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Solo nel suo ufficio, Kunszer ballava stringendo al viso la foto di Katia. Aveva perso ogni contatto con la realtà. La pendola suonò mezzogiorno: lo scorrere del tempo l’aveva sorpreso ancora una volta. Baciò la preziosa immagine e la ripose in un cassetto, poi spense il grammofono. Uscì in fretta dal Lutetia, diretto verso Rue du Bac. Ormai ci andava quasi ogni giorno.

Era metà luglio, il tempo era magnifico: si andava in giro in maniche di camicia. S’incamminò lungo Boulevard Raspail, sul marciapiedi di destra, come sempre; quando percorreva Boulevard Saint-Germain, invece, camminava sul marciapiedi di sinistra, opposto a quello dove aveva arrestato Marie. Accelerò il passo per recuperare almeno un po’ del ritardo.

“Ha un brutto aspetto, Werner,” disse il vecchio, aprendogli la porta ancor prima che bussasse.

Il poveruomo l’aveva atteso con un occhio incollato allo spioncino. Kunszer entrò; nell’appartamento c’era un delizioso profumo di arrosto.

“Le giornate sono lunghe, signore,” disse il tedesco, come per giustificarsi.

“Bisogna dormire, Werner. Di notte, bisogna dormire. A proposito, lei dove abita?”

“Ho una stanza in affitto.”

“Dove?”

“In Rue de Sèvres.”

“È abbastanza vicino.”

“Sì.”

“Allora non può arrivare in ritardo per pranzo! L’arrosto è troppo cotto. Gli inglesi non sono mai in ritardo.”

Kunszer sorrise: il vecchio aveva ripreso le forze. Da qualche giorno, mangiavano persino le pietanze che preparava per il figlio. Lo sbarco in Normandia l’aveva rinfrancato: si diceva che la fine della guerra fosse vicina, quindi il suo Paul-Émile sarebbe tornato presto.

“Pal sta bene,” disse, facendo accomodare a tavola il suo ospite abituale. “Ho ricevuto altre due cartoline. Le vuole vedere?”

“Con gioia.”

Il poveruomo prese il libro sulla mensola del camino, tirò fuori i suoi due tesori e glieli porse.

“Quando tornerà mio figlio? Lei ha detto che sarebbe arrivato presto.”

“Manca poco, signore. Questione di giorni.”

“Di giorni? Che bello! Significa che finalmente potremo partire!”

Kunszer si chiese a che scopo volesse partire, visto che presto i tedeschi avrebbero lasciato Parigi.

“Al massimo due o tre settimane,” rettificò, per concedersi un qualche margine.

Era il tempo che riteneva necessario affinché gli Alleati raggiungessero Parigi.

“Non immaginavo che ci fosse così tanto da fare, a Ginevra,” commentò il vecchio.

“È una città di grande importanza strategica.”

“Non ne ho mai dubitato. Ginevra è una gran bella città… Lei c’è mai stato, Werner?”

“Purtroppo, no.”

“Io sì. Un sacco di volte. Una città magnifica. Le passeggiate lungo il lago, le sculture di ghiaccio sul getto d’acqua in inverno…”

Kunszer annuì.

“Ma Paul-Émile non ha neanche il tempo di venire a trovarmi? Una visita di un paio di giorni…”

“Il tempo è prezioso, soprattutto in questo momento.”

“Oh, certo! I tedeschi sono in rotta, eh?”

“Già.”

“Ed è mio figlio che gestisce tutta l’operazione?”

“Sì. Lo sbarco in Normandia è stato una sua idea.”

“Ah, magnifico! Ma-gni-fi-co!” esclamò il poveruomo, contento ed eccitato. “Che bell’idea ha avuto! È proprio figlio di cotanto padre! È strano, però: per qualche tempo, ho creduto che lavorasse in banca, anziché fare la guerra.”

“In banca? E dove?”

“Ma sempre a Ginevra, accidenti! Non faccio altro che ripeterglielo, Werner: non mi sta mai a sentire?”

Kunszer ascoltava con attenzione, ma non aveva mai capito nulla di quella faccenda della banca a Ginevra, di cui gli aveva parlato anche la portinaia mentre cercava di smascherare Pal.

Il vecchio andò in cucina per prendere l’arrosto. La sua valigia era sempre pronta, accanto all’ingresso, con lo spazzolino da denti, il pigiama, il romanzo, il salame per il viaggio, la pipa e qualche indumento. Non l’aveva toccata. Ormai era passato più di un mese dallo sbarco. Il figlio sarebbe arrivato da un momento all’altro. Il treno per Lione era alle due, gliel’aveva detto lui.

