Al volante

Elizabeth

Durante le tre settimane seguenti, lavoriamo su ogni cosa.

Prima di tutto, le vocali. Quel suo accento è inascoltabile.

Poi, ancora galateo. “Per favore” e “Grazie”, più tutto quello che farebbe e direbbe un gentiluomo.

Dopo ancora gli insegno a ballare. E mi faccio pestare i piedi.

Alla fine lo costringo a guardare alcuni video che parlano di etichetta mentre io sistemo i completi che porteremo agli incontri con i clienti.

Quando abbiamo terminato, James è irrequieto ed esausto a causa di tutte le cose che ha dovuto imparare. Lo sono anche io. Una parte di me vorrebbe implorarlo di portarmi fuori di nuovo, ma temo a cosa potrebbe condurre. Lo prenderebbe come un appuntamento, quindi preferisco resistere. Poi mi viene in mente che dobbiamo provare ancora una cosa. «Sai guidare?».

Ora che ci penso, non l’ho mai visto al volante di una macchina nelle sue acrobazie. Solo moto, acquascooter e altri folli mezzi. James mi guarda stupito e immagino che la sua risposta sia negativa.

«Andiamo, ti insegno. Porto la macchina fuori dal caos della città così non fai del male a nessuno. E nemmeno alla mia auto», scherzo mentre prendo le mie cose per uscire.

Guidiamo in silenzio al tramonto e quando raggiungiamo una strada abbastanza vuota, è ormai buio.

«Allora». Accosto a lato di una lunga strada. «Puoi farcela. Vero?», domando, improvvisamente nervosa.

Il suo sospiro nel buio è roco. Sembra divertito. «Ne dubiti?».

Esito. Non so se fidarmi, potrebbe fare qualcosa di folle con la mia Audi.

Mi rivolge un sorriso di sfida, apre la portiera e in un secondo è al posto di guida. Il Diavolo al volante della mia macchina.

«Okay. Il cambio è automatico, quindi è più semplice rispetto a quello manuale con cui ho imparato io…».

Smetto di parlare quando si china verso di me, prende la cintura e me la passa davanti al corpo con una lentezza incredibile.

Mi manca il fiato. Il silenzio è assordante, poi a un certo punto sento il clic della cintura – le sue mani sfiorano il mio fianco. I nostri occhi si incontrano in quel momento.

Fatico a ritrovare la calma e proseguire. «Comunque, dicevo, devi solo premere l’acc…».

Si raddrizza e, mentre sto spiegando, mi rivolge un’occhiata interrogativa (“Così?”) poi la macchina accelera così rapidamente che sento lo stridio delle gomme sull’asfalto.

Abbassa il piede sul pedale, mandando il veicolo in testacoda con un gioioso: «Wohooo!».

«Ma cosa fai? Sei matto?»

«Un po’. Reggiti».

Sbatte le palpebre e io so che non dovrei arrossire né ridere. Ma non riesco a trattenermi.

Affondo le unghie nel sedile e… non riesco a credere che sia così emozionante. Quando mai ho guidato così la mia auto?

Mai, nemmeno nei sogni.

Ma questo tizio guida come se fosse al volante di un mezzo rubato. Mi batte forte il cuore, come se avesse rubato anche quello. Non ho nemmeno avuto bisogno di farmi convincere, perché ero già fin troppo predisposta a farmi conquistare.

Che sia maledetto questo ragazzo. Mi fa venir voglia di ballare. Di slacciare l’ultimo bottone del top. Di togliermi tutto. Di rimanere in mutande e correre per la strada, ridendo così forte da farmi quasi la pipì addosso.

Ho sempre pensato fosse ridicolo. Che a chi ha bisogno di emozioni forti e folli per essere felici mancasse qualcosa. Mi rendo conto ora che non è così, sta tutto nel provare delle sensazioni e nel come ti fanno sentire queste esperienze – elettrizzato, spaventato, avventato o coraggioso. Stare con il Diavolo mi fa provare tutto questo.

A un certo punto, sull’autostrada inizia a piovere così tanto che è difficile vedere oltre il vetro.

«Dovremmo fermarci!», urlo per sovrastare lo scroscio dell’acqua sul parabrezza.

«Sì, so io dove. Ho fame».

«Tu hai sempre fame», mi lamento alzando gli occhi al cielo e cercando di vedere qualcosa fuori.

La pioggia si infrange contro il mio finestrino mentre James parcheggia davanti a un piccolo bar dall’aria scalcagnata. Solo metà dell’insegna è illuminata e leggo: WHERE BA, ma la scritta completa dovrebbe essere NOWHERE BAR.

