Basta stare un minuto con quei due per capire che si sono davvero trovati. Non riescono a togliersi le mani di dosso».

«Se solo fossimo tutti così fortunati…». I miei occhi incontrano i suoi e dopo un istante distolgo lo sguardo, inquieta.

Quindi è per questo che si comporta come un pazzo. Per questo fa quello che fa. Era tutto solo. E forse, da qualche parte nel suo subconscio, è la relazione complicata che ha con la morte a spingerlo a quelle imprese. O forse non è nulla di così contorto, magari ama solo l’adrenalina.

Mentre penso queste cose, mi rendo conto che James mi sta rubando le patatine.

Lo fulmino con lo sguardo e mi avvicino il vassoio. «Ehi. Non mettere le mani sul mio cibo a meno che tu non voglia perderle, okay?».

Solleva le mani, mi mostra i palmi, si dichiara innocente. “Sì, certo”.

«Cosa?», domanda abbassando di nuovo le mani e avvicinandole fin troppo al mio vassoio. «Fai la spilorcia con le patatine?». Me ne ruba ancora una, se la infila in bocca e l’assapora.

Quando ne prende un’altra, ne mette metà tra le labbra e si sporge in avanti. Come se si aspettasse che io – io – gli andassi incontro e mordessi l’altra metà.

«Bleah. Non ci penso nemmeno. Ecco, sono tutte tue».

Spingo il cartoccio verso di lui, osservandolo stupita quando, con un ghigno, ne prende un’altra e se la infila con malizia in quella bocca così sensuale.

James sbuffa e mi riconsegna il cibo. «Ce le ho anch’io, grazie. Volevo semplicemente assaggiare le tue. Per qualche strano motivo sono più buone». Annuisce e io lo guardo a bocca aperta. «Che c’è? Ti hanno dato quelle speciali?».

Notando il brillio dei suoi occhi, gli do una spinta sulla spalla e gli lancio un’occhiataccia. «Certo. Perché io sono speciale. E se prestassi attenzione, ti accorgeresti che sto cercando di rendere speciale anche te», scherzo.

«I tuoi soldi sono come quelli degli altri, Elizabeth», esclama con eccessiva durezza; poi alza il bicchiere e beve dalla cannuccia.

Sorrido. Non riesco a ricordarmi una serata come questa, in cui non mi sia dovuta preoccupare di nulla e mi sia solo goduta la cena. «Grazie degli hamburger. Stavo pensando che forse per te è stressante provare tutti quei completi con Michael e con il team della Banks che ti ronza intorno. Magari possiamo continuare le prove domani da me – così da avere più privacy finché non ti sentirai pronto».

«Non vuoi che la gente mi veda, per adesso», commenta, appoggiando la bibita e guardandosi intorno. «Almeno la tua gente. Capisco».

«Cosa? No…».

I suoi occhi si posano per un istante sulle mie labbra. «Va bene così, seguo gli ordini del capo. E credimi, non vedo l’ora di avere un po’ di privacy».

Cercando di distrarlo e di liberarmi allo stesso tempo dal nodo che sento nello stomaco, mi allungo e gli lancio addosso una patatina. «Ho bisogno di riposare. Mi porti a casa, gentile signore». Alzo la mano in modo teatrale.

La fissa. «E ora cosa dovrei fare?». Solleva gli occhi e quelle lunghe ciglia su di me.

Mi rendo conto che sto facendo una figuraccia e abbasso la mano. «Mi aiuti gentilmente a tirarmi su, mi offri il braccio e mi accompagni a casa», esclamo alzando gli occhi al cielo e ridendo mentre mi metto in piedi.

Mi rivolge uno sguardo incuriosito. Forse si sta chiedendo dove sia finita la parte formale di me. «Stavo controllando quanto sei ubriaca».

«Difficile ubriacarsi con la Diet Coke».

«Ah, ma cosa ne so io di cosa mettono nei drink delle persone speciali?».

Appoggia la mano sulla parte bassa della mia schiena e mi accompagna al parcheggio.

Sono estremamente consapevole del suo tocco, del suo pollice che mi accarezza piano la schiena quando, a un passo dalla macchina, una voce ci ferma.

«Ehi, JIMMY. Jimmy Rowan? Cazzo, per poco non ti riconoscevo! Ti ricordi di me?». Un biondino sui vent’anni si allontana dal suo gruppo di amici per avvicinarsi e stringere la mano a James. «Cavolo, sei proprio tu. Hai accettato una scommessa per aiutarmi a comprare una sedia a rotelle per mia sorella. Ti ricordi delle mail che ti abbiamo mandato?»