Il gruppo di Key operava congiuntamente con una squadra del SAS, appena atterrata nella regione a bordo di alianti che trasportavano armamenti e jeep. Mentre gli americani marciavano su Rennes, di notte battevano le strade della loro area, attaccando ogni pattuglia tedesca che incrociavano. Key avvertiva il peso della tensione, ma la situazione era cambiata. A poco a poco, i gruppi della Resistenza avevano cominciato a mostrarsi a viso aperto, e lui stesso indossava sempre la sua uniforme. La guerra segreta era praticamente finita: adesso bisognava organizzare agguati, fiaccare e terrorizzare le unità della Wehrmacht. E soprattutto non bisognava affrontarle in campo aperto, perché erano equipaggiate perfettamente e, di conseguenza, erano in grado di stroncare con facilità qualsiasi tipo di attacco tradizionale. Nel Vercors, un gruppo di partigiani assediato da una divisione di SS era stato atrocemente massacrato.

Claude, anch’egli pienamente consapevole della situazione, cercava di frenare le smanie di Trintier e dei suoi uomini, che progettavano attacchi elaborati ma rischiosi: le imboscate dovevano essere semplici e fulminee. Personalmente, preferiva i sabotaggi, compresi quelli sugli assi stradali. Bisognava tener duro fino allo sbarco alleato nel Sud.

Una mattina, mentre il pretino, grondante di sudore al ritorno da un sopralluogo, si lavava, Trintier entrò nella sua tenda. Il marconista aveva ricevuto un messaggio da Londra riguardo a un lancio di materiale, e il capo partigiano era andato a recuperare i contenitori con alcuni dei suoi uomini. Ormai la RAF e l’US Air Force non si facevano più scrupoli a lanciare uomini ed equipaggiamenti in pieno giorno. “Com’è andata?” domandò Claude.

“Molto bene. Abbiamo ricevuto ciò che avevamo chiesto.”

“Tutto?”

“Armi, munizioni… Tutto.”

“Era ora!”

Trintier sorrise, con aria maliziosa.

“Perché ridi?” gli chiese il pretino.

“Da Londra ci hanno finalmente spedito l’istruttore per i lanciagranate PIAT.”

Claude sospirò. Avevano fatto quella richiesta da più di due mesi: erano i rischi che si correvano con l’organizzazione di Baker Street – qualcosa che aveva imparato con il tempo.

“E dov’è, questo genio?”

Trintier lo accompagnò a conoscerlo. Il nuovo arrivato prendeva il sole fuori da una baracca, con la camicia sudata incollata al suo enorme corpo.

“È una bellissima regione, ma…” spiegava l’uomo a un giovane partigiano intimidito dall’imponenza di quell’agente dei servizi segreti britannici.

Claude scoppiò a ridere. Quell’uomo aveva di sicuro tutte le qualità del mondo, ma non era un istruttore.

“Gros!”

Il ragazzone interruppe la sua disamina e trasalì.

“Cul-Cul!”

Si lanciarono l’uno tra le braccia dell’altro.

“Ma che ci fai qui?” domandò Claude.

“Ero al Nord per lo sbarco, ma adesso gli americani se la stanno cavando bene. Allora mi hanno mandato qui.”

“Sei stato a Londra? Hai notizie degli altri?”

“No. È da febbraio che non torno. E mi manca da morire. Mi hanno caricato direttamente su un aereo. Un Datoka… Insomma, un affare degli americani.”

“Un Dakota,” lo corresse Claude.

“Sì, fa lo stesso. In poche parole, m’hanno caricato là e m’hanno scaricato qua. Sai, Cul-Cul, comincio a pensare che questa guerra la vinceremo.”

“Lo spero… Ma mentre tutti si divertono al Nord, qui non sappiamo niente di niente.”

“Non te la prendere. Gli americani stanno per sbarcare in Provenza. Mi hanno mandato come rinforzo per strapazzare i crucchi. E ho anche la consegna di istruire la truppa nell’uso dei PIAT.”

Claude scoppiò a ridere, immaginando i disastri che poteva provocare Gros con un lanciagranate in mano.

“Ma tu lo sai usare?”

“Be’, io ho imparato a farlo, ovviamente. Bastava ascoltare l’istruttore durante la lezione, invece di pensare a Gesù!”

“Abbiamo fatto un corso su quegli aggeggi?”

Gros alzò gli occhi al cielo, fingendosi disperato.