Il Diavolo inarca le sopracciglia mentre fa il giro della macchina per venirmi a prendere, tenendo un braccio sopra la mia testa per ripararmi dal diluvio.

Chiudo la porta alle mie spalle e mi chino sotto la protezione che mi offre, e ridendo mentre cerco di evitare le pozzanghere ridendo. Quando arriviamo alla porta del locale, James si scuote via l’acqua dai capelli.

Ci affrettiamo a entrare.

C’è un tavolo da biliardo nella sala. Un vecchio juke-box. Qualche tavolo alto, da bar. E un bancone.

«Non penso che ci sia nulla da mangiare qui», lo avviso mentre mi dirigo al bancone; ho intenzione di mettere qualcosa sotto i denti, fossero anche solo olive e noccioline.

James prende posto accanto a me e, indicando il numero con indice e medio, esclama: «Due tequila». Alla mia occhiata sorpresa e interrogativa, mi sorride.

Jimmy

«Tocca a te, obbligo o verità?»

«Verità».

«Scegli sempre quella».

«Perché ho paura di quello che mi faresti fare», replica Lizzy.

«Giusto». Socchiudo gli occhi, lasciandola fremere d’impazienza mentre attende la mia domanda. «Primo bacio. Dove, quando e un voto da uno a dieci».

«Sedili posteriori della macchina del mio ragazzo. Una festa a casa di Sylvia Hollis. Avevo quindici anni. Da uno a dieci? Zero», mormora. Spalanco gli occhi stupito.

«È andata così male?».

Annuisce. Un rossore perfetto le colora le guance. Cavolo, è così carina che non riesco a smettere di sorridere. Sono contento che il suo primo bacio non sia stato niente di che. Mi passa per la testa l’idea di portarla sui sedili dell’Audi e regalarle qualcosa di memorabile; intanto lei piega il capo di lato ed esclama: «Tocca a te, stessa domanda».

Mi sposto sullo sgabello. Ho le gambe spalancate, di fronte a lei, un braccio steso sul bancone e le dita che picchiettano sul legno crepato. Mi viene in mente che il mio primo bacio l’ho dato a una rossa dai seni prosperosi, molto più vecchia di me, in un vicolo buio. È meglio che questo racconto non giunga alle orecchie di Lizzy.

«Non ricordo».

«Ma figurati!», commenta, scuotendo la testa e allungandomi un bicchiere di tequila.

Rido e la bevo, posando il bicchiere vuoto. «Un gentiluomo non parla delle proprie conquiste».

«Tu non sei un gentiluomo», sbuffa alzando scherzosamente gli occhi al cielo. «Non ancora».

Mi piace questa Elizabeth.

Mi piace molto.

La sua sciarpa, sistemata asimmetricamente sul collo, lascia scoperta una porzione generosa di pelle. Ha i capelli arruffati, il trucco rovinato dalla pioggia. È adorabile.

Così tanto che vorrei scavare dentro di lei. Comprenderla. Scoprire tutto quello che c’è da sapere. Con un cenno del capo le dico: «Tocca a te. Obbligo o verità?».

Come se notasse la mia espressione di sfida, mi stupisce rispondendo: «Obbligo».

Inarco le sopracciglia, sconvolto. Mi chino in avanti, incapace di resistere e le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Ti sfido a farti una foto in questo locale e mandarla al tuo buon vecchio paparino».

A giudicare da quanto spalanca gli occhi e dalla bocca semiaperta, non accetta. «Maledetto», sibila. Il rossore torna a colorarle le guance quando mi rivolge un’occhiata giocosa.

«No?». Le do un attimo perché si lasci un po’ andare. Quando mi rendo conto che non ci riesce, faccio scorrere con le dita un bicchierino di tequila sul bancone nella sua direzione. «Bevi, piccola», canticchio.

«Grazie mille, Diavolo», mormora, bevendo tutto d’un fiato.

“Oh”, penso tra me, sorridendo nella mente come lo Stregatto. “Non ringraziarmi ancora”.

Elizabeth

È da un po’ che giochiamo a obbligo o verità. Non ricordo nemmeno quanto ho bevuto. E se James ha detto davvero di essere andato a letto con più di cinquanta donne. Cinquanta! Non riusciva a ricordare il numero esatto. Sono intontita. E un po’ gelosa. Forse più che un po’: molto, direi.