«Cavolo, Bert! Certo che mi ricordo di te e tua sorella». James fischia come se fosse stupito di rivedere il ragazzo. Poi sposta gli occhi su di me e li spalanca, un po’ imbarazzato dal suo stesso gesto.

«Ti ricordi il mio nome! Sei fantastico!», si complimenta Bert stringendogli la mano. «Quando farai il prossimo video?».

La voce di James s’indurisce di colpo. «Scusami, devo andare».

Il ragazzo si sporge in avanti, lo fissa. «Mi prendi in giro?».

Scuote la testa. «No, mi dispiace, devo andare. Buona serata».

Poi mi passa davanti per allontanarsi da Bert, che lo sta ancora osservando. Una sedia a rotelle?

Lo guardo mentre entriamo in macchina, resto sorpresa dal fatto che mi apra la portiera.

Il senso di colpa mi avvolge quando mi rendo conto di essere io il motivo per cui ha spento l’entusiasmo del suo fan.

«Un fan del tuo canale?», gli chiedo una volta seduta.

«Sì, da tempo». C’è una nota infastidita nella sua voce, credo non sia contento di aver dovuto allontanare un fan.

Chiude la mia portiera e fa il giro verso il lato del passeggero.

Sta imparando.

Sta facendo tutto quello che ho chiesto.

Ma per la prima volta mi domando se gli sto insegnando le cose giuste.

Cerco di ricordare a me stessa che non lo faccio per cattiveria. La mia futura posizione come CEO dipende dal successo di questo progetto. Ho trovato James in un sudicio locale, a picchiarsi come una bestia incivile del Medioevo! Per la gente del mio mondo, una persona come James non merita il loro tempo – è vero che lo guarderebbero dall’alto in basso. Come posso far in modo che comprino quello che James vende se lo credono un essere inferiore? Nessuno dovrà mai sapere dove l’ho trovato.

Per gli sforzi che fa viene pagato un milione di dollari, avrà un guardaroba nuovo, darà una nuova vita al suo fratellino e imparerà a comportarsi come una persona civile. Un giorno mi ringrazierà, proprio come Bert ha ringraziato lui.

Lo ripeto a me stessa, cercando di convincermi che il progetto andrà bene, mentre lui mi dà le indicazioni necessarie per raggiungere casa sua.

È una piccola e fatiscente casetta in una brutta zona della città, di quelle con minuscoli giardinetti dove l’erba cresce incolta e qualche bidone rovesciato lungo il vialetto d’entrata. Quando accosto con l’Audi, la gente seduta in veranda ci osserva incuriosita dalle altre abitazioni. A parte il Tim’s Bar, non credo di essere mai stata in un quartiere del genere.

Non posso non pensare ancora una volta al fan che ha allontanato. Il nodo allo stomaco che si era formato quando James l’ha respinto non accenna a sciogliersi. «James, io…».

«Ti inviterei a entrare, ma c’è mio fratello».

Annuisco.

Mi guarda per un istante, poi mi rivolge un sorriso e dice: «Ci vediamo domani, capo».

E chiude la portiera.

Mentre lo guardo salire i gradini di casa, mi rendo conto che per la prima volta non ci ha provato.

E forse sarebbe stata la prima volta che l’avrei lasciato fare.

È strano: mi ero detta che non sarei andata da nessuna parte con lui, ma mentre faccio manovra nel vialetto di casa sua, è come se non avessi voglia di allontanarmi.

Jimmy

Mentre salgo i gradini di casa, penso al ragazzo che abbiamo incontrato nel parcheggio di Shake Shack.

Se c’è una cosa che odio di questo accordo, è dover allontanare i miei fan. Rinnegare il mio passato. Fingere di essere superiore. Questa gente è la ragione per cui sono ancora vivo. Questo potrà non essere un bel quartiere, ma a me piace. Le persone si aiutano. Mi piace il Tim’s Bar; mi piace fare acrobazie. Solo perché mi fingo l’uomo dei suoi sogni per qualche mese, non voglio dover voltare le spalle alle cose che mi rendono ciò che sono.

Ma Lizzy non vuole sentirne di queste stronzate. E qualcosa mi dice che nemmeno il suo ragazzo ideale le apprezzerebbe.

Sento Charlie accorrere alla porta per vedere se sono io. «Sei a casa!».

«Ciao, tigre».

«Dov’eri? Hai fame?», domanda.