“Bravo, tu salti le lezioni per andare a pregare, e poi non sai che pesci pigliare! L’abbiamo studiato in Scozia. Per fortuna che adesso c’è Gros al tuo fianco.”

Il ragazzone accarezzò la testa di Claude come se fosse un bambino.

Gros aveva compiuto tre missioni di fila: era molto stanco. Pensava spesso all’Inghilterra, alle scuole del SOE, ai suoi commilitoni: tutte cose che gli avevano permesso di trovare un suo ruolo. Grazie alla guerra, era diventato Gros detto “Alain”, e non più Alain detto “il Grosso”. Durante gli addestramenti aveva sofferto più degli altri, ma si era ritrovato in seno a una famiglia: era stato questo ad aiutarlo a resistere. Anche le sue missioni per il SOE non erano altro che un modo per restare con “i suoi cari”, altrimenti vi avrebbe rinunciato da un pezzo. Quei ragazzi erano tutto ciò che aveva sempre sognato: degli amici fedeli, fraterni, amorevoli. Per molto tempo, aveva creduto che la fedeltà fosse appannaggio dei cani, ma poi aveva conosciuto Pal, Laura, Key, Stanislas, Claude e gli altri; non l’aveva mai detto a nessuno, ma solo combattendo quella guerra aveva scoperto che la vita era bella. Grazie a loro, grazie al SOE, era diventato qualcuno. Dopo lo sbarco, in movimento verso la rete in Normandia, era passato a poca distanza da Caen, vicino alla casa dei suoi genitori. Gli era venuta voglia di rivederli, di fargli sapere cos’era diventato. Aveva lasciato quella casa come “Palla di Lardo”, e adesso era un eroe di guerra. Nei momenti di maggior euforia, si diceva che forse non era una persona così mediocre come avevano pensato in tanti.

La sera del suo arrivo all’accampamento, Gros partì con Claude, Trintier e un pugno di uomini per compiere un attentato a un treno che trasportava truppe. Faceva buio tardi, quindi dovettero partire che era ancora chiaro e scelsero un posto ben riparato dagli alberi per collocare le cariche lungo i binari. Trintier si occupò di svolgere il cavo del detonatore fino a una collinetta poco distante, dietro la quale si acquattò: sarebbe stato lui ad azionare il comando. Più avanti, lungo la ferrovia, era appostato una vedetta con un corno da nebbia per dare il segnale. Sparpagliati intorno al luogo dell’operazione c’erano due squadre di tiratori, a protezione: la prima era formata da Gros, Claude e una giovane recluta spaurita, armati di Sten e di Marlin.

“Non è troppo pesante la mitragliatrice?” bisbigliò Gros al ragazzo, per farlo rilassare con la conversazione.

“No, signore.”

“Come ti chiami?”

“Guignol. Ma non è il mio vero nome. Mi chiamano così per prendermi in giro*.”

“Non è una presa in giro,” ribatté Gros, in tono saggio, “è un nome di battaglia. È importante avere un nome di battaglia. Sai come mi chiamano? Gros.”

Il ragazzo non fiatò. Ascoltava attentamente.

“E non è una presa in giro,” continuò, “è una caratteristica, perché sono così a causa di una malattia… Ma tu non puoi saperlo, tu non eri a Wanborough Manor con noi. Comunque, è diventato il mio nome di battaglia.”

Nel buio che s’infittiva, Claude diede una manata al compagno per rimproverarlo di aver divulgato con leggerezza il nome di una delle basi d’addestramento segretissime del SOE. Ma il ragazzo non aveva capito proprio niente.

“Vuoi un po’ di cioccolato, soldatino?” propose il ragazzone.

Il giovane partigiano annuì. Si sentiva rassicurato dalla presenza di quell’imponente agente britannico. Un giorno, l’avrebbe raccontato a tutti. Sperava che gli credessero: sì, aveva combattuto al fianco di un agente inglese.

“Vuoi anche tu un po’ di cioccolato, Cul-Cul?”

“No, grazie.”

Gros si frugò in una tasca. Ne trasse una tavoletta di cioccolato che ruppe in due pezzi; la luce del giorno era quasi scomparsa, e nei cespugli dov’erano acquattati era troppo buio per riuscire a vedere distintamente.

“Buono, vero?” domandò Gros.

“Sì,” disse il giovane combattente, che masticava con molta fatica.

Claude rideva in silenzio. Non era cioccolato, quello: era plastico.

Dopo qualche istante, si udì il segnale del corno, seguito dal rumore del treno che si avvicinava. Quando passò tra gli alberi, ci fu una formidabile esplosione.

* Guignol: “burattino” [N.d.T.].