Ondeggio leggermente e osservo i suoi occhi azzurri e diabolici mentre verità e obblighi si susseguono.

Sono frastornata e non mi sono nemmeno ancora alzata. Ed è tutta colpa sua.

Improvvisamente qualcuno accende il juke-box e la canzone Get Outta My Dreams, Get Into My Car di Billy Ocean riempie il locale.

«Oh! Adoro questo pezzo», strillo, alzandomi in piedi e cercando un posto libero dove ballare.

Tiro su le mani e le blocco all’altezza dei polsi sopra la testa, muovo il capo a destra e a sinistra, i capelli ondeggiano insieme ai fianchi, la musica continua.

A questo punto siamo entrambi piuttosto ubriachi.

Mentre ballo, il Diavolo è da qualche parte nel locale, con un migliaio di ragazze in visibilio mentre lui inscena delle mosse alla Michael Jackson.

Quando lo vedo, mi fermo subito. Tutti lo acclamano e battono le mani. Balza in piedi e in quel momento mi rendo conto che mi dispiace molto che non mi abbia mai parlato di questo lato di sé.

«Non sapevo che sapessi ballare come Michael Jackson».

«Allora siamo in due». Mi sorride.

«Cosa?», rido. Mi trascina via dalla folla e dal caos.

«Vuoi andare a casa ora?».

Annuisco e prendo un bicchierino di tequila dal bancone come souvenir. Lo bevo alla goccia.

«Ehi, stronza, quello era il mio drink!», grida un tizio corpulento.

Subito James mi spinge dietro di sé e gonfia il petto con aria di sfida. «Chi cazzo hai chiamato “stronza”, brutto coglione?». Lo spintona.

L’uomo barcolla.

«Chiedi scusa alla mia fidanzata. È un cazzo di onore offrirle da bere. E ora ringraziala perché ti ha concesso di farlo», ringhia, strattonandolo dalla maglietta e obbligandolo a guardarmi.

Il tizio sbatte le palpebre, confuso. «Sì, grazie di aver lasciato che ti offrissi da bere…».

«Vedi?». Sbatte una banconota sul bancone. «Ma in realtà l’ho pagato io». Poi James mi si avvicina, mi afferra il gomito e mi porta fuori dal locale.

Rido istericamente mentre mi accompagna alla macchina. Sollevo lo sguardo verso il cielo e mi accorgo che sta ancora piovendo, anche se molto meno.

Quando James sblocca le portiere, io armeggio con quella posteriore e mi butto sui sedili.

Lo afferro per la camicia e lo tiro a me fino a incollare le labbra alle sue. Si chiude la portiera alle spalle e si sistema in modo da ritrovarsi supino con me sopra. Mi metto a cavalcioni su di lui, mi chino in avanti e mi struscio sul suo corpo. Lo bacio come non ho mai baciato nessuno. Né da ubriaca, né al liceo, né nei miei sogni più spinti ho mai baciato qualcuno in questo modo.

Mi sento giovane e perfetta, non mi importa di aver strappato la sciarpa mentre ballavo. Non mi importa di avere i capelli ingarbugliati a causa della pioggia e sicuramente non mi importa di avere le labbra gonfie e il rossetto sbavato per lui.

Mi solleva la gonna e il top, un soffio di aria fresca mi sfiora la pelle.

Riprendo fiato mentre lui si scosta – lanciandosi gli abiti alle spalle. Mi osserva. È vestito solo per metà e deglutisce nervosamente.

«Sai in cosa ti sei cacciata, Elizabeth? L’atmosfera sta per scaldarsi, piccola».

«Baciami e basta».

Lo tiro a me dal viso e la sua bocca trova la mia; ha un sapore peccaminoso e buonissimo. Il mio corpo freme quando lo stringo a me, i seni schiacciati contro il suo petto mentre la lingua gioca con la mia.

Sento le sue dita palparmi il sedere mentre si tira su e mi divora. Le sue mani sfiorano l’attaccatura delle natiche, facendomi gemere contro la sua bocca. Voglio di più.

Mi struscio contro la sua erezione. Ci separano solo le mie mutandine e i suoi jeans.

Lui ansima, ancora intento ad accarezzarmi il sedere, la schiena, il seno. Vuole che continui.

Lo faccio.

Vuole che sciolga i capelli.

L’ho fatto.

Sussulto e mi scosto per guardarlo. La bocca è tesa in un sorriso malizioso, di quelli che mi fanno fremere e bruciare, di quelli che sono una vera e propria sfida a baciarlo.

E allora torno da lui.

E lo bacio.