Mi batto il palmo sulla fronte. «Cavolo, ho cenato con degli hamburger, avrei dovuto portarti qualcosa». Lo guardo. «Cosa mangi tu?»

«Ho già cenato, ha cucinato Maria».

«È ancora qui?».

Scuote la testa. «Se n’è appena andata. Mi ha detto di scriverle quando saresti arrivato».

Le invio un messaggio.

IO: Sono a casa. Grazie. Ti devo un favore.

MARIA: Nessun problema. E no, non mi devi nulla!

Lascio il telefono da parte e Charlie mi ronza intorno come un’ape.

«Cosa ti ha dato da mangiare? Un secchiello di zucchero?», chiedo.

«No, la pizza. Vuoi giocare a Call of Duty?».

Mi accascio sul divano e prendo automaticamente il controller, sospirando mentre resisto alla tentazione di massaggiarmi il petto e liberarmi da questa strana pressione che ho provato a cena con Lizzy.

Lizzy.

L’ho vista lavorare oggi. Per usare un eufemismo, sono rimasto colpito. Si rimbocca le maniche e ci dà dentro. Sembra sveglia, organizzata, con un tocco di dolcezza che la rende irresistibile ai miei occhi.

In pochi secondi ha preso il controllo della situazione mentre mi vestivo. Si è annotata le misure. Mi ha fatto provare pantaloni, camicie, giacche, smoking. Mi ha mostrato come e quando indossarli. Ero sconvolto da quanto mi stessero bene e sorpreso perché non ho disprezzato quei capi quanto pensavo.

E cosa cavolo mi è preso quando le ho raccontato della mia famiglia? Non ne parlo mai. Mai.

E invece, con lei, ho vuotato il sacco.

Chi avrebbe mai detto che una donna spocchiosa e mondana dei quartieri alti mi avrebbe compreso?

Ma lei non è spocchiosa. L’ho vista oggi in azione. Ammiro le donne che lavorano. Ma più ancora mi piace l’impegno che ci mette. Non so se sia evidente agli altri quanto lo è a me ma… vedo il suo lato vulnerabile. Mi è risultato lampante quando ha parlato di suo padre.

Sì. Il suo vecchio non ha certo la reputazione di un bonaccione.

Chissà cosa si deve provare a essere l’unica figlia di Harold Banks.

A giudicare dalle sue parole, non è per nulla semplice.

Vuole impressionarlo.

E io voglio aiutarla. Voglio distruggere le mie sembianze grezze ed essere la persona che secondo lei posso diventare. E magari, nel mentre, far colpo su di lei.

«Ti ho appena sparato in faccia», esulta Charlie.

«Non ero concentrato. Ricomincia. Ti distruggo». Gli spettino i capelli e lui si lamenta.

«Va bene, ricominciamo», mormora schiacciando un tasto.

Quando l’ho vista per la prima volta, al Tim’s Bar, sono rimasto colpito da quanto fosse meravigliosa Elizabeth di persona. Avevo sentito parlare di lei. L’avevo vista sui giornali. Ma avendola lì davanti a me… tutta quella bellezza è moltiplicata all’ennesima potenza. Stupenda, con quei capelli scuri lunghi fino alle spalle, i grandi occhi verdi.

Stasera più che mai mi prudevano le mani per il bisogno di toccarla. La lingua non trovava pace in bocca perché desiderava leccarla.

Non solo perché so che saremmo perfetti insieme, se solo io potessi essere la persona che lei vuole, ma perché vedo oltre quei bei capelli e quegli occhi verdi. Vedo qualcosa in lei. Come lei ha notato qualcosa in me.

E quello che vedo mi piace.

E lo voglio.

«Ti ho beccato di nuovo!».

Mi arrendo e con un lamento lancio il controller di lato. «Sì, ti voglio bene anche io, fratellino».

«Perché sei vestito così elegante?»

«Lavoro».

«Il lavoro è qui». Si allunga e batte un dito sul telefono.

«Sì, ma te l’ho detto. Ho un nuovo lavoro, una bella proposta. Non manderò tutto all’aria».

Charlie è impegnato a sbloccare il cellulare.

«Quante volte ti ho detto di farti gli affari tuoi?».

Come tutti i bravi fratelli minori… Charlie mi ignora. «Ecco la lista degli iscritti al tuo canale. Quando farai il prossimo video? Se lo chiedono tutti».

«Quando avrò finito con questo lavoro». Alzo le spalle e aggiungo: «Forse».